di Imma Barbarossa –
La politica delle donne nel Partito Comunista era delegata alle Commissioni femminili, dalla Direzione nazionale alle sezioni, le riunioni erano aperte dalla responsabile femminile e concluse dal responsabile organizzazione. Le iniziative pubbliche nazionali potevano essere concluse dal segretario nazionale. Fino agli anni ’80 ci si occupava prevalentemente di occupazione femminile, di welfare e,in qualche caso, di diritti civili. A partire dagli anni ’80 un gruppo di femministe del PCI stabilì una relazione politica con gruppi femministi che basavano la politica delle donne sul pensiero e sulla pratica della differenza. Così dentro il partito cominciò una discussione sul femminismo che coinvolse anche uomini ‘di sinistra’,ossia della sinistra del partito. Si cominciarono a leggere e a discutere i “classici” del pensiero femminista. Si arrivò alla importante VII conferenza delle donne comuniste, conclusa da un significativo intervento di Enrico Berlinguer nel 1984, pochi mesi prima della morte, e poi alla Carta delle donne. Per la prima volta il segretario di un partito comunista analizzava il “maschilismo” dentro il partito. Sulle questioni del lavoro il documento finale sulla “occupazione femminile” chiedeva, fra tanti punti specifici, una riduzione dell’orario di lavoro finalizzata alla “ creazione di posti di lavoro con una limitazione delle ore straordinarie e di tutte le forme di lavoro sommerso”, una “flessibilità di orario non rispondente esclusivamente alle esigenze produttive ma anche a quelle dei lavoratori (e soprattutto delle lavoratrici)”, la contrattazione di rapporti di lavoro a part-time “reversibili e regolamentati anche dal punto di vista legislativo – tesi ad aumentare la base occupazionale,anche come forme transitorie collegate alla formazione e alla scuola”.
Per quanto riguarda il discorso di Enrico Berlinguer, citerei in particolare la critica al governo (Craxi) che “riduce l’occupazione, taglia i servizi sociali e incoraggia soluzioni individuali e private” e il punto in cui Berlinguer parla di “liberazione delle donne che comprende ma supera l’emancipazione”.
Oggi davvero sembra un’epoca lontana. Provo a tracciare alcune linee di riflessione.
La divisione sessuale del lavoro viene da molto lontano. Jahvè cacciò Adamo ed Eva dall’Eden dichiarando che Adamo avrebbe faticato ed Eva avrebbe partorito con dolore. Platone afferma che i filosofi avevano le mogli per la procreazione, le schiave per il piacere sessuale, le etere per il piacere intellettuale. Fermo restando che l’eros per eccellenza era quello fra uomini.
E così alle donne/mogli è stato affidato il lavoro di cura e di riproduzione, agli uomini il lavoro produttivo. Con molte variazioni, ovviamente, a seconda del censo e della classe.
Oggi possiamo dire che lo spazio pubblico si femminilizza ma scompare il conflitto fra i sessi, così la femminilizzazione del lavoro rischia di diventare una risorsa pacificata del capitalismo, in quanto le donne passano dai margini alla inclusione. Sicché la condizione lavorativa delle donne diventa una misura dello sfruttamento generale, una sorta di colonizzazione della vita, di messa al lavoro della vita.
La precarietà, condizione economico/esistenziale di questo nostro tempo, ridisegna completamente le condizioni materiali, le rivendicazioni, gli spazi e i tempi,le significazioni simboliche, le autorappresentazioni.
Il lavoro delle donne, la loro “adattabilità” (antica eredità del lavoro di cura da sempre scaricato sulle donne come destino o doppio lavoro), dicevo l’”adattabilità” a tempi e spazi volubili è diventata una risorsa del capitalismo, in Italia esemplificata recentemente dal Piano di Lavoro dei ministri Carfagna e Sacconi, in cui la cosiddetta ‘lettura di genere’ veniva usata in funzione conservatric. Infatti, come è stato opportunamente notato da studi specifici, nella seconda parte Maternità e famiglia vengono riportate al centro della politica, a partire da un proclamato riconoscimento del “valore della differenza” e da un invito a un patto generazionale, che, secondo un’ottica precipitata oggi nelle proposte di Renzi, significa che chi ha conquistato qualche diritto deve cederlo a chi non ne ha. La diffusione della precarietà logora la vita,invade spazi e tempi: sono generalmente uomini che si suicidano per la perdita del posto di lavoro, perché per gli uomini più che per le donne “portare i soldi a casa” ha a che fare con l’identità e l’autostima. Le donne si immaginano quasi come casalinghe in libera uscita alla ricerca di un salario aggiuntivo, complementare. La richiesta delle donne ( e dei loro movimenti) alle istituzioni ha prodotto interventi legislativi di compromesso, da quelli di parità alle pari opportunità alle leggi per la conciliazione degli orari. Tutte proposte che sfruttano la presunta “adattatività” femminile in funzione di lievi aggiustamenti dell’esistente.
