comune19di Dino Greco –

Capita talvolta che grandi rivolgimenti politici e sociali, malgrado coloro che ne sono stati protagonisti siano stati duramente sconfitti, producano i propri effetti a distanza, e le istanze di allora tornino ad ispirare sommovimenti altrettanto profondi.

E’ ciò che per molti e significativi aspetti si sviluppò in Italia nel decennio che va dalla fine degli anni Sessanta a buona parte dei Settanta.

Anzi, a me pare che si possa affermare senza allontanarci dal vero che l’autentico atto di nascita della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” coincida con la riscossa operaia del 1969, dopo circa vent’anni di latenza costituzionale, segnati più dall’anticomunismo che dall’antifascismo.

Chi non ha vissuto quel periodo, un giovane di oggi, faticherebbe non poco – alla luce del presente – a comprendere le dimensioni di quel poderoso sconquasso che fu tale da mettere in discussione rapporti di potere consolidati, a partire dalla fabbrica, e da investire l’intera società, la cultura, la politica e la produzione legislativa lungo quasi un decennio.

L’elemento di svolta fu il contratto nazionale dei metalmeccanici dell’autunno 1969, conquistato dopo uno vero e proprio scontro campale e 300 ore di sciopero.

Si trattò di un’autentica rivoluzione che investì tutti gli aspetti del rapporto di lavoro.

Il pendolo dei rapporti di forza si sposta potentemente:

forti aumenti salariali dopo anni di stagnazione delle retribuzioni;
superamento delle “gabbie salariali”, in ragione delle quali ad eguale prestazione di lavoro nel medesimo settore corrispondevano, territorialmente, diversi livelli retributivi;
inquadramento unico operai-impiegati;
riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali;
diritto alle assemblee retribuite all’interno dei luoghi di lavoro;
elezione dei delegati e la conquista di un monte ore di permessi sindacali retribuiti dall’azienda.

Nel contratto nazionale dei metalmeccanici successivo, quello del ’73, entrerà anche – sotto il titolo “Diritto allo studio” – la previsione di 150 ore retribuite per il completamento degli studi da parte di lavoratori il cui accesso al lavoro sin da giovanissimi aveva impedito di completare la formazione scolastica.

La polemica si snodò lungo tutto l’arco della vertenza contrattuale.
Ci fu un episodio emblematico, quando Felice Mortillaro, direttore di Federmeccanica, nel tentativo di ridicolizzare le posizioni sindacali e dimostrarne l’inconsistenza domandò al tavolo delle trattative se le richieste comprendessero anche il diritto per i lavoratori di studiare il clavicembalo.

Bruno Trentin, allora segretario della Fiom-Cgil, rispose di sì, affermando per questa via il diritto alla piena autodeterminazione dei percorsi culturali e della domanda di apprendimento che ne discendeva.

Il clavicembalo divenne la rappresentazione simbolica dell’affermazione della libertà operaia di decidere della propria cultura, di scegliere e imporre le proprie priorità dentro e fuori la fabbrica, di rompere una soggezione anche culturale, psicologica nei confronti della classe possidente, di sottrarsi ad una condizione deprivata di ogni ambizione che andasse al di là della propria riproduzione sociale, come forza lavoro consegnata al puro compito di valorizzazione del capitale.

La conquista delle 150 ore si inscrive, dunque, nella strategia di uguaglianza e di unità dei lavoratori che in quegli anni seppe collegare l’egualitarismo salariale alla battaglia per l’inquadramento unico fra operai e impiegati, nell’affermazione di un diritto permanente allo studio come rifiuto della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra la produzione e la scienza.

Il mondo padronale esce tramortito da quell’impetuosa spinta al riscatto collettivo nata sotto l’impulso di una nuova e giovane classe operaia, in gran parte senza storia precedente, emigrata in massa dalle campagne meridionali ed entrata in forze nella fabbrica manifatturiera fordista.

