10 Aprile 2019. di Luciana Castellina –

Poiché io giro molto per l’Europa mi capita di sentirmi ancora chiedere: “ma perché fu sciolto il PCI?”. E’ una domanda che non proviene solo dalla sinistra cosiddetta radicale, ma persino dai socialdemocratici, a molti dei quali la cosa continua ad apparire una follia. Non so se in questo trentennale dell’evento Achille Occhetto si interroghi su quella sciagurata decisione di cui è stato il principale fautore, e con lui tutti coloro che l’hanno condivisa. Sarebbe una riflessione autocritica tutt’ora necessaria, anzi – a fronte del pessimo stato attuale della sinistra italiana – oggi tanto più indispensabile.
Non perché sarebbe stato giusto conservare quel partito com’era alla fine degli anni ’80: bisognava cambiarlo nel profondo, e figuratevi se una come me che dal PCI fu radiata nel ’69 per via della vicenda del Manifesto, potrebbe pensare il contrario. Il punto è un altro: cambiare il nome del partito (che equivaleva a scioglierlo, perché farlo significava deleggittimarne il passato) ha inferto un colpo durissimo a centinaia di migliaia di compagni, a un corpo certo ferito dalle pessime scelte compiute negli ultimi tempi e indubbiamente anche dall’esito tristissimo dell’esperienza sovietica, e che però era ancora vivo e militante. Dovrebbe ben far riflettere il fatto che fra il primo congresso, quello dell’’89 a Bologna che lanciò la proposta, e il secondo, a Rimini nel gennaio ’91, che la ratificò, ben 400.000 compagni abbandonarono ogni forma di attività politica: non solo non si iscrissero al nuovo partito partorito, il PDS, ma nemmeno a Rifondazione comunista. Sono semplicemente andati a casa, disillusi, amareggiati, come qualcuno cui è stata spezzata la spina dorsale. Perchè sapevano che l’emergere clamoroso, con la caduta del Muro, dei guai del sistema sovietico, non comportava affatto il suicidio del il PCI, che da quel modello aveva sempre preso le distanze e che, sia pure con ritardo, lo aveva esplicitamente condannato. (E’per questo che, tuttora, se mi si chiede perché mi dico ancora comunista la prima cosa che rispondo è che lo sono soprattutto per via della storia dei comunisti italiani, ortodossi e non, di cui vado tuttora orgogliosa).

castellinaContro quello scioglimento, affrettatamente deciso dalla maggioranza del gruppo dirigente del PCI subito dopo la caduta del Muro (e prendendola a pretesto), noi del Pdup, che pure avevamo dato vita al Manifesto e per questo eravamo stati radiati dal partito vent’anni prima, ci battemmo in prima fila, firmando (Magri e io, entrati a far parte della direzione), assieme a Ingrao, Natta, Tortorella, Chiarante, Grazia Zuffa e Angius, la “mozione numero 2, quella che si opponeva alla proposta della maggioranza. Nel PCI eravamo infatti rientrati nel 1984, su invito di Enrico Berlinguer che, come molti non sanno, era venuto a Milano – dove nel marzo di quell’anno si teneva il congresso nazionale del Pdup – e che, accompagnato da Tonino Tatò, si era seduto in prima fila per ascoltare la relazione di Magri. Fra PCI e Pdup c’era già stato un ravvicinamento, da quando, nell’80, il segretario del Pci aveva compiuto una svolta autocritica rispetto al compromesso storico ed altri importanti punti. Lo aveva fatto con una relazione al Cc che, per via del terremoto dell’Irpinia, si era tenuto a Salerno e per questo fu chiamata, in ricordo di quella compiuta da Togliatti nel ’43 nella stessa città, “la seconda svolta di Salerno”. Finita la relazione di Magri Berlinguer era andato da lui e gli aveva detto: “Ma perché non tornate, adesso che le questioni che ci avevano divisi sono superate? ”E noi, dopo averne discusso con tutti i compagni in un congresso straordinario, accettammo e rientrammo nel PCI. La maggioranza dei nostri iscritti, ex giovani sessantottini, vi entrarono per la prima volta.
Noi eravamo un piccolo partito, e però dotato di qualche migliaio di quadri preparati. Immagino che Berlinguer ne avesse bisogno in una fase in cui lo scontro nello stesso gruppo dirigente del partito era diventato aspro, sopratutto per quanto riguardava il rapporto con Craxi. Purtroppo servì a poco perché Berlinguer , come si sa, morì poco dopo.
Fra le questioni su cui avevamo dissentito nel 1969 c’era il rapporto con il PCUS. Il Pci, è vero, aveva denunciato l’ingresso dei carri armati sovietici a Praga, ma si era limitato a definirlo un “errore”, quando noi ritenevamo si trattasse di un atto ben più grave: la dimostrazione che l’Urss non era più riformabile e che era necessario dirlo. Berlinguer lo disse con una lucidissima frase 10 anni più tardi, quando, nell’80, ruppe ufficialmente i rapporti con Mosca: “La rivoluzione d’ottobre ha esaurito la sua spinta propulsiva”. Una frase importante se si pensa soprattutto a come non pochi dirigenti delle successive incarnazioni del PCI hanno parlato di quella vicenda, negando la validità stessa di
quell’ evento.

