di Dino Greco –
Naturalizzare l’uomo, umanizzare la natura –
Il disastro ambientale
Comincia a farsi (faticosamente) strada la consapevolezza che siamo sull’orlo di un precipizio. E cioè che gli esseri umani rischiano di essere i soli organismi viventi che stanno distruggendo le condizioni di sopravvivenza della propria specie sul pianeta Terra.
Riscaldamento del globo terrestre (cosa vuole dire l’aumento di due gradi di temperatura)
Emissioni di CO2 fuori controllo
Scioglimento dei ghiacciai e delle calotte polari
Desertificazioni prodotte dai cambiamenti climatici
Inquinamento di aria, suolo, acqua
Deforestazione per fare posto agli allevamenti intensivi
Pesca indiscriminata
Riduzione progressiva della biodiversità
Inquinamento dei mari
Se filtrassimo tutte le acque salate del mondo, scopriremmo che ogni chilometro quadrato di esse contiene circa 46.000 micro particelle di plastica in sospensione.
Numeri impressionanti di un fenomeno che non è circoscritto alle cinque “isole di plastica” in continuo accrescimento negli Oceani ma tocca anche il nostro Mar Mediterraneo.
La più grande isola di plastica è situata nell’Oceano Pacifico, approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord. Si tratta di un enorme accumulo di spazzatura galleggiante (composto soprattutto da plastica).
La sua estensione non è nota con precisione: le stime vanno da 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km² (cioè da un’area più grande della Penisola Iberica a un’area più estesa della superficie degli Stati Uniti), ovvero tra lo 0,41% e il 5,6% dell’Oceano Pacifico.
Il fragile equilibrio della vita marina animale e vegetale è scosso dalla concentrazione sempre più elevata di plastiche di ogni tipo e la catena alimentare sta subendo danni forse irreparabili.
I dati dello studio di Science Advances parlano chiaro: la produzione mondiale di resine e fibre plastiche è cresciuta dai 2 milioni di tonnellate del 1950 ai 380 del 2015.
Oltre 8.300 milioni di tonnellate prodotte in 65 anni hanno reso la plastica uno dei simboli industriali, con cemento ed acciaio, dell’era dell’”Antropocene”, in sostanza l’epoca geologica in cui viviamo in questo momento.
E’ entrata a tal punto nella nostra quotidianità che risulta difficile pensare ad un oggetto che non contenga polimeri, anche in minima parte.
La plastica è infatti il prodotto sintetico a più lunga conservazione, si degrada completamente solo in centinaia di anni.
In questi anni di crescente domanda, solo il 20% della plastica prodotta è stato riciclato o incenerito. Tutto il resto si è accumulato come scarto a terra e in acqua.
Di conseguenza dai 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica finiscono nei mari di tutto il mondo ogni anno, causando l’80% dell’inquinamento marino.
Rifiuti che per i 4/5 entrano in mare sospinti dal vento o trascinati dagli scarichi urbani e dai fiumi. Il resto è prodotto direttamente dalle navi che solcano i mari, soprattutto pescherecci ma anche navi mercantili ed imbarcazioni turistiche di tutte le stazze.
Dalla Fossa delle Marianne ai poli, residui di plastica sono stati trovati praticamente ovunque nei mari e negli oceani.
Bottiglie, imballaggi, reti da pesca, sacchetti, fazzoletti, mozziconi e qualunque altro oggetto in plastica una volta finito in acqua si spezza in frammenti più piccoli per azione dell’erosione e delle correnti.
Ogni minuto più di 33mila bottigliette di plastica finiscono nel Mediterraneo.
Come dimostrato da diversi esperti, questi frammenti, che possono raggiungere dimensioni microscopiche inferiori ai 5 mm di diametro, costituiscono una fra le principali cause di morte per soffocamento di molti pesci ed uccelli marini poiché vengono scambiati per cibo.
A causa di ciò, 115 specie marine sono a rischio, dai mammiferi agli anfibi.
L’ingerimento accidentale di plastica scambiata per plancton o meduse è un fenomeno così comune che il 52% delle tartarughe marine ne ha subito gli effetti.
Si devono cambiare abitudini inveterate
– Ridurre: optare per prodotti con meno imballaggi, borse in stoffa, batterie ricaricabili…
– Riusare: scegliere il vuoto a rendere, il vetro al posto della plastica…
Riciclare: selezionare i rifiuti, adottare la raccolta differenziata…
Riutilizzare: i rifiuti da concepirsi come materie seconde
Recuperare: produrre oggetti diversi dalla loro funzione originale, inventare nuovi utilizzi…
Ma se 17 milioni di tonnellate di plastica sono state trovate perfino nelle remote e sperdute isole Pitcairn, in pieno Oceano Pacifico è evidente che il contrasto all’avvelenamento dei mari causato da questa “zuppa plastica globale” non può essere un affare privato dei singoli come dicono con qualche reticenza e ingenuità le anime belle.
Le decisioni prese dai singoli stati e dalla comunità internazionale sono le uniche che possono abbattere drasticamente l’inquinamento dei mari causato dai rifiuti plastici.
Una recente risoluzione dell’Enviromental Assembly delle Nazioni Unite dedicata al tema è stata rimandata al mittente da parte di Stati Uniti, Cina ed India, i maggiori produttori mondiali di rifiuti plastici.
La strada è quindi tutta in salita perché, a fianco delle necessarie esigenze di salvaguardia e mantenimento della vita degli oceani, si accompagnano interessi economici ed industriali che rifiutano controlli più stringenti ed efficaci.
Gli interessi economici – chiamiamoli col nome che gli compete: il profitto – sono il cuore del problema ed è di questi che ci dobbiamo occupare..
Cito due fra i più devastanti incidenti ambientali.
La Exxon Valdez (1989)
La super petroliera si incaglia in una scogliera di un’insenatura del Golfo di Alaska disperdendo in mare 40 milioni di litri di petrolio, inquinando 1900 km di coste. Muoiono centinaia di migliaia di animali (uccelli marini, lontre, foche, aquile, orche, miliardi di uova di salmone e aringhe).
Il film Waterword (Kevin Kostner)
La Deepwater Horizon (2010)
Era la piattaforma di perforazione della Transocean, sotto contratto con la Bp, che trivellava nelle acque profonde del Golfo del Messico.
Un’esplosione causa la fuoriuscita di petrolio per 106 giorni provocando un’ecatombe senza precedenti di specie faunistiche e un disastro ambientale che coinvolge le coste di Luisiana, Alabama, Florida.
Ma, al di là di singoli esempi che danno solo il senso più eclatante della drammaticità della situazione, è il modo di produzione e i rapporti sociali che lo sostengono a dover essere messo sul banco degli imputati e processato come attentato contro l’umanità.
Con la formazione economico-sociale capitalistica la contraddizione fra uomo e natura è degenerata, nel tempo presente, nella forma di una vera e propria inconciliabilità.
Il delirio antropocentrico si è risolto nell’idea che l’uomo non è un “ente naturale”, ma si colloca al di sopra della natura e delle sue leggi.
L’uomo “crea” la natura e si rende artefice, demiurgo, di una manipolazione che rompe l’equilibrio dentro il quale ha potuto evolversi la specie umana, sino a mettere in forse l’esistenza delle generazioni future.
L’intrinseca follia della teoria e della pratica sviluppista, connaturata al modo di produzione capitalistico, consiste nell’idea malsana che la produzione di merci, il consumo in crescita esponenziale di materia e di territorio possano procedere linearmente, lungo un continuum senza fine.
Alla base vi è la convinzione che sia possibile continuare ad estrarre dal globo terraqueo più risorse di quante la terra e il mare possano reintegrare. Regna cioè l’assoluta ignoranza del fatto, elementare, del carattere finito del pianeta.
Scriveva Einstein in un suo celebre aforisma che “due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”.
Un fil di fantascienza di grande successo di alcuni anni fa, “Matrix”, delle sorelle Wachowski, propone una grande metafora del mondo di oggi, raccontando di un tempo in cui gli umani erano stati soppiantati dalle macchine da essi stessi generate, venendo essi stessi schiavizzati e trasformati in combustibile, in pile da cui estrarre l’energia per il funzionamento delle macchine, i nuovi padroni. A tutto ciò si oppone la resistenza di un drappello di umani che combattono questo nuovo ordine. Ad un certo punto, il capo della resistenza viene fatto prigioniero da un agente delle macchine che gli si rivolge più o meno così: “Io disprezzo voi umani perché non siete dei veri mammiferi. I mammiferi instaurano un equilibrio fra sé e il mondo circostante. Voi no. Voi colonizzate un territorio, lo depredate, poi passate ad un altro. E così via. C’è un solo organismo vivente che si comporta come voi: il virus”.
Ecco, io trovo questa rappresentazione cinematografica perfettamente calzante, perché illustra con caustica precisione lo stato delle cose presente. Gli umani, con metodo e pervicacia, stanno segando il ramo su cui sono seduti.
A questo punto si impone la domanda: perché accade ciò? Si tratta di un’amnesia? Come mai hanno ancora libero corso teorie negazioniste che sembrano ignorare quello che è persino constatabile empiricamente da ognuno di noi?
La ragione è semplice: il capitale, che regola in modo ormai uniforme i rapporti sociali dell’intero pianeta, è totalmente autocentrato. Questo vuol dire che il capitale non ammette né regole né limiti, né vincoli, né condizionamenti che siano esterni al suo codice genetico.
La missione del capitale è quella di creare profitto, di estrarre plus-valore dal lavoro e di soggiogare la natura. Nell’uno e nell’altro caso la voracità onnivora del capitale non conosce inibizioni morali: il capitale, per definizione, è cieco.
La remunerazione del capitale investito ha bisogno come dell’aria dell’economia allargata e la riproduzione del capitale avviene lungo un continuum che non ammette soste.
Accade però fatalmente che quando una parte cospicua degli esseri umani viene talmente impoverita da non essere in grado di assorbire le merci prodotte, cade “tendenzialmente” – come scoprì Marx – il ‘saggio di profitto’. Allora il capitale nella sua proteiforme capacità di trasformarsi e adattarsi alla nuova situazione, mette in atto misure antagonistiche, capaci di fronteggiare la propria crisi di sovraproduzione: dall’aumento del tasso di sfruttamento alla creazione di cartelli, alla finanziarizzazione, attraverso la quale prova a saltare l’anello della produzione per generare l’illusione speculativa che si può creare denaro attraverso il denaro. E, non certo come ultima ratio, il ricorso alla guerra, cioè alla distruzione violenta di forze produttive e di capitale, necessaria per rimettere in moto il meccanismo di accumulazione inceppatosi.
L’appropriazione mediante esproprio dei beni comuni e la messa a mercato di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce lungo un processo di privatizzazione integrale è la strada maestra perseguita oggi dai poteri dominanti.
Le note vicende dell’Accordo di Partenariato Transatlantico (TTIP) e l’Accordo di libero scambio fra Europa e Canada (CETA) sono lì a dimostrare che non esistono più diritti sociali e civili, neppure se sanciti dalle Costituzioni nazionali, che possano essere messi al riparo dal mantra del profitto privato da parte di un pugno di “proprietari universali”, per usare un’espressione cara a Luciano Gallino.
I diritti finiscono di essere tali e si trasformano in bisogni a cui il capitale darà risposte, ma soltanto a quelli solvibili, cioè paganti. Le persone non sono più titolari di diritti e si trasformano in clienti che devono soddisfare i bisogni, anche i più essenziali, acquistandoli sul mercato.
Disuguaglianze e ingiustizie crescono a dismisura in ragione proporzionale ad una concentrazione della ricchezza che nel tempo presente ha raggiunto dimensioni senza precedenti nella storia umana, facendo impallidire i ritmi dell’accumulazione originaria.
Vale qui la pena di ricordare che è stata da tempo e totalmente archiviata la fase “prometeica” del capitalismo, che nei “trenta gloriosi”, con la “dottrina Truman”, prometteva crescita e sviluppo per tutti.
Sin dagli anni Settanta, lo spartito è cambiato e la cattiva coscienza del capitale ha rimesso in ordine tutti i propositi e tutte le gerarchie sociali.
“Non ce n’è per tutti”: questo il nuovo manifesto del capitale transnazionale.
Così, il 28 maggio del 2013, scriveva in un documento di 14 pagine la grande banca mondiale intestata al suo fondatore “John Pierpont Morgan”:
“Il sistema politico dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione, perché lì è forte l’influenza delle idee socialiste”.
Il documento cita, fra gli ostacoli da rimuovere, la tutela dei diritti dei lavoratori e il welfare.
Si dice esplicitamente che c’è in quei paesi un sovraccarico di democrazia e che è necessario spostare il potere dai parlamenti agli esecutivi”.
Ma già nel lontano 1971, David Rockefeller, fondatore del club esclusivo del gotha capitalistico mondiale denominato “Trilateral Commition” affermava che “la sovranità sovranazionale di un’élite intellettuale e di banchieri mondiali è sicuramente preferibile alle autodeterminazioni nazionali dei secoli scorsi”.
Il cosmopolitismo, la dimensione mondo, diventa il terreno su cui si esercita il dominio del capitale. Un dominio senza egemonia che incontra nella democrazia e nella sovranità popolare altrettante gabbie che debbono essere abbattute.
Il mito del PIL (Prodotto Interno Lordo)
Oggi siamo tutti soggiogati (non solo gli addetti ai lavori) da una pseudo-scienza economica che pretende di misurare il benessere sociale attraverso la crescita del PIL, divenuto nientemeno che un caposaldo epistemologico imprescindibile.
Tutta l’architettura finanziaria dei trattati europei, da Maastricht in avanti, ne è colma: il rapporto deficit/pil e debito/pil sono diventati la cartina da sole dello stato di salute dei paesi membri, le coordinate entro le quali si deve obbligatoriamente stare, pena procedure di inflazione e pesanti sanzioni economiche.
Ma cos’è il PIL?
Andando a ritroso nel tempo, vale ricordare quello straordinario discorso (per il pulpito da cui veniva e per il tempo) pronunciato nel 1968 all’università del Kansas da Robert Kennedy, un discorso nel quale il futuro candidato alle presidenza degli Usa attaccava l’inadeguatezza del PIL come indicatore del benessere delle nazioni economicamente sviluppate:
«Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
Difficile dire meglio.
Cosa non vede e dunque non contabilizza il Pil?: lo stato di salute fisica e mentale, il grado di istruzione, la qualità dell’aria che si respira, del cibo di cui ci si nutre, dell’acqua che si beve.
Wim Dierckxsens, un economista olandese non ortodosso che oggi insegna presso l’università del Costa Rica, scrive nel suo “La Transizione al postcapitalismo, un’alternativa per la società del XXI secolo” che
“il PIL non prende in considerazione la ricchezza naturale e neppure lo sfruttamento e il deterioramento dell’ambiente. Per ironia, il calcolo attuale considera come produttiva ogni attività svolta per riparare i danni provocati alla natura, anche se non considera come costo la perdita di ricchezza naturale precedentemente provocata. Il PIL, quindi, considera l’uso di risorse naturali come fonte di entrate e di ricchezza, ma non contempla la simultanea perdita di ricchezza e di risorse naturali. Già tale questione costituisce un problema quando si tratta di risorse rinnovabili, ma diviene ancor più grave quando si tratta di risorse non rinnovabili. Il PIL, inoltre, non considera neppure il deterioramento della salute della popolazione come perdita di ricchezza, ma calcola come entrata e creazione di ricchezza il recupero ospedaliero della salute perduta. Il neoliberalismo va ancora più lontano e considera produttiva, e fonte di sicuro guadagno, qualsiasi privatizzazione dell’assistenza medica e improduttivi i fondi destinati dal Governo al sistema sanitario pubblico per curare le persone meno abbienti. Ancora più improduttiva viene considerata la prevenzione e si ritiene che i costi sostenuti dal governo in questo settore dovrebbero essere limitati il più possibile. Da ciò si comprende la distanza abissale esistente tra una concezione di ricchezza come benessere, vista nel suo contenuto, cioè a beneficio delle necessità reali, e la concezione fondata sulla ricchezza monetaria, vista secondo la razionalità del mercato”.
E ancora :
“Ignorando il contenuto della ricchezza, il PIL non inserisce fra le perdite la riduzione della vita media dei prodotti e della tecnologia, che accelera la riproduzione e la vendita di articoli praticamente identici per rispondere alla medesima necessità o, peggio ancora, per soddisfare un desiderio creato artificialmente dalla pubblicità. In un’analisi che si basa sulla forma, cioè sulla semplice ricchezza monetaria, questo atto viene percepito come creazione di ricchezza nuova e, quindi, considerato un aumento del PIL. Dal punto di vista del contenuto e del benessere reale, tuttavia, abbreviare la vita media della ricchezza prodotta significa raddoppiare il lavoro necessario per soddisfare, praticamente, lo stesso bisogno. Visto nell’ottica del contenuto, è uno spreco di ricchezza che potrebbe essere destinata a soddisfare i bisogni e le masse degli esclusi”.
Dierckxsens propone un indicatore alternativo al PIL, fondato sul preliminare imperativo che non vengano prese dalla natura più risorse di quelle che, a lungo termine, possano essere sostituite dalla natura stessa.
Si tratta dunque di fondare un modello in cui la biodiversità occupa il cuore stesso di un’economia alternativa orientata verso la vita umana, perché – insiste Dierckxsens – “creare boschi utili per il futuro sfruttamento, non solo sacrifica la diversità forestale, ma anche la flora e la fauna che vi vivono (…). Un ettaro di bosco primario non può essere sostituito con un ettaro di riforestazione commerciale”.
In sostanza, ogni perdita della vita naturale è perdita di ricchezza e un costo irreparabile per le generazioni di oggi e per quelle future.
Ho già sottolineato come il capitale, al fine di garantire la propria riproduzione, fissi la durata dei prodotti generati, come una sorta di dispositivo di autodistruzione.
L’esito perverso di questo meccanismo è che mezzo mondo, quello più povero, funziona da discarica di quello ricco.
Anni fa, nel corso del Forum sociale mondiale che si svolse a Nairobi, in Kenya, a cui partecipai con una delegazione della Camera del lavoro di Brescia, vistai Korogocho, una baraccopoli fra le centinaia disseminate in ogni parte del globo.
Korogocho è costruita su una montagna di rifiuti prodotti nella parte ricca di Nairobi, quotidianamente sversati nella favela dove in 1,5 km2 vivono, ma la formula è eufemistica, 200mila persone. I bambini razzolano come galline in mezzo ai rifiuti per recuperare tutto ciò che può servire alla sopravvivenza, in una situazione in cui infezioni, malattie di ogni tipo, mortalità infantile, degrado fisico e morale, rappresentano la cifra dello standard di vita normale.
Qui il capitalismo si mostra nella sua più brutale essenza ed è plasticamente raffigurato come la realtà di un mondo capovolto.
Ora, Karl Marx ci ha mirabilmente spiegato come all’origine di tutto ciò vi sia una questione cruciale, consustanziale – direbbe il filosofo – al rapporto di capitale.
Cos’è infatti il capitale? Il capitale non è solo un ammasso di merci, di macchine, di mezzi finanziari, di lavoratori; il capitale è, prima di ogni altra cosa, un rapporto sociale che oggi come due secoli fa, nel suo archetipo come nella più spinta modernità divide gli esseri umani in due parti nettamente distinte: coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione ed un’altra parte, infinitamente più grande, che vende alla prima la propria forza lavoro la quale nel processo di produzione riproduce anche se stessa, appunto, come forza lavoro.
Ma il contratto fra capitale e lavoro è solo in apparenza una libera pattuizione perché la parte più debole, il lavoro, è costretta a subire il peso di rapporti di forza che ne condizionano il potere di contrattazione.
Sulla natura di questo patto si espresse in termini sarcasticamente fulminanti Jean Jacques Rousseau, in un passo del suo Discorso sull’economia politica del 1775, che si meritò una citazione letterale di Marx nel primo libro del Capitale: “Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi”.
Sempre Rousseau, ben conosciuto dal Moro, scriveva una pagina indimenticabile nel suo Discorso sull’origine dell’ineguaglianza fra gli uomini che malgrado l’ampia notorietà che si è guadagnato voglio qui ricordare:
“Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: ‘questo è mio’, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero inventore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: ‘guardatevi dall’ascoltare quell’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno’”.
Il misfatto originario, quello che sta alla radice del processo di accumulazione originaria, è dunque un atto predatorio di cui esseri umani e natura sono le vittime sacrificali. Se non se ne viene a capo, se non si rimette sui piedi ciò che cammina sulla testa, se non si fonda un mondo in cui alla produzione sociale corrisponda la proprietà sociale dei beni prodotti, il destino del genere umano è segnato. E con esso viene inesorabilmente compromesso il ricambio organico fra uomo e natura.
A questo punto, si pone, più che legittima, una domanda: come mai l’ormai totalità del pianeta è soggiogata da un rapporto sociale che lascia nella deprivazione sterminate masse di esseri umani e perpetra un cieco saccheggio delle risorse naturali? Come mai non si riesce a rompere questa soggezione verso forze così manifestamente ostili?
Ebbene, alle classi dominanti, storicamente vittoriose sul movimento operaio e socialista, è venuta in soccorso un’arma potente: l’ideologia.
Si è costruita un’intera narrazione fondata sulla dichiarazione che “ciò che è reale è razionale”, che al mondo dato non esiste alternativa e che la storia umana è giunta al suo epilogo (“there is no alternative”, non c’è alternativa, riassunto nell’acronimo T.I.N.A).
Il capolavoro delle classi dominanti è stato poi quello di convincere le classi subalterne, il proletariato – per dirlo con un’espressione classica – che non esiste come classe e che nella società moderna non vi sono sfruttatori e sfruttati ma solo liberi individui padroni e responsabili del proprio personale destino.
Nel passato la risposta storicamente determinata è stata la rivoluzione, la presa del potere da parte della classe operaia o, più precisamente, della propria avanguardia politica.
La sconfitta di quell’esperimento profano, secondo l’espressione di Rita Di Leo, ha lasciato un vuoto terribile.
I pionieri del socialismo utopistico, Charles Fourier e Robert Owen, avevano promosso sperimentazioni di comunità autogestite, imperniate sull’idea di una progressiva trasformazione molecolare della società.
Nessuna di esse è sopravvissuta ai giorni nostri.
Oggi, in un mondo ormai ridotto ad una dimensione sola, quella del capitale, possiamo annoverare solo tenaci esperienze di resistenza.
Quella dei Sem Terra brasiliani è forse la più importante perché contiene il seme di una società nuova.
Poi ci sono le Ert, le 300 “fabbriche recuperate” argentine, ma si tratta di risposte sì importanti, ma essenzialmente difensive alla crisi, nate sotto uno stato di necessità, fondate sulla parola d’ordine lanciata proprio dai Sem Terra: “occupare, resistere, produrre”.
Si tratta di enclavi di resistenza, realtà mediamente di trenta/quaranta lavoratori e lavoratrici, la cui autonomia e la cui stessa natura sono costantemente minacciate dai condizionamenti del mercato e dell’ingranaggio capitalistico con il quale sono costrette a fare i conti.
Dedicheremo a questo tema una specifica sessione del nostro corso di formazione.
Per ora vi suggerisco la lettura del bel libro di Andrés Ruggeri, Le fabbriche recuperate, edizioni Alegre.
Per ultimo, vorrei affrontare la questione del rapporto sino ad ora irrisolto quando non apertamente conflittuale fra movimento operaio e movimento ambientalista o, per meglio dire, fra movimento operaio e coscienza ambientalista.
Si tratta, in realtà, di una cesura storica.
L’industrialismo degli anni Cinquanta, figlio della ricostruzione post-bellica e del cosiddetto “miracolo economico” è stato segnato da una convinzione diffusa, che sembrava inverare un classico assunto marxiano, quello secondo cui capitale e lavoro si sviluppano insieme.
Questo paradigma ha dominato per un lungo periodo ed ha influenzato, in Italia, lotte straordinarie.
Ne ricorderò due, di diversa natura ma di eguale, formidabile intensità.
La prima si sviluppò durante il contratto integrativo di una delle più importanti imprese tessili italiane, la Niggeler & Kupfer, proprietà tedesca, amministratore delegato e direzione generale italiana.
L’azienda era una holding che constava di sette unità produttive disseminate essenzialmente nel nord-ovest del paese.
La piattaforma sindacale prevedeva aumenti salariali, riduzioni dell’orario di lavoro, passaggi di qualifica e un piano di investimenti che domandava una cosa effettivamente straordinaria: il plafonamento degli investimenti al nord e la destinazione di quelli aggiuntivi al sud, secondo una strategia che puntava a portare fabbriche e lavoro al Sud.
Si trattava di una linea che conteneva un certo tasso di ingenuità ed un’idea essenzialmente quantitativa dello sviluppo che doveva essere trapiantato nel Mezzogiorno.
Ma la generosità della lotta che si ingaggiò fu veramente straordinaria. Costò molte ore di sciopero e la vertenza si chiuse solo quando l’azienda si piegò a sottoscrivere un accordo che prevedeva la costruzione di un impianto tessile negli Abruzzi, la Manifattura di Roseto degli Abruzzi, appunto.
Difficile e nel tempo presente difficilmente immaginabile l’entusiasmo che si diffuse fra i lavoratori, soprattutto donne, alla firma dell’accordo. Lì capivi che la solidarietà era un sentimento profondamente interiorizzato nella classe.
La seconda si svolse negli anni Novanta alla Valsella meccanotecnica di Montichiari (Bs), con sito produttivo in Castenedolo (Bs) specializzata nella produzione di mine anti-uomo che furono vendute in ogni dove e, in particolare, in Iran e Iraq nella guerra che provocò un milione di morti.
L’azienda era dei flli. Borletti e della Fiat, che dismise il suo pacchetto azionario solo quando l’Italia aderì alla moratoria contro le mine anti-uomo.
Gli effetti disastrosi della disseminazione delle mine senza mappatura furono descritti in tutta la loro drammaticità da Emergency.
Da quella denuncia prese corpo una campagna contro la produzione e l’utilizzo di queste armi di distruzione indiscriminata di massa, una campagna che si concluderà con successo nel ’97 con la messa al bando delle mine anti-uomo.
La campagna non poteva non chiamare in causa la Valsella e, fatalmente, quanti e quante vi lavoravano: un pugno di tecnici addetti alla progettazione, profumatamente pagati e una quarantina di operaie addette alla produzione con salari non superiori alle 900 mila lire mensili.
E’ a loro che ci rivolgemmo per discutere della necessità di porre fine a quelle produzioni.
La prima assemblea fu durissima. Le operaie rifiutavano di essere assimilate a coloro che avevano le mani sporche di sangue. Concordammo allora un incontro in Camera del lavoro con Gino Strada. Lì fu proiettato un documentario agghiacciante che ebbe sul Consiglio di fabbrica un effetto catartico.
Da quel momento iniziò un processo rapido di maturazione e di presa di coscienza che sfociò in uno sciopero a oltranza che si protrasse per mesi. Vi parteciparono tutte le donne, addette alla produzione. A loro non si unì nessuno dei progettisti.
Con l’agenzia regionale per la riconversione furono elaborati progetti alternativi, che sfruttavano le tecnologie esplosive delle mine per produrre airbag, dispositivi per lo svitamento in cunicoli stretti, tecniche di esplosione in verticale per la demolizione di edifici vetusti. Ma la Valsella non intendeva abbandonare la produzione straordinariamente lucrativa delle mine. Dovette cedere quando il governo decise di aderire alla moratoria internazionale della produzione delle mine.
La situazione economica era terribile, malgrado il credito che gli esercenti facevano alle operaie in lotta e alle loro famiglie. A questo punto, come non sempre accade, un colpo di fortuna. Si fece avanti un’azienda che operava nel settore automotive, la Vehicle Engineering&Design, che si dichiarò disponibile a rilevare la Valsella per costruire motori a trazione elettrica: un salto di qualità clamoroso, salutato con entusiasmo dai lavoratori. Ma l’offerta conteneva una condizione: la disponibilità dei lavoratori a consentire la vendita alla Spagna dell’Istrice, un marchingegno brevettato dalla Valsella che serviva alla distribuzione dall’alto delle mine, ovviamente senza mappatura. L’incasso sarebbe servito anche a pagare ai lavoratori le tante mensilità arretrate accumulate.
Si svolse un’assemblea drammatica: spettava alle lavoratrici decidere se rifiutare l’offerta e ricominciare da capo o accettarla con le conseguenze intuibili.
Ricorderò per sempre quei momenti. Nel silenzio totale prese la parola una delle tre delegate del consiglio di fabbrica e disse: “Sentite, abbiamo fatto tanta strada insieme, in tutti i sensi; siamo cresciute, abbiamo capito che a volte nella vita occorre assumersi delle responsabilità che vanno oltre le proprie convenienze. Ora, dopo tutta questa lotta, cosa dovremmo fare? Dovremmo scambiare la nostra dignità per questi quattro soldi? Sì, lo so, riprenderemmo il lavoro, in un modo degno, e ne abbiamo bisogno tutte, ma ogni giorno ci ricorderemmo che non abbiamo avuto il coraggio di andare fino in fondo e resterebbe una macchia su ognuna di noi. Sapete allora cosa vi dico?: nessun compromesso. Di qui non esce niente, nemmeno il progetto di quel maledetto istrice”.
Si votò. E la proposta della delegata venne accettata. Era un venerdì sera. Tornammo al sindacato e scrivemmo alla Vehicle Engineering&Design per comunicare la decisione delle lavoratrici, condivisa dal sindacato. E invitammo l’azienda a ripensare le condizioni poste e a confermare l’offerta d’acquisto, senza condizioni.
Il secondo colpo di fortuna fu che lunedì l’azienda rispose, rinunciando a quanto aveva chiesto.
Nei giorni successivi si svolse una grande manifestazione, con un corteo che si snodò da Brescia a Montichiari. Gli stampi delle mine furono bruciati in piazza. Tutti i progetti furono consegnati al Ministero della difesa.
Mi sono diffuso nel racconto di questi due episodi, espressione di quella che un tempo nominavamo come lotta di classe, ma altri meriterebbero di essere ricordati, perché grandi battaglie furono combattute in quegli anni, animate da una straripante generosità politica, da una nitida coscienza di sé e da un alto senso morale, uniti alla consapevolezza assai forte nei lavoratori e nelle lavoratrici di appartenere ad una comunità di destino.
Per l’ambiente non è andata così.
Brescia, la stessa città protagonista delle lotte appena ricordate è oggi sotto i riflettori come uno dei territori più inquinati d’Italia.
Ci sono ragioni più recenti, ampiamente note, ed altre più antiche, che portano il segno dell’industrializzazione selvaggia, del saccheggio del territorio, dell’inquinamento delle falde acquifere. In quel tempo allo sviluppo, all’occupazione si poteva sacrificare tutto il resto.
Brescia, come gran parte del Nord, è stata per lunghi anni una realtà dove il tasso di disoccupazione non ha mai superato dimensioni fisiologiche. E tanto bastava.
La tutela dell’ambiente non è mai entrata nell’orizzonte delle preoccupazioni di un movimento operaio pur forte come quello che negli anni Settanta, Ottanta e per trascinamento persino oltre, ha segnato di sé la vicenda sociale del nostro paese.
Poi, negli anni della crisi, della distruzione di posti di lavoro, il movimento operaio e sindacale è rinculato su se stesso e le lotte per la difesa del posto di lavoro, spesso senza alternative, hanno rimosso ogni altra priorità, accentuando, se possibile, la frattura fra l’istanza del posto di lavoro e quella della tutela ambientale, a sua volta interpretata da un movimento ambientalista privo di storia sindacale.
Sono infiniti gli esempi, in qualche caso clamorosi, di frattura e di contrapposizione che si sono consumati, il più delle volte con esiti infausti per entrambi i fronti.
L’Icmesa di Meda
Disastro Seveso è il nome con cui si ricorda l’incidente, avvenuto il 10 luglio 1976 nell’azienda Icmesa di Meda con la fuoriuscita e la dispersione di una nube della diossina TCDD, una sostanza chimica fra le più tossiche. Il veleno investì una vasta area di terreni dei comuni limitrofi della bassa Brianza, particolarmente quello di Seveso.
Il disastro, che ebbe notevole risonanza pubblica e a livello europeo, portò alla creazione della direttiva 82/501/CEE nota anche come Direttiva Seveso. Si trattò del primo evento nel quale la diossina era uscita da una fabbrica e aveva colpito la popolazione e l’ambiente circostante. Secondo una classifica del 2010 del periodico Time, l’incidente è all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia. Il sito americano CBS ha inserito il disastro tra le 12 peggiori catastrofi ambientali di sempre.
Uno studio pubblicato nel 2008 ha evidenziato come ancora a 32 anni di distanza dal disastro gli effetti, misurati su un campione statisticamente ampio di popolazione siano elevati.
I vegetali investiti dalla nube si disseccarono e morirono a causa dell’alto potere diserbante della diossina, mentre migliaia di animali contaminati dovettero essere abbattuti. La popolazione dei comuni colpiti venne però informata della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube. Nell’area più inquinata il terreno fu depositato in vasche. Fu apportato un nuovo terreno proveniente da zone non inquinate ed effettuato un rimboschimento che ha dato origine al Parco naturale Bosco delle Querce.
L’Acna di Cengio.
L’Acna (acronimo che sta per Azienda Coloranti Nazionali e Affini) presso Cengio, in provincia di Savona) era in mano all’ENI tramite la sua consociata EniChem.
Per quasi 30 anni, i comuni piemontesi segnalarono di continuo casi di inquinamento dei pozzi e delle falde, causate dalla presenza dello stabilimento. I danni erano spesso evidenti a occhio nudo: le acque si tingevano di strani colori e puzzavano per qualche giorno, poi la situazione sembrava migliorare fino al successivo episodio. Indagini e accertamenti avrebbero in seguito dimostrato una scorretta gestione dei rifiuti tossici, con sversamenti delle sostanze nelle acque di scarico, che finivano poi nel fiume.
Da un lato c’erano gli abitanti di Cengio e degli altri comuni liguri che beneficiavano dell’occupazione offerta dalla fabbrica, mentre dall’altra c’erano i piemontesi che dovevano fare i conti con l’inquinamento causato dall’impianto e che attraverso la Bormida interessava buona parte del fondo valle fino alla confluenza del fiume con il Tanaro, nei pressi di Alessandria.
Morti sospette per cancro alla vescica spinsero i sindacati a costituirsi parte civile, ma questi si ritirarono dal processo su pressioni da parte dell’azienda. I sindacati confermarono la posizione mantenuta per decenni, dimostrando l’interesse per il mantenimento dei posti di lavoro, che superava quello per tutelare l’ambiente e la popolazione della val Bormida.
Lo scontro divenne durissimo. Nel 1988 una grande manifestazione coinvolse oltre 8mila persone, ma anche in quel caso i sindacati furono dalla parte dell’azienda. Lavoratori da una parte con i distintivi distribuiti dal sindacato che su un cuore rosso portavano la scritta I love Acna, e dall’altra cittadini che chiedevano la chiusura dello stabilimento.
Il 23 luglio 1988 alle 8 del mattino una densa nube bianca si levò dallo stabilimento ACNA di Cengio. I gas tossici di oleum, una miscela di acido solforico e anidride solforica, furono rapidamente trasportati dal vento verso Saliceto e altri comuni piemontesi della val Bormida, causando grande preoccupazione tra gli abitanti.
L’ennesimo disastro portò a nuove manifestazioni da parte degli attivisti piemontesi, richieste al governo di intervenire e ancora polemiche con i sindacati. Fu disposta una chiusura dello stabilimento per un mese e mezzo a partire da agosto, in attesa di un piano per risanare e mettere in sicurezza il sito produttivo.
La proposta di costruire nell’area dell’ACNA un inceneritore per recuperare i solfati portò a nuove proteste, ma l’anno seguente il piano fu approvato dalla regione Liguria.
Dopo avere scoperto la presenza di sostanze inquinanti che finivano chiaramente nella Bormida, le associazioni intensificarono i loro presidi intorno allo stabilimento ACNA, con una presenza 24 ore su 24.
Le loro iniziative furono raccontate sui media nazionali in alcune trasmissioni, come quelle sulla RAI di Michele Santoro. Intanto la costruzione dell’inceneritore proseguiva a singhiozzo, tra sospensioni e provvedimenti quando si scoprì che l’azienda non aveva eseguito le valutazioni di impatto ambientale necessarie.
Nel 1999 l’ACNA fu infine chiusa, a oltre un secolo dalla fondazione del primo dinamitificio a Cengio.
L’area tra Cengio e Saliceto è stata inserita tra i Siti contaminati di Interesse Nazionale (SIN), sotto la competenza del ministero dell’Ambiente in collaborazione con le Agenzie regionali per la protezioneambientale.
Il territorio della val Bormida risulta ancora inquinato e lo resterà per decenni, mentre si attuano soluzioni per ridurre l’impatto degli inquinanti sulla popolazione e la produzione agricola.
Mi sono diffuso lungamenete su questo caso perché ampiamente rappresentativo di ciò che è accaduto (e ancora accade) nel nostro paese.
Di passaggio voglio solo ricordare altre vicende paradigmatiche:
Il petrolchimico di Marghera
Un censimento del 1998 evidenziò la presenza di 1498 camini da cui venivano immesse ogni anno 53 mila tonnellate di 120 sostanze tossiche differenti. Tante quante le discariche abusive per un totale di 5 milioni di metri cubi di rifiuti. Tra gli agenti contaminatori zinco, arsenico, piombo, selenio, rame ma anche alcuni idrocarburi. In particolare fu riscontrata la presenza di metalli pesanti e microinquinanti organici.
Nel 1996 la procura di Venezia chiese il rinvio a giudizio di 28 dirigenti di Montedison ed Enichem con l’accusa di strage, omicidio, lesioni colpose multiple e disastro colposo ambientale. Questi erano gli stabilimenti che a partire dagli anni Settanta immettevano nell’atmosfera tonnellate di fumi tossici e riversavano nel mare sostanze cancerogene.
Tutto ciò ha provocato nella popolazione aumento delle patologie tumorali legate alle vie respiratorie, alla pelle e alle ossa con centinaia di vittime tra gli abitanti.
Nel 1998, lo Stato si costituì parte civile chiedendo un risarcimento di 71 mila miliardi di lire. Montedison verserà la cifra di 550 miliardi come contributo per opere di bonifica del territorio. Enichem, invece, risarcirà la vittime con 70 miliardi di euro ma in cambio chiese ed ottenne il loro ritiro dal processo. Nel processo d’appello del 2004, vennero condannati 5 ex dirigenti Montedison.
Quanto alla bonifica, i dati forniti dal ministero dell’Ambiente aggiornati al marzo 2013, riportano una percentuale di avanzamento, calcolato rispetto al totale delle aree perimetrate a terra di competenza pubblica: solo il 10,3% di queste zone è stato sottoposto ad interventi di messa in sicurezza di emergenza.
In tutto tra il 2004 e il 2010 con le bonifiche in corso sono state prodotte 140 mila tonnellate di rifiuti pericolosi, 600 mila di rifiuti non pericolosi, 90 mila di rifiuti solidi da bonifica e 370 mila tonnellate di rifiuti liquidi. Cifre impressionanti e solo parziali che rendono bene l’idea sulla quantità e gravità dell’inquinamento del sito.
L’Ilva di Taranto
L’ Ilva S.p.A. è una società che si occupa prevalentemente della produzione e trasformazione dell’acciaio.
Rinata sulle ceneri dell’Italsider, viene acquisita da flli. Riva.
In amministrazione straordinaria dal 2015, il 1º novembre 2018 l’Ilva entra ufficialmente a far parte del colosso ArcelorMittal, nato nel 2006 dalla fusione della francese Arcelor e dell’inglese Mittal Steel.
Nel 2012 furono depositate presso la Procura della Repubblica di Taranto due perizie, una chimica e l’altra epidemiologica, nell’ambito dell’incidente probatorio che vede indagati Emilio Riva, suo figlio Nicola, Luigi Capogrosso, direttore dello stabilimento siderurgico, e Angelo Cavallo, responsabile dell’area agglomerato. A loro carico furono ipotizzate le accuse di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.
Quanto alla perizia epidemiologica, i modelli adottati dai periti di parte nominati dalla Procura di Taranto hanno attribuito all’Ilva la responsabilità di un totale di 11.550 morti, con una media di 1650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie; un totale di 26 999 ricoveri, con una media di 3857 ricoveri all’anno, soprattutto per cause cardiache, respiratorie, e cerebrovascolari.
Gli esiti sanitari evidenziarono un danno a carico delle emissioni del siderurgico costituito da patologie cardiovascolari e respiratorie, queste ultime in particolare per i bambini, tumori maligni e leucemie.
La perizia epidemiologica si conclude con un’affermazione che sintetizza quella che, secondo le metodologie di rilevazione adottate, è la situazione dell’area ionica: “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.
Nel gennaio 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha accolto i ricorsi presentati nel 2013 e 2015 da 180 cittadini che vivono o sono vissuti nei pressi dello stabilimento siderurgico di Taranto e condanna l’Italia per non aver tutelato il diritto alla salute dei cittadini.
La bocciatura riguarda i governi che dal 2010 (governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) hanno sempre rinviato il rispetto dei vincoli ambientali.
Ancora oggi, l’intervento di bonifica, promesso dalla nuova proprietà, langue.
La Marlane, di Praia a mare
La proprietà? Prima Lanerossi, poi Marzotto.
Per anni usano sostanze tossiche nella produzione e sversano i veleni nel terreno circostante. Ma nessuno si muove, sindacato compreso, perché il lavoro, in una zona che ne è avara, è troppo prezioso. Moriranno in 107 (sino ad ora).
Di fronte all’ecatombe manifesta l’omertà si rompe faticosamente e alla fine la procura apre un procedimento per omicidio colposo e disastro ambientale.
La prima scandalosa sentenza assolve tutti e quella pronunciata dai giudici del processo d’appello conferma quella di primo grado.
All’inizio di febbraio dello scorso anno sono state pubblicate le motivazioni della sentenza del processo d’appello che vedeva imputati dirigenti e proprietari della Marlane, della Lanerossi, della Marzotto.
Tutti assolti! Per non aver commesso il fatto, perché il fatto non sussiste, perché è passato troppo tempo dai fatti e tanti reati sono prescritti. Nessuno è stato dichiarato responsabile delle malattie e delle morti conseguenti, di quella“epidemia”di diversi tipi di cancro che ha colpito i poco più di mille che hanno lavorato in quella fabbrica calabrese. Persone, non numeri di una statistica, che si sono spente un poco alla volta, lentamente, nell’indifferenza generale. Morti, anche in questo caso, che non hanno fatto notizia. Esistenze da dimenticare.
Nei terreni è stata riscontrata la presenza in concentrazioni altissime di cinque classi di metalli pesanti, per le loro caratteristiche non degradabili in forme non tossiche e nocivi per la salute umana: mercurio, piombo, cadmio, cromo, arsenico.
Ancora oggi è estremamente difficile reperire le informazioni su cosa sia realmente successo alla Marlane-Marzotto e sul perché di tante morti, ma se si leggono le motivazioni di quella sentenza assolutoria per tutti, dirigenti e imprenditori, qualche certezza cresce, dirompente. Perché nelle motivazioni appare chiaro e lampante che nella Marlane-Marzotto la causa di tante malattie e morti c’è ed è stata trovata. I livelli di inquinamento e tossicità, all’interno e all’esterno dello stabilimento, erano incredibilmente elevati. Sono stati chiaramente rilevati a distanza di decenni da quando, probabilmente è avvenuto l’inquinamento e sono, ancora oggi, estremamente pericolosi per la salute e la vita di chiunque abbia lavorato in quel maledetto stabilimento o viva nelle sue vicinanze.
La Caffaro
Il divieto di produrre PCB fu deciso in Giappone nel 1972 e negli Stati Uniti nel 1977. In Italia no e la Caffaro ne interruppe solo nel 1984 la produzione. Fu nel 1980 che si iniziò a considerare la pericolosità della dispersione in ambiente delle peci e dei rifiuti tossici delle produzioni Caffaro.
Nei primi anni Ottanta, il Comune di Brescia, attraverso la propria municipalizzata, verificò il forte inquinamento dovuto al tetracloruro di carbonio di alcuni pozzi dell’acquedotto pubblico. Nel corso dei decenni erano state utilizzate ingentissime quantità di acqua di falda. L’acqua emunta con sette pozzi, venne scaricata per anni “arricchita” di tutte le sostanze tossiche entrate in produzione, nella roggia da cui si irradiava il sistema di irrigazione dei campi a valle della stessa fabbrica.
Secondo le indagini effettuate dall’Arpa Lombardia (nel 2001) è emerso “un inquinamento del suolo con valori fino a migliaia di volte al di sopra dei limiti”.
E ancora: “Nell’area dello stabilimento gli inquinanti quali policlorobifenili (pcb), policlorobenzodiossine e dibenzofurani, mercurio, arsenico, solventi, si sono spinti nel sottosuolo fino a una profondità di oltre 40 metri, determinando anche la contaminazione della risorsa idrica sotterranea” su un’area che, oltre al vecchio stabilimento, comprende all’incirca 260 ettari di terreno e oltre duemila ettari di falda acquifera.
Uscendo dal perimetro della fabbrica, all’orizzonte c’è un’ampia area di campi, una zona agricola sulla quale sorgono delle vecchie cascine. I contadini che abitano in quegli edifici e coltivavano quei campi hanno sempre pensato di aver mangiato sano. Lo hanno pensato fino al giorno in cui è stato detto loro che dovevano ammazzare tutti gli animali e smettere di coltivare la terra. La loro vita non è più la stessa. Niente è più lo stesso per loro. Anche se non è visibilmente cambiato nulla e i risarcimenti, per tutto questo, non sono mai arrivati.
I danni per la salute delle persone sono evidenti, come testimoniano le alterazioni del sangue e del latte materno presenti fra i residenti nell’area Caffaro.
L’azienda liquefatta non è in grado di riparare il danno prodotto, di proporzioni semplicemente enormi, mentre l’inquinamento della falda non è affatto risolto e richiede un intervento radicale che ancora non è alle viste.
Questa disamina campionaria – per altro assolutamente parziale e formulata a titolo di esempio – spiega con chiarezza lineare non soltanto la protervia dei padroni, attenti unicamente alla realizzazione dei propri profitti, quale che sia il prezzo economico, sociale ed ambientale pagato dalla collettività, non soltanto l’inerzia dei poteri pubblici, ma anche le amnesie del sindacato schiacciato su una linea di condotta che è spesso di oggettiva complicità con l’impresa.
Persino le grandi lotte che negli anni Settanta hanno saputo mettere al centro della contrattazione il tema della salute nei luoghi di lavoro attraverso un grande processo di soggettivazione operaia, non si sono mai saldate ad una visione più ampia del problema ambientale.
Fra il “dentro” e il “fuori” dalla fabbrica è rimasta una cesura, una ferita mai ricomposte.
Dall’altra parte, abbiamo un ambientalismo “debole” (Verdi, WWF, Italia nostra, la stessa Legambiente) che non hanno mai saputo legare la questione ambientale a quella del lavoro, del tema cruciale di chi decide cosa produrre, come produrre e per chi.
Ci sono tracce – per la verità – di un ambientalismo “forte”, quello della compianta Carla Ravaioli, di Mario Agostinelli, di Giorgio Nebbia, che sulle tracce di Serge Latouche, Karl Polany, Ivan Illich si è spinto sino a produrre una critica dello stesso concetto di “sviluppo sostenibile” e della csd “Green economy”, definita come una sorta di impacco caldo su una gamba di legno, per approdare al concetto di “decrescita serena”, fondata sulla convinzione che serva un cambiamento radicale, possibile solo se si lavora per un’uscita dal capitalismo.
Ma si tratta di posizioni minoritarie, sostanzialmente estranee al grande dibattito pubblico e ignorate dal mainstream.
Oggi, in una fase di generale riflusso della sinistra e del movimento operaio, la regressione del senso comune su posizioni subalterne a quelle del grande capitale è molto evidente.
Il rilancio di una speranza viene dall’esterno della fabbrica, dall’esterno delle organizzazioni del movimento operaio.
Si tratta del movimento su scala planetaria, innescato dalla giovanissima svedese Gretha Thumberg, che pare aver messo in moto una nuova generazione, in gran parte studentesca (nelle manifestazioni di queste settimane non troverete un solo operaio) che si muove con gli strumenti che ha, con un livello di coscienza che non può appoggiare su alcun pavimento culturale preesistente.
Camminano con generosità su un terreno arido e incolto.
Si portano appresso contraddizioni, primitivismi, diffidenze verso le ideologie, verso le tradizionali forme politiche organizzate, massimamente verso i partiti: sono in qualche modo vittime dell’antipartitismo dilagante, esito della degenerazione populistica e lidersitica che ha libero corso.
Qui ci sarebbe (c’è), ove ne fossimo capaci, un ruolo da svolgere, se non fossimo ingoiati dall’irresistibile afasia della sinistra radicale divorata dalla sua eterna balcanizzazione.
Il rischio che anche quel movimento subisca una manipolazione e un esito consegnato all’egemonia moderata c’è tutto, e con esso l’inevitabile riflusso.
Del resto è sempre stato questo il rischio, connaturato alla natura di tutti i movimenti di scopo, anche i più forti e motivati, i quali, prima o poi, concludono la propria vita sociale, o perché raggiungono lo scopo, o perché, come più spesso accade, perché vengono sconfitti.
Ma anche nella fase “alta” della loro crescita, difficilmente scoprono il nesso politico che lega gli uni agli altri, vivendo in una sorta di assolutismo autoreferenziale: fuori da sé non c’è nulla.
La necessità di rifondare la Sinistra sulla base di un nuovo paradigma ambientalista, di stampo marxiano, dovrebbe essere il cimento dei comunisti, impresa che implica un di più di cultura teorica e politica oggi francamente deficitari.
Nel mondo cattolico, soprattutto per l’iniziativa di Bergoglio, c’è un fermento nuovo che sarebbe sbagliato trascurare o sottovalutare. Quel Bergoglio che è sotto attacco – dall’interno e dall’esterno della chiesa – da parte della destra reazionaria, sanfedista e clerico-fascista.
L’enciclica Laudato sì rappresenta un passo di novità epocale perché individua un nesso stringente fra le due crisi, quella sociale e quella ambientale, entrambe legate, anche se il termine capitalismo non viene esplicitamente evocato.
E ancora: la rivendicazione di un’ecologia integrale, dove l’origine dei mutamenti climatici viene spiegata con la qualità dello sviluppo; la questione dell’acqua e dei beni comuni; la tutela della biodiversità; il debito ecologico del Nord verso il Sud del mondo; la dignità del lavoro e la centralità della persona.
C’è, su questi temi cruciali, una superficie di contatto molto ampia con le istanze di liberazione di cui dovrebbe farsi banditrice una sinistra finalmente capace di padroneggiare e riabilitare i propri “fondamentali”.
E’ mia convinta opinione che il punto più alto della proposta di una nuova civilizzazione umana, di impronta socialista, che mai sia stato formulato sia venuto per iniziativa di Enrico Berlinguer nel 1977, dopo la grande avanzata elettorale che fra il ’75 e il ’76 portò il Pci ad un’incollatura dalla Dc.
Fu allora che il segretario del Partito comunista chiamò a raccolta, nel giro di 15 giorni, fra il 15 gennaio e il 30 gennaio, rispettivamente, gli intellettuali italiani, al teatro Eliseo di Roma e le lavoratrici e i lavoratori italiani, al teatro Lirico di Milano.
Per questo, in conclusione della mia relazione, mi soffermerò ampiamente su quella che ritengo sia stata – senza retorica – la più grande occasione che si presentò al popolo italiano da quando è nata la repubblica democratica.
Lo farò facendo parlare direttamente il capo del Pci. Che a lavoratori e intellettuali propose un discorso che riassumerei così: a questo punto della nostra forza non possiamo più limitare la nostra battaglia ad una pur essenziale strategia redistributiva della ricchezza. A questo punto dobbiamo compiere un decisivo salto di qualità, che consiste nel porre all’ordine del giorno la questione cruciale del modello di società che vogliamo costruire, che nella sostanza significa cosa produrre, come produrre e per chi.
In sostanza, Berlinguer mette a tema la questione della transizione verso una società postcapitalistica, dove i produttori associati, riuniti in pubbliche e democratiche istituzioni, possano diventare protagonisti del loro destino, sottraendolo a forze estranee ed alienanti.
“Noi vogliamo – così si rivolse Berlinguer agli intellettuali – fare una cosa che non si è mai fatta in Italia, sia per la sostanza che per il metodo: arrivare ad un progetto di trasformazione discusso fra la gente, con la gente. E poiché per trasformare la nostra società si tratta, come abbiamo detto più volte, non di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di inventare qualcosa di nuovo, che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile, è naturale che il primo momento di questo lavoro sia stato e debba essere l’incontro con le forze che sono o che dovrebbero essere creative per definizione, con le forze degli intellettuali, della cultura (…) Questo convegno rappresenta un primo positivo risultato dello sforzo che stiamo avviando e che dovrà ora continuare ed intensificarsi con altre iniziative che sollecitino il contributo degli operai, dei contadini, dei tecnici, dei dirigenti aziendali, delle masse giovanili e delle loro organizzazioni, delle donne e delle loro associazioni”.
Berlinguer definirà la sua proposta come una proposta di “austerità”. “Per noi – continuò – l’austerità non è un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali (…). Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato (…). Lungi dall’essere una concessione agli interessi dei gruppi dominanti o alle esigenze di sopravvivenza del capitalismo, l’austerità può essere una scelta che ha un avanzato, concreto contenuto di classe, può e deve essere uno dei modi attraverso cui il movimento operaio si fa portatore di un modo diverso del vivere sociale”.
Berlinguer pose due urgenze assolute: “aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia dei popoli del terzo mondo e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza e abbandonare l’illusione che sia possibile perpetrare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario”.
Una proposta– continuava Berlinguer – che “non è un tendenziale livellamento verso l’indigenza”, ma “un atto liberatorio per grandi masse, soggette a vecchie sudditanze e a intollerabili emarginazioni, un atto che crea nuove solidarietà, e potendo così ricevere consensi crescenti diventa un ampio moto democratico, al servizio di un’opera di trasformazione sociale”.
“Quando poniamo l’obiettivo di una programmazione dello sviluppo che abbia come fine l’elevazione dell’uomo nella sua essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili; quando poniamo l’obiettivo del superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati ad un esasperato individualismo; quando poniamo l’obiettivo di andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte, e anche oltre il soddisfacimento, negli attuali modi irrazionali, costosi, alienanti e, per giunta, socialmente discriminatori, di bisogni pur essenziali; quando poniamo l’obiettivo della piena uguaglianza e dell’effettiva liberazione della donna, che è oggi uno dei più grandi temi della vita nazionale; quando poniamo l’obiettivo di una partecipazione dei lavoratori al controllo delle aziende, dell’economia, dello stato; quando poniamo l’obiettivo di una solidarietà e di una cooperazione internazionale, che porti ad una redistribuzione della ricchezza su scala mondiale, che cos’altro facciamo se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?”
E ancora più nettamente, rivolto agli operai: “Qualcuno, sentendoci parlare di austerità, ha creduto di poter fare della facile ironia. Forse voi comunisti – hanno detto – state diventando degli asceti, dei moralisti? Risponderò con le parole che disse, mentre infuriava ancora la guerra nel Vietnam, il primo ministro di quel paese, compagno Pham Van Dong: ‘ il socialismo non significa ascetismo. Sostenere una simile argomentazione sarebbe ridicolo, reazionario. L’uomo è fatto per essere felice: solo che non è necessario, per essere felici, avere un’automobile…Oltre un certo limite materiale le cose materiali non contano poi gran che; e allora la vita si concentra nei suoi aspetti culturali e morali. Noi vogliamo che la nostra vita sia una vita completa, multilaterale, ricca e piena, una vita nella quale l’uomo esprima tutti i suoi valori reali. E’ questo che dà un senso alla vita, che dà valore a un popolo”.
Così chiudeva il suo discorso:
“Ai nostri compagni, proprio in questo momento che, ancora una volta, è di dura prova per il partito e per il popolo italiano, diciamo che dobbiamo tendere ogni nostra energia in un incessante sforzo innovativo e inventivo e, al tempo stesso, rimanere fedeli ai princìpi comunisti. E, di fronte a certi petulanti, lasciate, compagne e compagni, che , concludendo, io ricordi quel famoso verso di Dante con cui Carl Marx chiuse la sua prefazione alla prima edizione del ‘Capitale’: ‘Non ti curar di loro, ma guarda e passa’”.
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