Nell’aprile del 1968, a Valdagno, l’abbattimento della statua di Gaetano Marzotto da parte di migliaia di operaie e di operai, fu la materiale rappresentazione della rivolta contro un potere assoluto, dispotico, contro quell’universo concentrazionario nel quale si esercitava non solo lo sfruttamento ma anche il controllo totale sulla vita dei proletari. Si trattò dell’apertura di una fase acuta della lotta di classe in Italia. E non si può non osservare come quel moto liberatorio rappresenti l’equivalente simbolico dell’abbattimento della Colonne Vendome, che la Comune di Parigi considerò “un monumento alla barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, un’affermazione di militarismo, una negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai vinti, un attentato continuo ad uno dei tre grandi principi della Repubblica: la fratellanza”.

Ebbene, Angelo Costa, storico presidente di Confindustria, dopo la firma del contratto del ’69, vissuta come un’oltraggiosa usurpazione, si dimetterà dal suo incarico sostenendo che il nuovo contratto espropriava gli imprenditori del loro “diritto naturale” a considerare la fabbrica loro proprietà esclusiva, mentre le nuove norme, subite con la forza, li costringevano a finanziare la lotta di classe che veniva portata in “casa loro”.

L’impatto delle lotte operaie investirà tutta la società italiana e condizionerà profondamente la politica e l’attività legislativa per tutta la prima parte degli anni Settanta.

Sono di quel periodo:
lo statuto dei diritti dei lavoratori (1970);
la legge di tutela delle lavoratrici madri (1971);
la legge sul lavoro a domicilio (1973);
la legge sul collocamento degli invalidi (1968).

Nel 1975 viene stipulato l’accordo che fissa il valore della indennità di contingenza (la scala mobile) a 1389 lire a punto, uguali per tutte le categorie e per tutti i lavoratori.

Sono inoltre di quegli anni le “grandi riforme”:
quella delle pensioni (il diritto al pensionamento matura a 35 anni con una rendita del 2% per anno calcolato sull’intero montante retributivo);
quella della sanità (con la concreta affermazione del diritto universalistico alle prestazioni sanitarie);
quella della psichiatria (la “riforma Basaglia”, con l’abolizione dei manicomi);
quella della casa (con la legge 167, che afferma il principio del diritto all’abitazione attraverso la costruzione e l’assegnazione di case di edilizia economico-popolare);
nasce il nuovo diritto di famiglia.

Nel 1974 la battaglia sul divorzio si conclude con la vittoria nel referendum abrogativo della legge promosso dai Comitati civici e sostenuto dalla Democrazia cristiana e dalle gerarchie vaticane.

Ma è lo Statuto dei lavoratori che rappresenta una vera cesura d’epoca, una vera e propria rottura di faglia nei rapporti economico-sociali.

Lo Statuto abbatte le barriere di quella “zona franca”, impermeabile alla Costituzione, che fino a quel momento era stata la fabbrica.

Il padrone incontra per la prima volta un limite cogente, di carattere giuridico, al proprio potere indiscriminato.

Con una formula secca: cambiano in Italia e radicalmente i rapporti di forza fra le classi.

Ma il sindacato stesso conosce una trasformazione originale che ne muta profondamente il carattere in senso democratico.

Lo Statuto dei lavoratori appena approvato dal parlamento prevedeva che i poteri di rappresentanza dei lavoratori fossero affidati alle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) nominate dai sindacati maggiormente rappresentativi (Cgil, Cisl, Uil).
L’investitura avveniva dunque dall’alto e dall’esterno.

Ma il movimento si spinge oltre.
L’esperienza dei Consigli di fabbrica muta radicalmente questa impostazione.
Perché sul campo nasce la figura del delegato di reparto o di gruppo omogeneo (una sorta di collegio uninominale), eletto da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati, attraverso un voto su scheda bianca, dove tutti sono dunque elettori ed eleggibili e dove vige la regola della revoca istantanea del mandato ove questa sia richiesta dal 50 per cento +1 dei lavoratori interessati.

Quelli che nel linguaggio corrente chiamiamo delegati erano in realtà dei commissari, depositari di un mandato imperativo, che in nessun caso espropriava l’assemblea che rimaneva in ogni momento il vero organo sovrano perché – per dirla con Rousseau – “dove c’è il rappresentato non c’è più il rappresentante”, e “la sovranità consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta, o è essa stessa o è un’altra”.