E però il tempo conta: dieci anni dopo rispetto a quando noi avevamo posto il problema con un drammatico editoriale di Lucio Magri su uno dei primi numeri del Manifesto rivista intitolato “Praga è sola” eravamo in un altro tempo storico; e la rottura acquistava inevitabilmente un altro significato. Nel 1969, infatti, era in atto nel mondo un esteso spostamento a sinistra: lotte operaie e studentesche in occidente, l’ingresso del terzo mondo indipendente sulla scena politica. I rapporti di forza stavano cambiando, e la critica all’Urss significava rivendicazione di un altro socialismo, più vero. Nel 1980, quando il Pci decise finalmente la rottura, si era, al contrario, in pieno riflusso reazionario, Thatcher e Reagan imperanti. E a questo punto, in quel contesto, la necessaria rottura finì fatalmente, ben al di là delle intenzioni di chi l’aveva operata, per assumere un significato diverso: il socialismo non si può fare. E infatti via via questa divenne la posizione dei brutti derivati del Pci.
Ho accennato alla fine del PCI non solo perché fra tante celebrazioni oramai in voga allo scadere dei decenni proprio questa data sembra non volerla ricordare nessuno, ma anche perché la riflessione di Lucio Magri su quello sciagurato evento mi aiuta a scrivere del suo pensiero come sono stata sollecitata a fare da Gianfranco Nappi. Fu proprio a Magri che i sostenitori della mozione 2 (dopo il primo congresso unificata con la 3 promossa da Cossutta) affidarono il compito di tenere la relazione introduttiva all’ultima assemblea della corrente prima del congresso di Rimini. Che si tenne, affollatissima, dal 28 al 30 di settembre del 1990 ad Arco di Trento, in rappresentanza del 31 per cento del PCI che l’aveva votata nei congressi locali. (Fu pubblicata in un libretto ormai introvabile intitolato “Il nome delle cose” assieme al testo delle conclusioni di Giuseppe Chiarante e all’intervento di Liliana Rampello a nome del gruppo femminista ).

Il 31 per cento del partito non era poco, anche perché ad opporsi c’erano in realtà molti più compagni, quelli che, sfiduciati, se ne erano andati a casa senza partecipare ai congressi. E poi, per chi si ricorda come era allora il partito, è facile capire perché in molti accettarono la decisione della maggioranza. Ricordo ancora il dibattito congressuale in una sezione di Ferrara dove un’anziana compagna, motivando il suo assenso disse: “Se il partito ci chiede anche questo sacrificio – il cambiamento del nome – lo faremo”.
Cito la relazione di Magri a quel convegno di Arco perché vi traspare, anche in quel frangente di scontro, la preoccupazione di non dividere la sinistra, fin dall’inizio affermando che scopo della riunione non era di “chiamare a raccolta le forze per una separazione”, bensì di “enucleare quella che Gramsci definiva la verità implicita anche delle posizioni che si contrastano”; e perciò per “contribuire con idee nuove alla costruzione delle ragioni e delle regole su cui anche componenti diverse possono stare utilmente insieme.” Nonostante la rottura che portò alla radiazione del gruppo de Il Manifesto, infatti, una delle costanti preoccupazioni di Lucio fu sempre quella di tener aperta la strada ad una futura riunificazione del corpo storico comunista, ripetendo sempre che il Pdup si considerava un partito “provvisorio”, il cui più ambizioso obbiettivo consisteva nel creare le condizioni per sciogliersi. (Una frase che sempre suscitava il sarcasmo degli altri gruppi della nuova sinistra).E non a caso il motto del Pdup – proprio per non cedere agli estremismi in voga nella nuova sinistra, resi facili dalle ristrette dimensioni delle nostre organizzazioni che non ci caricavano di rilevanti responsabilità, diversamente da quanto sarebbe stato per il PCI – era una citazione di Santa Teresa di Lisieux :“noi non contiamo niente ma dobbiamo agire come se tutto dipendesse da noi”.

