wc02Un saggio dello storico Paolo Favilli tratto dal libro Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva (2001).

“Finito il concetto di una vita, di un sapere tecnico, di un lavoro. Il lavoratore del futuro dovrà essere pronto a un riciclaggio continuo, se non vuole finire accantonato in un mercato del lavoro in perenne riconversione, dove sicuri e tranquilli probabilmente saranno solo i conferenzieri occupati a vendere la necessità di non essere né sicuri né tranquilli” (M. Vázquez Montalbán, 1994)

Vorrei iniziare riflettendo su alcune affermazioni di un grande scrittore italiano: Italo Calvino.
Calvino, agli inizi degli anni sessanta, affrontava, con la consueta “leggerezza metodologica”, il problema della “centralità operaia” nel discorso culturale contemporaneo in uno di quei suoi articoli costruiti in attento e calibrato equilibro tra specifico letterario e teoria della società, ed affermava: “Da più di un secolo a questa parte, il termine “operaio” da denominazione d’una condizione sociale o professionale è diventato elemento esplicito o implicito di ogni discorso culturale. (…) l’operaio è entrato nella storia delle idee come personificazione dell’antitesi”.

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