Oggi occorre davvero uno spostamento profondo, un rovesciamento del tavolo, un ribaltamento. Quello che chiamiamo biocapitalismo assimila l’alterità e la differenza femminile in funzione di un lavoro flessibile, per una flessibilità che viene estesa anche agli uomini, sì che stiamo passando dal lavoro come emancipazione al lavoro come schiavitù, ricatto, prendi quel che viene. Da un lavoretto all’altro, ecco la condizione di giovani uomini e giovani donne. Pensiamo al cosiddetto lavoro ‘emozionale’, quello dei call center, in cui la capacità ‘femminile’ di intrattenimento dell’ascoltatore/ascoltatrice, il timbro di voce, la ricerca di una confidenzialità ‘confessionale’ sono valori di scambio, merce quantificabile, esposta sul mercato.
Il patriarcato cambia, si ristruttura, s’insinua nelle vite delle Eve ma anche degli Adami, invade i corpi,ne determina i tempi. Se nella classica divisione tra produzione e riproduzione, in cui la donna in casa era indispensabile per assicurare i bisogni di vita del cittadino/lavoratore fuori casa, oggi la parete domestica può anche nascondere lo sfruttamento di chi lavora in casa in una nuova dimensione non più di capitalismo fordista ma di biocapitalismo. Il lavoro non pagato non è più solo il lavoro di cura, ma tutto il cosiddetto “lavoro autonomo”. Insomma la gratuità e il valore d’uso diventano valore di scambio. Il lavoro di cura (per il proprio uomo e la propria famiglia) diventa cura dell’azienda,con la sottomissione del soggetto precario alle logiche esterne.
Eppure ancora oggi il patriarcato non cede nulla alle donne; già il 1989 in una vertenza Fiat a Pomigliano la Fiom trattò per 350 contratti di formazione; il 60% dei disoccupati erano donne, ma i destinatari dei contratti furono 350 uomini. 100 donne ricorsero al pretore del lavoro (Renzi andava ancora a scuola e all’oratorio) che dette loro ragione in quanto discriminate. Il sindacato apportò una correzione, si arrivò a 336 uomini e a 14 donne. Durante il recente referendum in Fiat furono le donne in particolare a sostenere il NO a Marchionne, ma nessuna donna fu eletta nel consiglio di fabbrica, sicché gli uomini continuarono ad avere la rappresentanza ‘generale’.
Ma oggi il patriarcato sta divorando se stesso (Lea Melandri), il corpo non è più il rimosso dalla sfera pubblica (natura/storia), il corpo femminile è sovraesposto, corpo mercificato, usato come ‘risorsa’, capitale che le donne possono scambiare con carriere,denaro, successo. Sono corpi liberati o corpi prostituiti? Il dibattito è aperto. La richiesta di ‘doti femminili’ viene dalla società maschile, dall’industria della moda, dello spettacolo, del management.
La differenza si mostra nella sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettata, o libertà e creatività esaltate ma politicamente insignificanti, chiusa nella forbice uguaglianza/differenza o impugnata come rivalsa nella società maschile. La flessibilità, in una parte del femminismo, è stata vista
come opportunità di libertà, pacificazione dei conflitti, accettazione di polarità natura/storia, il part-time come gesto di libertà femminile, autodeterminazione nei tempi di lavoro. E il lavoro cognitivo aiuta le donne a considerarsi ‘risorsa’, ‘valore aggiunto’ nella produzione industriale e nei palazzi del potere. “La bellezza è un business, se sei racchia stai a casa” diceva in un’intervista una escort di Berlusconi.
