arditipopolodi Dino Greco –

Gli Arditi del popolo sorgono improvvisamente, nello scenario incandescente degli anni Venti. E ad un certo punto paiono esprimere una luce nuova a cui vanno speranze e adesione delle masse e quasi altrettanto rapidamente – salvo per qualche nucleo locale – spariscono.
La loro storia è per più versi sintomatica del dramma del movimento operaio nel primo dopoguerra, forse la grande occasione mancata dall’antifascismo militante prima della marcia su Roma.
La loro vicenda può essere anche vista come lo specchio dei difficili rapporti esistenti fra le forze politiche del socialismo italiano e quelle correnti combattentistiche che pure riflettono, in modo sin che si vuole confuso, ma spesso non meno sincero, aspirazione socialiste, rivoluzionarie, uno stato d’animo e ideali che si collegano allo stesso interventismo di sinistra, alla concezione della guerra come incubatoio di una rivoluzione e guardano al combattente come alla figura più degna di rivendicare questa eredità insieme sovversiva e patriottica.

La ricostruzione del movimento che se ne può fare ora non fuga forse tutte le ombre che si sono posate su di esso sin dalle sue origini, ma chiarisce almeno due punti fondamentali:
il carattere assolutamente popolare, spontaneo, che il movimento tende ad assumere immediatamente
l’errore straordinario che i partiti proletari commettono nei suoi confronti, accecati dal settarismo, da pregiudiziali dottrinarie, da piccoli calcoli politici, da diffidenza sospettosa per tutto ciò che non proviene direttamente dalle organizzazioni istituzionalizzate nello schieramento operaio.

Confluiscono negli Arditi del popolo eterogenee tendenze, mazziniane, anarchiche, persino qualche ascendente dannunziano. Al suo interno si trovano anche personaggi dalla personalità poco cristallina, ma il tratto antifascista e antiborghese diventa via via più netto e visibile, con accenti nettamente classisti.

In uno dei manifesti si legge:
“Contro la borghesia capitalistica, sfruttatrice e fautrice di movimenti reazionari e conservatori, si levino oggi tutti i lavoratori del braccio e del pensiero!”.
E poi, ancora più nettamente:
“Noi sovversivi non daremo mai il nostro braccio per le tirannie, non ci lasceremo illudere da scopi che non sono i nostri. E saremo i più intransigenti selezionatori di chi vorrà essere tra noi”.

Traspare subito la simpatia dell’Ordine Nuovo verso il nuovo movimento i cui scopi sono nettamente delineati:
“Gli Arditi del popolo sono sorti per difendere i lavoratori dal brigantaggio politico tenuto esclusivamente dai Fasci di combattimento”.
La formazione di questi ‘senza partito’ è accolta con enorme simpatia anzitutto tra i militanti dei partiti proletari.

Dalla centrale comunista si è, al primo momento, esitanti. Il Psi si dichiara subito estraneo al movimento.

Gramsci stesso osserva che gli obiettivi della nuova associazione sono troppo limitati, che il proletariato non si trova di fronte soltanto i fascisti ma “tutto l’apparecchio statale, con la sua polizia, con i suoi tribunali, con i suoi giornali”.
Detto questo, però aggiunge:
“Sono i comunisti contrari al movimento degli Arditi del popolo? Tutt’altro: essi aspirano all’armamento del proletariato, alla creazione di una forza armata proletaria che sia in grado di sconfiggere la borghesia e di presidiare l’organizzazione e lo sviluppo delle nuove forze produttive generate dal capitalismo”.

Ora, questo intervento di Gramsci è tanto più singolare perché appare sul giornale il 15 luglio, il giorno dopo la pubblicazione di un comunicato ufficiale dell’esecutivo comunista in cui si promettono indicazioni precise in merito a iniziative come questa e si invitano i compagni a restare in attesa di disposizioni.
Nel volgere di quindici giorni o poco più giungerà la sconfessione comunista degli Arditi del popolo.