Ma qui interviene una novità assoluta che sta nel fatto che il sindacato decide una cosa assolutamente senza precedenti e cioè di fare cadere su coloro che i lavoratori hanno scelto come propri rappresentanti la nomina di Rsa, munendoli dei poteri formali e sostanziali che la legge assegna alle Rsa.

I consigli dei delegati non sono più soltanto l’espressione diretta dei lavoratori, in una sorta di dualismo di potere: essi diventano il primo livello dell’organizzazione sindacale.

La novità è straordinaria (una volta tanto questo termine non è abusato), perché rappresenta una sintesi originalissima di democrazia diretta e democrazia delegata, dove sono i lavoratori ad avere la prima e l’ultima parola.

Questo intreccio inedito ed unico al mondo fra organizzazione esterna e democrazia di base prelude alla stagione unitaria più feconda del sindacalismo italiano e all’esperienza di unità organica che da lì prenderà le mosse, realizzandosi in modo compiuto, per alcuni anni, con la federazione lavoratori metalmeccanici (Flm).

E’ interessante notare come questa fase di formidabile crescita della democrazia operaia richiami direttamente il biennio rosso 1919-1920 e l’esperienza del gruppo ordinovista di Gramsci, Togliatti e Terracini. E, ancora più indietro nel tempo, come la forma organizzativa dei Consigli si ispirasse, per tanti versi, all’architettura statuale costruita dai rivoluzionari della Comune di Parigi del 1871 ripresa dal Lenin di Stato e rivoluzione.

Ebbene, al punto più alto di questo gigantesco processo di soggettivazione operaia c’è, a mio avviso, la battaglia per la salute in fabbrica, non più delegata al sapere codificato degli “specialisti”, ma assunta in proprio dai lavoratori.

Si tratta della scoperta che l’organizzazione scientifica del lavoro portava, oltre alla fatica muscolare, un nuovo tipo di affaticamento di matrice psichica, la cosiddetta “fatica industriale”, i cui effetti incidevano pesantemente sulla sanità psicofisica dell’uomo, non misurabile con i tradizionali strumenti di rilevazione.

Sul piano scientifico, viene affermandosi il concetto che l’operaio non è soltanto un oggetto della ricerca, ma ne è soggetto, protagonista. Il suo parere diventa non già un’opinabile valutazione da inserire nell’anamnesi, ma un dato scientifico con il quale confrontare gli altri dati rilevabili con diverse metodologie.
Non era più solo il giudizio dell’esperto a stabilire cosa fosse nocivo e cosa no: l’esperienza operaia e il suo racconto diventano un vero e proprio strumento scientifico, un vero e proprio “caposaldo epistemologico”.

La tendenza a chiedere un risarcimento monetario in cambio dei danni subiti dalla salute scaturiva da una riverenza, da una soggezione nei confronti della presunta scientificità di cui il tecnico della salute era portatore.

Al movimento operaio italiano mancava un autonomo punto di vista sulla scienza e sulla tecnologia, ritenuta neutrale e perciò non suscettibile di alcuna modifica.

Ebbene, l’esperienza consiliare recupera interamente Gramsci per ricostruire una “coscienza del produttore” a partire dal gruppo operaio omogeneo e dalla sua capacità di controllare e modificare il processo produttivo: l’elaborazione del “modello sindacale di lotta per la salute” e il valore che in esso era assegnato alla soggettività operaia contribuirono allo sviluppo di un’autonoma capacità di critica e di proposta sull’organizzazione del lavoro.

Parimenti, una leva di medici del lavoro rompe la propria separatezza dal mondo del lavoro, si sente rivalutata nella propria professione e acquista nuova dignità sociale.

L’esperienza consiliare troverà un ulteriore sviluppo, tutto politico, nei Consigli di zona, rete dei consigli di fabbrica operanti in un determinato territorio.

Questa evoluzione, tutta politica, della struttura consiliare, delinea i tratti di un contropotere sociale. Essa muove dalla comprensione, che via via si fa strada, che la conquista di un potere negoziale dentro la fabbrica è fondamentale, ma non sufficiente e che ci sono contraddizioni e problemi che possono essere affrontati solo in una dimensione più vasta.

Si sentono qui gli echi di Lenin, che nel “Che fare” sottolineava come la coscienza politica di classe la si conquista oltre il rapporto fra padrone e operaio, perché lì si vedono i rapporti di tutte le classi fra loro, di tutte le classi con lo Stato, con il potere politico e si giunge ad una visione complessiva della società.

Perché ciò avvenga bisogna appunto capire cosa c’è dietro al padrone, come egli organizza il proprio potere e la propria egemonia e comprendere come il padrone sia sostenuto da tutta una struttura sociale, da tutta un’organizzazione politica e statuale.

La classe non si pone più solo come parzialità, come soggetto sociale deprivato che si difende, impegnato nell’autotutela. La classe assurge ad un livello superiore: essa guarda al tutto dal punto di vista di una parte.

In quella straordinaria stagione i Consigli di zona diventano il riferimento di tutte le lotte sociali, di qualsivoglia natura, che prendono corpo in un determinato territorio.
La prassi sociale che si produce incarna una democrazia di tipo nuovo, fondata sulla partecipazione diretta di masse di donne e di uomini che magari non conoscono nulla del marxismo, ma che il marxismo lo praticano sul campo: è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.

L’effetto di riverbero delle lotte operaie sull’insieme della società è di assoluta rilevanza.

Strati di intellettuali e di piccola borghesia si separano dalle classi dominanti e si uniscono ad una classe operaia e ad un movimento sindacale di cui si riconoscono autorevolezza e forza egemonica.

Persino la tradizionale fatuità e apoliticità della musica leggera italiana ne viene influenzata. La condizione operaia vi irrompe in un modo prima impensabile, persino al festival di San Remo dove i Giganti cantano Proposta (“Me ciami Brambilla e fu l’operari / lavori la ghisa per pochi denari”…).
Ricordo un convegno che promuovemmo negli anni Ottanta come Camera del lavoro di Brescia, a cui invitammo Giovanni Palombarini, fondatore di Magistratura democratica, a parlare di lavoro e Costituzione.

Palombarini ci disse che non si aveva ancora chiara percezione di quale impatto avesse avuto, su una nuova generazione di magistrati, l’irruzione sulla scena sociale e politica italiana del movimento operaio; e di quanto questa nuova leva di giuristi abbia imparato a rileggere la Costituzione con le lenti dello Statuto dei lavoratori, assimilandone non solo la lettera e la norma, ma anche la cultura, profondamente diversa da quella pre-esistente.

Nasce così il Nuovo processo del lavoro e le stesse aule di tribunale che ci vedevano sistematicamente sconfitti nelle cause di lavoro smettono di diventare per i lavoratori luoghi ostili: si comincia a vincere anche nel contenzioso giudiziario.

Il comportamento antisindacale (punito dall’articolo 28 dello Statuto) viene prontamente applicato, la violazione dell’ordine pretorile diventa un reato da codice penale che prevede (cosa inaudita) fino all’arresto.

La reintegrazione nel posto di lavoro ove il licenziamento del lavoratore sia intervenuto senza “giusta causa o giustificato motivo” (articolo 18) sancisce che il padrone non può ledere la dignità del suo prestatore d’opera perché il lavoro – come dice la Costituzione -non è solo il corrispettivo della retribuzione, ma è anche “elemento costitutivo della personalità umana”.

Di più. Nel giuslavorismo di nuovo conio, figlio di questa eccezionale stagione di sommovimento sociale, prende corpo un concetto giuridico di fondamentale importanza: quello in base al quale la legge deve compensare l’oggettiva asimmetria di forze che si stabilisce nel rapporto di lavoro fra datore di lavoro e prestatore d’opera.
E lo deve fare, precisamente, affermando l’indisponibilità individuale del contratto collettivo di lavoro, cioè la sua inderogabilità.
E ciò in quanto “bisogna difendere la parte più debole (il lavoratore) dalla sua stessa debolezza che potrebbe indurla a rinunzie sostanziali perché subite in una condizione di oggettivo ricatto, di oggettiva soggezione”.

Mai come in questo periodo il Paese viene a somigliare con i tratti, i principi, il dettato della sua carta costituzionale.
E ciò avviene proprio in forza di quella soggettività, di quel protagonismo sociale e politico del lavoro che invera al livello più alto il concetto di democrazia progressiva.

Intervento su Comune di Parigi – Versione .docx

 

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