“Il corpo si mette a frutto nel capitale, mentre di tanto lavoro femminile viene data per scontata la “naturalità”: corpi sono anche quelli che spazzano i pavimenti, lavano i gabinetti o fanno le infermiere negli ospedali e che quasi mai sono primari” (Lotta femminista 1973).
1987: Fiat e dipendenti Alfa Romeo, le donne accettano la CIG; 1989: Pomigliano, già detto; 1991 : Fiat di Melfi, la discussione aspra sul lavoro notturno delle donne; ecc. ecc.
Spesso se le donne vincevano vertenze in quanto donne, il sindacato parlava di guerra tra poveri, come oggi a proposito dei lavoratori immigrati. Allora si pensò da parte di alcune avvocate femministe del lavoro a una proposta di legge sulla rappresentanza di genere (“agente contrattuale femminile”), quando in Parlamento si discuteva del testo unificato di leggi sulle rappresentanze sindacali. La proposta si perse nei meandri, ma in tema di rappresentanze sindacali oggi dopo Carfagna/Sacconi, abbiamo Renzi e il PD. Oggi è il regno della precarietà e del ricatto generalizzato. Dentro questo clima il documento “Il doppio Sì” della Libreria delle donne di Milano è apparso come una ‘tradizionale’ valorizzazione delle doti femminili oltre che indifferenza verso qualsiasi ottica di classe che pure attraversa ogni soggettività femminile; di fatto il “doppio Sì” risultava una proposta conciliativa e adattativa all’esistente, un esistente di donne situate nella fascia alta del lavoro subordinato in grandi aziende, una sorta di rifugio individuale. Nessun conflitto né di sesso né di classe. Pensiamo al mondo delle lavoratrici sottopagate, delle donne straniere, delle ‘badanti’, delle donne del mondo colonizzato e sfruttato..
Ora, fin dagli anni Settanta, dal cuore del Movimento Operaio vennero ricche discussioni sulla critica del produttivismo,dell’economicismo, dello sviluppismo, come pure teorie di liberazione non solo del lavoro ma anche dal lavoro.
Oggi, come si dice nell’ambito di studiosi e studiose della precarietà, proprio perché il biocapitalismo si è appropriato del corpo delle donne (ancora più che di quello degli uomini) le teorie del reddito di esistenza possono essere l’unica forma di resistenza, una resistenza capace di ricondurre al soggetto (o ai soggetti) la frantumazione dell’oggetto o, in linguaggio marxiano, capace di connettere la condizione alla coscienza. Secondo queste studiose il reddito di esistenza o di autodeterminazione o il bioreddito non è uno strumento assistenziale, ma un potenziale detonatore di quei conflitti che oggi vediamo completamente sopiti proprio dalla necessità di spendersi solo e completamente nel lavoro per procacciarsi reddito, dentro un meccanismo tragicamente competitivo che punta a corrodere ogni idea di collettività o di “comune”. (Morini).
Come si vede, siamo lontanissimi da quelle proposte di quella VII Conferenza delle donne comuniste conclusa da Enrico Berlinguer nel 1984, ma quelle proposte (riduzione orario di lavoro, flessibilità e part-time non secondo le esigenze delle aziende) ponevano tragicamente dei nodi che sarebbero venuti al pettine in quest’epoca della postdemocrazia, in cui chi c’era nel 1984 si è sottoposto ad un processo di smemoratezza.
Oggi a Taranto, come a Terni,le donne fanno da supporto ai ‘loro’ uomini: con i bambini nei passeggini sfilano nei cortei, ancora una volta in un ruolo di cura dentro uno stato/nazione/regione/Europa che non le comprende, che le riduce a bocche da sfamare: Ma a Taranto le donne urlano, abitano il quartiere Tamburi costruito accanto alla vecchia italsider per comodità degli operai, ma dove i muri sono rossi per le polveri dell’Ilva. Le riviste mediche patinate dicono che il latte materno fa bene ai bambini, ma il latte materno a Taranto è pieno di diossina, come le migliaia di pecore che sono state abbattute. A Taranto la cura si riprende la scena e forse finalmente diventa coscienza.