Quella relazione di Arco di Trento è significativa anche per altre ragioni, innanzitutto per la lucida dimostrazione che le difficoltà riscontrate dal partito negli ultimi tempi non erano affatto conseguenza logica di un giudizio sul passato che ci avrebbe obbligato a cambiar il nome per l’impossibilità di mantenere in vita una forza comunista, bensì il risultato di un progressivo allineamento agli imperativi del sistema, dell’indebolirsi del proprio tradizionale ruolo di opposizione, della progressiva subalternità culturale rispetto all’offensiva neo conservatrice che si era scatenata negli ultimi decenni del secolo.
Nel dimostrare la perdurante validità della definizione “comunista” Magri, in quel drammatico scontro sul futuro del PCI, riprende in realtà un filone di pensiero che aveva animato fin dai primi anni ’60 il dibattito interno al PCI e che in occasione dell’XI congresso, nel 1966, fu chiamato “ingraismo”. Perché fu proprio Pietro Ingrao che in quell’occasione, la prima di un esplicito dissenso interno al gruppo dirigente, portò allo scoperto la diversa lettura della società italiana del tempo, e dunque le diverse strategie politiche che da essa derivavano. Se, per dirla molto schematicamente, la società italiana fosse ancora arretrata e perciò alle prese con la modernizzazione o se, invece, pur restando segnata da perduranti sacche di sottosviluppo che vi si intrecciavano, non presentasse ormai tutte le contraddizioni del capitalismo avanzato. E che dunque il progresso, in quell’orizzonte, lungi dal rappresentare positivo incivilimento e sia pur graduale eguaglianza, avrebbe aperto la strada a un nuovo imbarbarimento. Per la prima volta, insomma, modernità e progresso non si presentavano come un dato positivo ma aprivano la strada a decadenza e a società castali. Di qui la necessità di combattere i processi di omologazione e di attrezzarsi ad esprimere un disegno anche più coerentemente antagonista. Che anziché negare riproponeva la validità dell’analisi marxiana più matura, in parte offuscata dalla lettura riduttiva ed economicista del movimento operaio: l’emergere, alimentati dalla stessa modernità capitalista, di nuovi bisogni, quelli che fornirono, qualche anno più tardi, la base materiale della rivolta studentesca e operaia.

L’insistenza sul mantenimento della parola comunista era basata proprio su questa analisi, non solo su un richiamo ideale al passato e tanto meno come riferimento all’esperienza sovietica. Voleva invece riaffermare l’ambizione di saper indicare quel “movimento reale che cambia lo stato delle cose esistenti”, che per Marx era il fondamento del comunismo, per questo conservando la radicalità indispensabile a combattere il sistema anche nelle sue forme più moderne; e però indicando la necessità di rinnovarsi profondamente per far fronte ai nuovi tratti del sistema e per mobilitare i nuovi soggetti capaci di trasformarlo.
Questa polemica era emersa già nei primi anni ’60, e, esplicitamente in un convegno sulle “Tendenze del neocapitalismo” promosso dall’Istituto Gramsci nel 1962 e divenuto in seguito famoso, anche perché Sartre ripubblicò sulla sua prestigiosa rivista -“Temps Moderns”- gli interventi più significativi: fra gli altri quello di Trentin e quello introduttivo di Amendola, così come le sue polemiche conclusioni contro l’intervento di Lucio Magri, che non aveva neppure 30 anni e figurò così accanto a ben più paludate personalità della sinistra. A Magri Sartre chiese anzi di ampliare il suo discorso e proprio qualche mese fa abbiamo casualmente rintracciato una lettera del filosofo francese indirizzata allora a Magri, uno straordinario elogio: “Ho ricevuto il tuo articolo ieri – scrive il filosofo francese – e l’ho letto d’un fiato. Tengo a esprimerti il mio entusiasmo e la mia ammirazione. Il tuo articolo è, a mio parere, il migliore di tutti quelli che pubblicheremo, il solo che vada al fondo del problema e che abbia una dimensione filosofica. Ho ritrovato nel tuo scritto le idee centrali di una introduzione che avevo redatto per questo numero della rivista ma assai meglio espresse di quanto ero riuscito a fare io”. (Fa parte del carattere di Lucio aver abbandonato questa lettera a casa di un amico ed essersela scordata anziché, dato il prestigio del mittente, essersela incorniciata!).

In quella relazione di Arco Magri introduceva anche un altro problema, che aveva peraltro già affrontato compiutamente nelle tesi alternative proposte ( ma poi non sottoposte al voto per via delle perplessità di Ingrao) per il XVIII congresso del PCI (il testo è in appendice del libro di Magri “Il sarto di Ulm”) : quello della crisi della democrazia. Grazie alla sua straordinaria capacità di anticipazione, perché si trattava allora di una tendenza appena annunciata, indicò i rischi della trasformazione del PCI in “partito leggero” che il cambiamento del nome delineava. E cioè di un partito non ideologico, in cui gli iscritti perdono peso effettivo rispetto all’elettorato che aggrega forze su “issues” (cominciò allora l’orribile ricorso all’inglese, oggi diventata prassi costante), e cioè su singoli problemi anziché su una visione del mondo, coì raccogliendo la medietà del senso comune, sempre segnato dall’egemonia del potere. Fu proprio questa trasformazione del partito che portò alle famigerate “primarie”come metodo per selezionare la leadership, tutta dunque affidata ad una opinione pubblica sempre più manipolata e corporativamente segmentata. Una pratica che ha aperto la strada alla trasformazione di un’organizzazione militante – una collettività – in macchina elettorale, intesa a raccogliere consenso attorno a un leader, anziché a conquistare a un progetto alternativo, e a trasformare i cittadini da sudditi in protagonisti. I risultati di quell’indirizzo che ad Arco fu denunciato quando muoveva i primi passi sono oggi, dopo trent’anni, sotto i nostri occhi: le attuali primarie del PD ne sono, al di là dell’affluenza ai gazebo in nome di non si sa bene quale programma e senza interrogarsi sul perché delle precedenti sconfitte, la prova più sconcertante.
Gianfranco Nappi mi chiede di rispondere all’interrogativo: cosa è ancora valido per l’oggi del pensiero di Lucio? Ebbene, io comincerei proprio da questo ultimo problema: la crisi della democrazia che sta investendo la società italiana, ma non solo. Da cui dipende la crisi della sinistra, che della democrazia, dunque del ruolo della politica, ha molto più bisogno di chi ha altri strumenti per imporre i suoi programmi, primo fra tutti la proprietà. E viceversa: perché senza i partiti il modello della democrazia rappresentativa perde di senso, si svuota, e anzi si rovescia nel suo contrario: la diffidenza per le sue istituzioni appaltate a quella che viene chiamata “la casta”, sempre più separata dai cittadini perché fra loro e il potere esecutivo non c’è alcun canale di comunicazione che garantisca la partecipazione al processo deliberativo.

Come rimediare? E’ ancora possibile resuscitare i vecchi partiti? All’inizio del secolo, scrivendo sulla nuova Rivista del Manifesto, che uscì assieme al quotidiano dal 1999 al 2004, Lucio riaffrontò il problema della democrazia e del partito, divenuto nel frattempo drammatico, in termini che a me sembrano attualissimi. Lo fa nel modo più efficace parlando di un libro di Alberto Burgio (“Gramsci storico”) che gli dà lo spunto per riflettere sull’ipotesi avanzata da Gramsci in uno dei suoi scritti dal carcere, in merito ai rischi di autoreferenzialismo dei partiti e dell’autoritarismo dello stato: riprendere la proposta di Lenin sui soviet, intesi non solo in termini di strumenti insurrezionali ma di organismi permanenti di democrazia diretta, sì da creare una utile dialettica nei confronti di partito e stato. Inoltre affidando loro anche il compito di avviare il processo di estinzione dello stato, attrezzandosi a riappropriarsi di funzioni di gestione della società espropriate dalla burocrazia statale. (Un’ipotesi di cui il leader bolscevico parla in Stato e Rivoluzione, e che però viene presto abbandonata nella pratica, così suscitando la precocissima critica all’Urss che Rosa Luxemburg esprime poco prima di esser assassinata nel 1919. )
Magri riflette su questa tematica consiliare in rapporto alla inconcludente discussione sulla “forma partito”che affligge in quegli anni il dibattito della sinistra, sostenendo che la loro democratizzazione non può esser ottenuta con regolamenti o statuti, tanto meno attraverso la loro dissoluzione nella nebulosa di una amorfa società civile. Che serve, al contrario, sottoporli alla dialettica esercitata da organismi di democrazia diretta da costruire nella società. Lucio li pensa come consigli, o più in generale come forme di democrazia organizzata in grado di accompagnare il lungo processo storico necessario al superamento del capitalismo, sede di un esercizio del potere dal basso, organismi permanenti che via via strappano spazi di governo reale e si attrezzano ad esercitarlo.
In questo contesto il partito, che per Gramsci resta decisivo, non appare più come un’avanguardia separata, perché sempre esposto al rapporto dialettico con altre forme politiche. Ma neppure resta una moltitudine appassionata e militante come fu il PCI, sempre tuttavia nelle mani di un gruppo dirigente in qualche modo separato. Un partito dunque in cui la democrazia viene garantita dalla riduzione al minimo della separazione fra dirigenti e diretti, una distanza che per esser colmata ha bisogno di una trasformazione che lo renda fino in fondo intellettuale collettivo.

Si tratta di un discorso troppo astratto e lontano dalla nostra odierna realtà? Non lo credo. Negli anni ’70 abbiamo sperimentato una straordinaria fioritura di nuove forme di democrazia organizzata, penso ai Consigli di Fabbrica e a quelli, più rari ma molto significativi, “di Zona”, a formazioni come Medicina Democratica, Psichiatria Democratica, Magistratura Democratica, persino Polizia Democratica. Che hanno cambiato nel profondo la società italiana. Da allora e pur nel quadro di una controffensiva conservatrice così violenta come quella subita in questi ultimi decenni, abbiano continuato in Italia ad assistere alla crescita di una variegata molteplicità di movimenti, spesso testimonianza della entrata in campo di soggetti alternativi nuovi e diversi rispetto a quelli del passato perchè frutto di contraddizioni di cui solo oggi è maturata la consapevolezza: l’ecologia, la questione di genere, solo per indicare le principali. Sono stati e sono tutt’ora preziosi, e tuttavia non riescono ancora – salvo il movimento femminista – a consolidarsi. Penso al movimento contro la privatizzazione dell’acqua, che ha trionfato nel referendum e tuttavia si è dissolto al momento in cui avrebbe dovuto consolidarsi in consigli locali stabili in grado di gestire la difficilissima concretizzazione di quella vittoria ( investimenti per la manutenzione delle condutture, spreco, ecc.). Ma penso anche alla preziosa rete creata da coloro che lavorano sul tema dei beni comuni, e che tuttavia fatica a uscire dal dibattito teorico per diventare pratica di un nuovo tipo di gestione della società, né privata ma nemmeno statale.Per l’appunto “comune”.

Non sono questi tutti esempi di un’iniziativa politica capace di uscire dalla artrosi politica in cui ci troviamo, e per ridar sangue ai partiti, sempre necessari, ma a condizione che abbandonino la loro tradizione statalista, propria sia a quelli socialdemocratici che a quelli comunisti, tutti puntati alla presa del potere centrale ( per via insurrezionale o parlamentare ), perdendo di vista la premessa essenziale, la conquista della società, indispensabile ad ogni reale trasformazione. Non vediamo oggi come si muovono i partiti? Quasi solo nelle campagne elettorali, in cui si dice: ”se andremo al governo faremo questo o quello”, mai impegnati a costruire quanto sarebbe già possibile costruire nella società: le famose “casematte” di cui Gramsci parlava. Non dico che sia facile, ma a me pare si tratti di spunti oggi anche più interessanti di ieri per il nostro fare.
Pubblichiamo questo testo per gentile concessione della rivista Infiniti Mondi, diretta da Gianfranco Nappi. Il nuovo numero, che contiene anche un’intervista del direttore al filosofo Aldo Masullo, è in vendita da oggi 11 aprile.

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