La contraddizione è plateale perché i nuovi Arditi sono comunisti, socialisti, anarchici.
A Torino, ad esempio, fin dal primo annuncio della nuova formazione, diventano e si proclamano Arditi del popolo i componenti delle squadre delle Guardie rosse, e un primo battaglione di 300 armati è costituito alla metà di luglio.
Il manifesto della sezione di Torino recita: “Operai, impiegati, vecchi soldati delle trincee, rivoluzionari sinceri, accorrete a ingrossare il nuovo esercito di difesa proletaria”.

Il carattere unitario e spontaneo dell’organizzazione la sua stessa gracilità di organizzazione testimoniano di uno sforzo popolare di costruire dal nulla una trama di resistenza armata.
Ovunque, in piccoli e grandi centri, si raccolgono fondi attraverso sottoscrizioni popolari, si cercano e si comprano armi. Che tanto slancio si esprima senza nessun incoraggiamento, anzi tra la sospettosa inerzia dei partiti è la prova che la volontà di resistenza nelle masse, o almeno nelle loro avanguardie, ha bisogno assolutamente di un centro di raccolta e di coordinamento.

Così Gramsci in un articolo dell’agosto:
“Le masse operaie, le quali concepiscono concretamente e positivamente la funzione del partito politico, le masse operaie le quali, anche dopo il congresso di Livorno, continuarono ad avere fiducia nel partito socialista, erano persuase che la predicazione della non resistenza al male fosse una mascheratura tattica, che doveva servire alla preparazione minuziosa e perfetta di una grande iniziativa strategica contro il fascismo. Ciò spiega il grande entusiasmo con cui furono accolte le prime apparizioni degli Arditi del popolo, per dare una forma solida e coesa all’insurrezione popolare. Questa illusione è ormai caduta. Le grandi masse popolari devono ormai essere convinte che dietro la sfinge socialista non c’era nulla. Se anche dei socialisti hanno partecipato alla creazione dei primi nuclei di Arditi del popolo, è certo, però, che la fulminea diffusione dell’iniziativa non fu determinata da un piano generale, preparato dal Partito Socialista, ma fu dovuta semplicemente allo stato d’animo generalizzatosi nel paese, alla volontà di insurrezione che covava nelle grandi masse. Ciò fu dimostrato clamorosamente dal “Patto di pacificazione”, il quale non poteva non determinare un ristagno nel movimento di riscossa proletaria”.
Il Patto di pacificazione fra fascisti e socialisti, contro il quale i comunisti non hanno mancato di prendere netta posizione, è indubbiamente un fiero colpo inferto al movimento degli Arditi del popolo.

Ciò che neppure Gramsci spiega è però perché – se così stavano le cose, se tale era lo stato d’animo delle masse in favore degli Arditi del popolo – i comunisti abbiano anch’essi dato l’ostracismo al movimento.

Fatto sta che quattro giorni dopo il Patto di pacificazione, un comunicato dell’esecutivo del PCd’I pronuncia una solenne diffida, minacciando anche “i più severi provvedimenti” ai militanti che vogliano entrare negli Arditi del popolo. Insomma, non si deve aderire a questa organizzazione , né prendere contatto con essa.

Ed ecco la giustificazione della scomunica: i comunisti debbono inquadrarsi soltanto in proprie formazioni militari. Il fine degli Arditi sarebbe semplicemente quello di ristabilire l’ordine e la normalità della vita sociale mentre la lotta proletaria va rivolta alla vittoria rivoluzionaria. E poi, c’è un non detto: gli Arditi del popolo sarebbero diretti da provocatori.

Dalla testimonianza di Francesco Leone:
“Noi avevamo distrutto con le nostre mani, soffocato nella culla, in sostanza, quel movimento che esprimeva un’istintiva volontà di lotta, di unità antifascista, la fiducia di arrestare uniti l’avanzata delle squadre fasciste”. Noi ci trincerammo nelle nostre squadre comuniste che finirono per ridursi ad un pugno di uomini disposti a tutto nel fuoco della lotta che diventava sempre più impari…”.

Non si può dire fino a che punto il movimento avrebbe potuto spingersi. Certo è che quando la violenza fascista riprenderà stracciando col ferro il Patto, il proletariato si troverà scoraggiato e disarmato. Qualche nucleo di Arditi del popolo si attesta qua e là, ma con l’autunno il movimento appare stroncato. Il fatto è che il fascismo ha attraversato una seria crisi nell’estate del 1921 e i comunisti paiono ancor più conquistati all’idea che il fenomeno fascista stia per essere assorbito dalla classe dirigente.

Quando, in settembre, il movimento dei Fasci si trasforma in partito, Togliatti scriverà:
“Noi siamo convinti che il fascismo non sia stato altro che una forma nuova della dittatura borghese. Costituito il partito, il fascismo avrà la sua parte al festino della democrazia, più o meno sociale. Tutti si metteranno facilmente d’accordo”.

Durissima la risposta dell’Internazionale, certo redatta da un esponente molto qualificato del partito bolscevico.
“E’ chiaro- comincia la requisitoria – che agli inizi avevamo a che fare con un’organizzazione di massa proletaria e in parte piccolo-borghese che si ribellava spontaneamente contro il terrorismo…Dove erano in quel momento i comunisti? Erano occupati ad esaminare con una lente di ingrandimento il movimento per esaminare se era sufficientemente marxista e conforme al programma?…Il Pci doveva penetrare subito energicamente nel movimento degli Arditi, fare schierare attorno a sé gli operai e in tal modo convertire in simpatizzanti gli elementi piccolo-borghesi, denunciare gli avventurieri ed eliminarli dai posti di direzione, porre elementi di fiducia in testa al movimento. Il partito comunista è il cuore e il cervello della classe operaia e, per il partito, non c’è movimento a cui partecipano masse di operai troppo basso e troppo impuro”.
La lezione continua: “Il movimento di Zubatov venne organizzato dal capo della polizia segreta moscovita, i moti di gennaio 1905 a Pietroburgo furono diretti dal pope Gapon, semiavventuriero, semispia, che divenne poi una spia completa. Tutto questo ha impedito ai nostri compagni russi di partecipare energicamente al movimento, di smascherare le spie e di attrarre le masse al partito? Al contrario, grazie alla loro partecipazione attiva hanno affrettato la rivoluzione dell’ottobre 1905 perché attraverso tali azioni spontanee sono riusciti a dominare movimenti di massa condizionati dalle vicende storiche”.

La risposta dell’Internazionale si sofferma infine su un altro punto:
“Cari compagni, ci siamo permessi di spiegarvi la nostra opinione sinceramente perché ci pare che abbiate trattato il problema in modo troppo teorico e di principio. Il vostro giovane partito deve utilizzare ogni possibilità per avere contatto diretto con larghe masse operaie e per vivere con loro. Per il nostro movimento è sempre più vantaggioso compiere errori con la massa che lontano dalla massa, racchiusi nella cerchia ristretta dei dirigenti di partito, ad affermare la nostra castità per principio”.

L’esempio della condotta comunista nei confronti degli Arditi del popolo diverrà classico nelle successive polemiche interne del movimento. Si dirà anche che Lenin sia personalmente intervenuto a raccomandare al partito italiano di fare ciò che questo non fece.
Lo affermerà senza mezzi termini Il dirigente tedesco Thalmann nel ’24:
“Al tempo del grande movimento degli Arditi del popolo nel 1921 il partito italiano ha rifiutato di trarre profitto da questo movimento popolare, sebbene Lenin glielo avesse espressamente domandato”.

C’è un testo di Lenin del 1916 che illustra perfettamente la questione:
“La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente (senza tale partecipazione non è possibile nessuna lotta rivoluzionaria); e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere. Colui che attende una rivoluzione sociale pura non la vedrà mai; egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione”.
(V.I. Lenin, Opere complete, Roma, Editori Riuniti 1966, v. XXII, p.353)

Il caso del dibattito intercorso sul problema è una spia preziosa dei caratteri e dei termini del dissenso che si sta aprendo tra il Pci diretto da Bordiga e l’Esecutivo del Komintern. E che avrà pesanti conseguenze negli sviluppi del duro confronto fra Bordiga e Gramsci e nel futuro del PCdI.

Ricevi il documento

 

Tags: