Prodotti-agroalimentaridi Francesco Caruso (Università di Catanzaro) –

La riorganizzazione su scala globale delle filiere agroalimentari e le crescenti preoccupazioni in tema di sicurezza e qualità alimentare hanno accentuato la necessità di definire regole condivise sulle modalità di produzione e commercializzazione dei prodotti alimentari: in quest’ottica le grandi imprese, soprattutto della distribuzione organizzata, hanno definito e implementato dei propri sistemi di certificazione, standardizzazione e verifica della qualità.

Alle rassicurazioni sulla igiene e salubrità dei prodotti, si è progressivamente affiancata anche un’attenzione verso le ricadute ambientali e sociali dell’agricoltura, soprattutto nei paesi del sud del mondo.

Nel corso degli ultimi anni, i sistemi di certificazione della qualità del lavoro sono stati adottati anche nei paesi del Nord, dove l’agricoltura continua ad essere uno dei settori maggiormente esposti a forme più o meno gravi di sfruttamento lavorativo.

A partire dall’ipotesi di un rapporto inversamente proporzionale tra i processi di smantellamento della normazione pubblica di regolazione sociale e l’affermazione dei sistemi di certificazione privata, il presente contributo intende analizzare le conseguenze e l’impatto dell’adozione di questi ultimi sulle condizioni di lavoro dei braccianti impiegati nelle attività agricole del sud Italia.

L’articolo parte da una ricostruzione dello stato dell’arte sul ruolo degli standard privati nelle agrifood supply chain (par.1), per poi esaminare l’evoluzione dei sistemi di regolazione del mercato del lavoro nell’agricoltura italiana (par.2.1) e l’affermazione del sistema di certificazione GlobalGap (par.2.2) in Italia come strumento di controllo delle buone pratiche in agricoltura.

La ricerca è stata supportata da un lavoro di verifica sul campo sull’impatto della certificazione GlobalGap sulle condizioni di lavoro nell’agricoltura meridionale (par.3), attraverso il quale avanziamo alcune considerazioni finali, ponendo in relazione i risultati di questa ricerca con i più recenti sviluppi del dibattito sul tema (par.4).

1. Le certificazioni agroalimentari come sistema di governo dell’ agrifood supply chain

Nel corso degli ultimi decenni i processi di globalizzazione e la conseguente espansione del commercio internazionale hanno trasformato radicalmente il settore agroalimentare: l’ipermobilità del capitale, il global sourcing, la liberalizzazione dei mercati, le innovazioni tecnologiche e biotecnologiche, l’articolazione di sistemi logistici integrati e flessibili hanno allungato la tradizionale distanza “from the farm to the fork”, configurando una vasta e capillare rete mondiale di interconnessione di approvvigionamento alimentare.

L’analisi e le teorie più recenti sulle catene globali del valore, sviluppatesi negli anni novanta per inquadrare le dinamiche di frammentazione e riarticolazione su scala globale dei processi produttivi manifatturieri, hanno fornito una chiave di lettura per comprendere il funzionamento delle agrifood supply chain, per le quali il valore strategico della compressione spazio-temporale è ancor più accentuato a causa della naturale deperibilità del prodotto.

Questi studi pongono in evidenza come le filiere globali dell’agroalimentare sono quasi sempre buyer-driven, vedono cioè il ruolo centrale delle imprese committenti nella realizzazione e gestione di una estesa base di fornitori selezionati, sulla quale costruire sistemi di distribuzione: la crescente complessità gestionale di reti mondiali di approvvigionamento ha determinato così una concentrazione del potere di controllo delle catene del valore nelle mani di poche grandi imprese della Distribuzione Organizzata.

É proprio all’interno di questo scenario, con le grandi centrali di acquisto del Nord globale poste in relazione con migliaia di fornitori provenienti da una pluralità di paesi differenti e distanti, che si consolida il sistema di certificazione agroalimentare.

Nate sulla spinta delle preoccupazioni in tema di sicurezza e salubrità dei prodotti, soprattutto all’indomani dell’esplosione di alcune epidemie alimentari come la mucca pazza e l’influenza aviaria, le certificazioni sono diventate un perno organizzativo strategico di fluidificazione, controllo e gestione della catena basato essenzialmente sull’individuazione di criteri e standard «incardinati in un modello con cui attori, azioni e oggetti possono essere giudicati, confrontati e valutati».

L’affermazione di questi standard privati rientra all’interno di una caratteristica propria della  globalizzazione neoliberista, nella quale la disarticolazione della centralità dello stato-nazione viene accentuata da norme e accordi internazionali attraverso i quali agenti privati svolgono un ruolo attivo di produzione privatizzata di norme, che tendono progressivamente alla riconfigurazione del rapporto tra territori, autorità e diritti.

Nel settore agroalimentare Harriet Friedmann, nell’analizzare l’emergere dell’attuale «regime alimentare delle corporation», ne descrive il funzionamento sulla base di «compromessi molto specifici e iniqui tra movimenti sociali, stati e potenti corporazioni agroalimentari».

Gran parte di questo sistema si regge sulla certificazione di terza parte, cioè sulla verifica del rispetto degli standard demandati ad appositi organismi accreditati di valutazione, pagati direttamente dai fornitori.

Sebbene diversi studi abbiano posto in risalto i rischi collusivi e opportunistici dovuti alla relazione economica che lega controllore e controllato, diversi economisti ne hanno posto invece in risalto il ruolo strategico di questi sistemi di certificazione nell’ottimizzazione gestionale delle catene di fornitura e nell’abbattimento dei costi di transazione.

Tuttavia la proliferazione degli standard privati è segnalata anche come causa della riduzione dei margini di redditività e di restrizioni all’accesso al mercato per i piccoli agricoltori e per le imprese che non possono permettersi gli alti costi di implementazione. Altri studi sottolineano la natura di dispositivo di controllo a distanza volto al rafforzamento del dominio oligopsonistico da parte della GDO, al punto da lasciar intravedere in questi standard una funzione etnocentrica e neocolonialista.

Questi sistemi di certificazione hanno progressivamente incorporato al loro interno anche una risposta alle crescenti preoccupazioni in ordine all’impatto ambientale e sociale dell’attuale modello di produzione,.

La crescita della Responsabilità Sociale d’Impresa, intesa come «l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate», rientra a pieno titolo in questa tendenza.

Qui sono le imprese che, al di là dei loro obblighi giuridici, stabiliscono autonomamente regole di comportamento volte ad accrescere il proprio capitale reputazionale, tranquillizzare i consumatori, migliorare la propria immagine pubblica: si tratta in altre parole di operazioni di «strategia commerciale per accrescere i vantaggi comparativi e soddisfare le domande del consumatore postmoderno sempre più esigente e che reclama qualità e sostenibilità».

All’origine di questa «privatizzazione della sostenibilità» si cela dunque un tentativo abbastanza paradossale di marketing sociale: dapprima si esternalizza e si delocalizza la produzione – o parte di essa – per rincorrere costi di produzione più bassi e legislazioni più permissive in tema di lavoro e impatto ambientale, per poi impegnarsi nel rassicurare che non si approfitterà di queste opportunità.

Anche sul tema specifico del rapporto tra certificazioni e qualità del lavoro in agricoltura, vi sono nel dibattito scientifico differenti linee interpretative: se alcuni studi evidenziano il ruolo delle certificazioni come leva per alcuni miglioramenti contrattuali e salariali e il riconoscimento di alcuni specifici diritti, come ad esempio in tema di maternità e congedo obbligatorio, altri studi circoscrivono tale impatto esclusivamente ad una ristretta cerchia di lavoratori più stabili e garantiti, a scapito del peggioramento delle condizioni di lavoro per la stragrande maggioranza dei lavoratori stagionali e occasionali.

In generale gran parte della letteratura sociologica conferma la persistenza di forme di precarizzazione del lavoro anche nelle produzioni certificate come Buone Pratiche Agricole, con retribuzioni ridotte, mansioni più sofisticate, nuove e più avanzate forme di controllo; inoltre diverse ricerche pongono in evidenza come l’adozione di questi standard, oltre a depotenziare l’agency e il potere contrattuale dei lavoratori, incentiva  la contrattazione di lavoro temporaneo e in subappalto, che permette non solo una riduzione dei costi del lavoro ma anche ad un alleggerimento delle responsabilità, a fronte di verifiche e controlli.

2.  Azioni e interventi di contrasto allo sfruttamento nel settore agricolo in Italia

Gran parte degli studi sull’impatto delle certificazioni sul lavoro si è concentrata sui paesi del sud del mondo, dove gli standard privati si propongono di sopperire alle profonde asimmetrie sociali e alla mancanza di clausole, statuti e norme in difesa dei lavoratori.

Tuttavia, nel settore del fresco, le relazioni tra luoghi della produzione e luoghi del consumo possono avere una più ristretta declinazione spaziale: ad esempio, nel caso europeo, la classica relazione nord/sud rivive su scala continentale, con i paesi mediterranei produttori di gran parte dell’ortofrutta destagionalizzata europea.

Qui si sono progressivamente strutturate nel corso degli ultimi anni delle «enclave agroalimentari di produzione intensiva», direttamente proiettate sui mercati esteri attraverso l’intermediazione delle grandi catene della distribuzione dell’Europa centro-settentrionale.

Sebbene queste enclave in Europa ricadano in paesi con sistemi consolidati di regolazione e salvaguardia dei diritti dei lavoratori, a volte formalmente riconosciuti anche nei dettami costituzionali, il bracciantato agricolo stagionale rappresenta ancora oggi una componente sociale particolarmente debole ed esposta a forme di abuso, sfruttamento e  discriminazione, ancor più accentuata alla luce della stratificazione etnica e della presenza sempre più consistente di lavoro migrante, la cui «deportabilità» – e conseguente «docilità» – rappresenta secondo diversi autori l’elemento determinante della loro massiccia inclusione subalterna nel mercato del lavoro agricolo.

Nel corso degli ultimi anni dossier, studi e inchieste giornalistiche hanno evidenziato le dure condizioni di vita e di lavoro di questo segmento sociale nelle campagne dell’Europa meridionale, a cui sono seguiti diversi interventi normativi e operativi da parte di attori pubblici e privati anche nel contesto specifico italiano.

2.1. L’intervento pubblico in Italia tra giuridificazione dello sfruttamento e smantellamento dei diritti e dei controlli

Il mercato del lavoro agricolo ha storicamente rappresentato in Italia una sorta di anomalia nel quadro economico nazionale: l’accentuata stagionalità, la caratteristica di settore rifugio per le fasce sociali più deboli, il dualismo territoriale, ne hanno determinato una configurazione del tutto originale rispetto agli altri settori economici o anche agli altri paesi europei; valgano a titolo esemplificativo l’imponibile di manodopera, i braccianti prorogati, le differenziazioni salariali peggiorative per donne e bambini.

Anche la forte caratterizzazione territoriale, e la conseguente centralità della contrattazione provinciale, viene spezzata solo nel 1977 con il varo dell primo Contratto Nazionale: tuttavia proprio negli anni settanta si inizia a manifestare un «generale imbarbarimento dei rapporti di lavoro in agricoltura» con la diffusione di rapporti anomali, come fasi lavorative in subappalto, pagamenti a cottimo,  con forme di lavorazione per conto terzi, che andranno poi a diffondersi e a istituzionalizzarsi negli anni novanta, quando si tornerà anche alla centralità della contrattazione decentrata .

La liberalizzazione del mercato del lavoro, a partire dalla legge 608/96 con la scomparsa della chiamata numerica e il sostanziale superamento del collocamento come strumento per un’equa suddivisione del lavoro, così come la successiva promulgazione di norme di riallineamento contributivo, flessibilizzazione del lavoro, semplificazione amministrativa, permetteranno l’affermazione di un mercato del lavoro “grigio scuro”, attraverso una strategia di «giuridificazione dello sfruttamento» e cioè di «trasposizione dello sfruttamento all’interno di dispositivi giuridici che ne assicurano la regolarità formale, mantenendone tuttavia intatta la sostanza in termini di ingiusto profitto e di violazioni dei diritti dei lavoratori e della persona».

Gli aspetti più innovativi ed avanzati in termini di flessibilizzazione del lavoro troveranno  nelle campagne un primo campo di sperimentazione, a conferma non solo del ruolo apripista del settore agricolo nelle strategie di precarizzazione ma anche della coesistenza al suo interno di forme pre-fordiste e post-fordiste di organizzazione e sfruttamento del lavoro: del resto il sistema dei voucher, il job on call, lo stesso lavoro interinale trovano origine e fondamento in pratiche informali e dispositivi giuridici in prima istanza pensati e praticati nel contesto agricolo.

Nel corso degli ultimi trent’anni, mentre le attività bracciantili saranno sempre più demandate al lavoro migrante (che nel giro di poco tempo passerà dallo 0,6% del 1991 all’attuale 36,5% della forza lavoro agricola in Italia), l’attenzione istituzionale verso la regolazione e il controllo del  mercato del lavoro agricolo si abbasserà in modo sempre più evidente.

Un indicatore abbastanza chiaro di questo indebolimento  è il progressivo disimpegno sul fronte dei controlli sul lavoro in agricoltura.

Attraverso l’analisi comparativa dei «Rapporti annuali sull’attività di vigilanza in materia di lavoro e previdenziale» del Ministero del Lavoro possiamo verificare come dalle 14.397 ispezioni nel settore agricolo registrate nel 2006 si è passati nel 2017 a 7.265 ispezioni, con un riscontro di lavoro irregolare rimasto sempre significativamente alto e costante negli anni.

Infatti dall’individuazione di 10.048 lavoratori agricoli irregolari nel 2006 si passa ai 5.222 nel 2016: la retorica sui controlli più mirati, molto abusata nella documentazione istituzionale, è dunque statisticamente infondata, essendo il rapporto percentuale tra numero di ispezioni e irregolarità sul lavoro rimasto sostanzialmente intorno al 70%.

A questo smantellamento dei sistemi di verifica e controllo sul lavoro in agricoltura, si è recentemente affiancata invece una accentuazione della normazione penale con l’introduzione nel codice penale del reato di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», articolo introdotto dalla legge 148/2011, n. 148  e rafforzato con la 199/2016.

Seppur presentato come «fulcro della lotta al caporalato», diversi autori hanno sottolineato i limiti di questo approccio penalistico, a partire dal dubbio legittimo sull’ «illusione populista» di  risolvere i problemi sociali attraverso la sanzione penale, ma soprattutto alla luce del «suo impatto quasi nullo su un fenomeno esteso, multiforme e, in alcune aree, endemico allo stesso modo di produzione del settore agricolo».

Se dunque «la soluzione penalistica ha distratto dall’attenzione al diritto del lavoro e alle relazioni sindacali», anche il target specifico di questa curvatura repressiva appare abbastanza fuorviante.

La figura del caporale, in realtà abbastanza articolata, diventa infatti una sorta di parafulmine autoassolutorio del mondo agricolo e del suo scaricare sulle spalle dei lavoratori il peso dell’asimmetria di potere tra distribuzione globale e produzione locale; nel frattempo però le riforme del mercato del lavoro, le esternalizzazioni, le deroghe, i subappalti, il lavoro somministrato hanno di fatto permesso la mimetizzazione del fenomeno sotto i crismi della legalità al punto che «al caporalato tradizionale si è aggiunto un secondo con caratteristiche nuove, non meno allarmanti, che si insinua tra le pieghe del contratto di somministrazione o di altri più recenti tipi contrattuali».

Ma un aspetto altrettanto interessante, per quanto concerne il rapporto tra certificazioni agroalimentari e privatizzazione dei diritti del lavoro, è l’attivazione in Italia della «Rete del lavoro agricolo di qualità». Ideata nel 2014 dal governo per contrastare la diffusione del lavoro nero in agricoltura, la Rete non è altro che un elenco delle aziende agricole in regola con i contratti collettivi e i versamenti contributivi, non destinatarie di sanzioni amministrative o condanne penali.

La procedura di iscrizione consiste in una semplice dichiarazione autocertificata da compilare online sul sito dell’Inps: malgrado ciò, al 31 maggio 2018 risultavano circa tremila iscrizioni, cioè meno del 2% delle aziende agricole italiane.

Il sostanziale fallimento della Rete risiede in primo luogo nell’elemento premiale particolarmente debole e ambiguo – la riduzione di controlli per gli iscritti – elemento però al tempo stesso negato nei commi successivi della medesima legge.

La dubbia incidenza di questo istituto si può valutare anche in rapporto all’utilizzo strumentale dei grandi buyers: se da una parte la più grande catena della GDO italiana ha “invitato” da tempo i suoi 7.200 fornitori di prodotti agricoli ad iscriversi alla Rete, invito evidentemente caduto a vuoto senza troppe conseguenze essendo più del doppio del numero totale delle aziende iscritte, dall’altra l’inserimento occasionale dell’obbligatorietà dell’iscrizione ha permesso anche lo slittamento nella sottoscrizione delle forniture, in attesa del calo stagionale dei prezzi.

In termini più generali, l’esistenza stessa di un sistema pubblico di certificazione etica, con il passaggio dalla repressione alla premialità per le aziende che rispettano le leggi, si traduce in un’implicita accettazione del diffuso sistema di sfruttamento.

2.2. I sistemi privati di certificazione delle buone pratiche agricole

Le certificazioni nel settore agroalimentare hanno conosciuto nel corso degli ultimi anni una crescita esponenziale: uno studio commissionato dalla commissione Europea censiva già nel 2010 nella sola Europa 440 sistemi differenti di certificazione.

Malgrado questa vera e propria esplosione, le istituzioni nazionali e sovranazionali hanno scelto deliberatamente di non attuare alcuna forma di regolamentazione del settore, lasciando piena libertà alle grandi imprese transnazionali  in quanto «non è al momento giustificata un’iniziativa legislativa per affrontare gli eventuali inconvenienti dei sistemi di certificazione».

Se sul fronte della sicurezza alimentare nei processi di trasformazione post-farm gate la distribuzione britannica e quella franco-tedesca hanno dato vita a due differenti regimi di certificazione egemoni sul mercato internazionale (il British Retail Consortium e l’ International Food Standard), nella pre-farm gate il sistema GlobalGap IFA (Integrated Farm Assurance) ha assunto invece un ruolo di leader indiscusso di tutto il processo di produzione agricola, a partire dalle fasi precedenti la messa a dimora delle piante fino al prodotto non trasformato.

Promosso nel 1997 dall’Eurep (Euro-Retailer Produce Working Group), il tavolo tecnico di coordinamento tra le più importanti catene distributive europee, il protocollo Eurep-G.A.P. si propose di definire le Good Agricolture Practice, ovvero le buone pratiche agricole.

In particolare lo standard del settore ortofrutticolo ha conosciuto un successo e una diffusione a livello globale, come evidenzia anche il cambio della denominazione stessa, da EurepGAP a GlobalGAP nel 2007: da allora si è passati da circa 89.000 alle attuali 190.000 aziende agricole certificate, presenti in 125 differenti paesi del mondo.

Il successo di questo sistema di certificazione risiede nella sua dimensione di meta-certificazione, nella sua  flessibilità e versatilità, che si adatta a contesti differenti sulla base delle configurazioni normative vigenti. Infatti i requisiti variano da paese a paese: laddove sia più restrittiva, la legislazione locale si sostituisce ai criteri GlobalGap; qualora la legislazione locale sia, invece, meno restrittiva (nonché assente), prevalgono i criteri GlobalGap.

La distribuzione geografica dei certificati è abbastanza eloquente: nel 2008 il 90% dei certificati era concentrato in Europa, mentre al 2017 il primato di paesi come il Kenya e il Cile sono il prodotto di specifiche operazioni di benchmarking condotte sotto le rispettive insegne di Kenya-GlobalGap e ChileGlobalgap.

Tuttavia, la diffusione nei paesi mediterranei resta particolarmente significativa, con 35.329 certificati rilasciati in Spagna, 21.152 in Italia e 13.775 in Grecia. Nel caso italiano, se i canali distributivi nazionali mantengono ancora capitolati propri di fornitura a volte anche più rigidi di quelli previsti da Globalgap, il possesso di quest’ultima invece rappresenta una condizione ormai obbligata per l’accesso ai mercati esteri, in particolare dell’Europa centro-settentrionale.

La certificazione Globalgap si può articolare attraverso due distinti procedimenti: l’opzione 1 prevede l’iscrizione della singola azienda, l’opzione 2 invece la certificazione di gruppo viene effettuata da una cooperativa, un’organizzazione di produttori o qualsiasi altro raggruppamento di aziende agricole, che dovrà predisporre un proprio Sistema Qualità interno per garantire la conformità ai requisiti richiesto dal Protocollo Globalgap.

Nel primo caso, dopo la prima ispezione concordata, l’ente di certificazione può svolgere una seconda ispezione non concordata nel 10% delle aziende certificate, che viene comunicata 48 ore prima all’azienda, la quale può anche non accettare una sola volta la data prestabilita. Nel caso dell’opzione 2 invece le visite ispettive da parte dell’ente vengono effettuate solo «su un campione casuale che corrisponde almeno alla radice quadrata del numero complessivo delle aziende registrate all’interno del Gruppo».

Attualmente l’opzione 2 ricopre all’incirca il 78% delle certificazioni, dove dunque il controllo viene demandato direttamente al gruppo di riferimento.

I produttori devono quindi rispondere essenzialmente in regime di autocontrollo ad una check-list contenente 87 requisiti maggiori (da rispettare al 100%), 113 requisiti minori (da rispettare al 95%) e 18 raccomandazioni facoltative, in tema di rintracciabilità, ambiente (storia e gestione dei siti, gestione del terreno e dei rifiuti), sicurezza del prodotto (fitofarmaci impiegati, tecniche di irrigazione, protezione delle colture, modalità di raccolta e trattamenti post-raccolta, elementi relativi alla gestione aziendale), salute e sicurezza dei lavoratori.

Riguardo quest’ultimo punto, i criteri definiscono solo la presenza di attestati sulla comprovata competenza dei lavoratori impegnati nelle differenti fasi della produzione, in particolare nell’utilizzo di prodotti chimici e fitosanitari. Tuttavia, è successivamente intervenuta la promulgazione di uno apposito modulo integrativo per la valutazione del rischio sociale, denominato GRASP (GLOBALG.A.P. Risk Assessment on Social Practice), che prevede una check-list di 13 punti di controllo e criteri di conformità, per la verifica delle buone pratiche sociali in tema di condizioni e diritti dei lavoratori.

La check-list accerta la presenza di una adeguata rappresentanza sindacale, di una procedura anonima per le segnalazioni o i suggerimenti dei lavoratori alla direzione aziendale, il regolare e corretto pagamento dei salari, il rispetto delle norme e dei contratti nazionali in tema di orari di lavoro, minimi salariali, straordinari e pause di lavoro.

Ad esclusione dei primi due punti, gli ispettori procedono attraverso una verifica prettamente documentale finanche della presenza effettiva di adeguate pause di lavoro o del rispetto della soglia massima di 60 ore settimanali, dettagli che però – alla luce della “grigizzazione” del lavoro agricolo precedentemente descritta – rischiano sulla carta di trasparire in modo sostanzialmente difforme dalla realtà, anche perché «per il registro delle ore lavorate nel mese corrente si accetta qualunque tipo di supporto (anche l’agenda, il calendario o qualsiasi tabulato), non essendoci verità definita dalla legge».

Il primo punto di controllo sull’accertamento della presenza sindacale, reso ancor più importante per la presenza di incontri e interviste con i rappresentanti sindacali per la verifica anche degli altri criteri di conformità durante le ispezioni, rischia invece di essere del tutto sterilizzato dalla possibilità che «nel caso della certificazione in Opzione 2 con un importante turnover del personale, un produttore (o un’altra persona adatta a svolgere tale mansione) può essere nominato a livello di gruppo». Essendo il 75% delle aziende certificate attraverso l’opzione 2 ed essendo già previsto l’esonero di questo criterio per le aziende familiari o con meno di 5 lavoratori assunti, appare del tutto evidente la facilità di “aggiramento” di questo criterio di conformità.

Malgrado i suoi limiti abbastanza evidenti, o forse proprio in virtù di questi, si assiste ad una sua diffusione sempre più capillare in Italia, come nel resto del mondo, anche nel caso del modulo Grasp, in quanto sempre più richiesto dalle corportation della GDO Europea in risposta alle continue denunce sulle condizioni dure di lavoro nelle campagne dell’Europa meridionale: oggi sono circa 70.000 le aziende accreditate Globalgap/Grasp, con un significativo trend di crescita nel corso degli ultimi anni.

3. Certificazioni e lavoro agricolo: una verifica sul campo

Indipendentemente dalle carte, i documenti, le leggi, i criteri di conformità, quale è l’impatto reale sul lavoro agricolo delle certificazioni?

Per rispondere a questa domanda rilevanti sono le riflessioni emerse attraverso le interviste in profondità realizzate con ispettori di enti di certificazione, imprenditori certificati GlobalGap e non certificati, sindacalisti e lavoratori agricoli.

Nel caso degli imprenditori, le certificazioni sono viste spesso come un costo economico e un dispendio eccessivo di tempo («io coltivo la terra, non faccio il ragioniere» afferma uno degli imprenditori che ha rinunciato alla certificazione).

Sono gli imprenditori stessi a soffermarsi sugli elementi di peso e rigidità burocratica impliciti in questo sistema, che non riesce invece a cogliere la sostanza stessa dei rapporti: «sono tenuto a sprecare ormai intere giornate nel predisporre e compilare documenti, questionari, registri… io capisco la necessità di tracciabilità, di controllo ma rischiamo di produrre solo montagne di carta su carta» (A., imprenditore agricolo) . Nel caso di imprese di più grandi dimensioni, la figura del consulente sul lavoro diventa il vero perno anche per l’implementazione delle certificazioni Globalgap/Grasp: «di tutto questo si occupa Luigi, la contabilità, gli stipendi, i contributi, i certificati, le assunzioni» (G., imprenditore,); lo stesso Luigi che, intervistato, ammette di non essersi mai recato presso l’azienda nel corso dell’ultimo anno.

In verità, altri imprenditori, pur evidenziando i costi aggiuntivi della certificazione di terza parte («prima i controlli e le ispezioni erano a carico loro, per risparmiare hanno chiamato e affidato il lavoro ad organismi di certificazione che invece tocca a noi pagarli»), evidenziano l’estrema facilità di adempimento delle clausole previste per la check-list del modulo integrativo Grasp: «Il modulo Grasp non è particolarmente complesso, ci sono altri molto più astrusi. Alla fine è solo un’ulteriore tassa di 250 euro che dobbiamo pagare annualmente. Per adeguarci alla normative abbiamo semplicemente predisposto una cassetta per i reclami all’interno dell’azienda dove i lavoratori possono inserire lamentele e suggerimenti» (P., imprenditore), cassetta che lo stesso intervistato ammette di essere rimasta da allora sistematicamente vuota, come del resto abbiamo potuto verificare in oltre sessandra verbali di certificazione consultati nel corso della ricerca.

Se alcuni studi nei paesi latino-americani testimoniano come «le certificazioni etiche sono pubblicizzate più tra i consumatori del nord del mondo che tra i lavoratori del sud del mondo», nell’agricoltura meridionale addirittura non mancano finanche gli imprenditori ignari delle certificazioni di cui dispongono: «Globalche? No, no, si sbaglia…si?, forse, non lo so, io non ne so niente, di queste cose se ne occupa forse l’OP dove conferisco i prodotti» (G., imprenditore). I lavoratori sono spesso totalmente all’oscuro di questi sistemi e anche tra i braccianti stagionali non vi è nessuna capacità di cogliere la differenza tra il lavoro presso le aziende certificate e no: «lavoro sempre con G., è lui il caposquadra che mi chiama ogni volta che trova un lavoro da fare; si ho lavorato anche da P. [impresa certificata Globalgap] ma non ci torniamo più: dalle 35 euro pattuite, poi alla fine ci voleva pagare poco più della metà» (A., bracciante); appare abbastanza significativo che gli ispettori invece, presso la stessa azienda, si soffermano ad annotare – come prevede la check-list di globalgap/Grasp, la presenza nella bacheca dell’autodichiarazione dell’azienda sulle buone pratiche sociali e il rispetto dei diritti umani verso tutti i lavoratori.

Nel caso poi di lavoratori più consapevoli, emerge un rancore sociale contro l’ipocrisia della certificazione: è il caso ad esempio di T., un bracciante calabrese da oltre 20 anni impiegato nella agrumicoltura che conosce bene le frodi e gli inganni delle certificazioni: «io ci lavoro da anni, ma mi chiamano solo per i giorni della raccolta, pesche e agrumi, gli accordi sono ogni anno peggiori, prima erano 50 , poi quaranta, poi 30, ora pretendono che una giornata ti viene segnata e l’altra no. Parliamo di aziende biologiche, con le certificazioni per esportare in tutta Europa, con tanto di bollino “buono e giusto” [campagna etica di una nota catena di GDO italiana, ndr.] ma per noi il lavoro è sempre uguale, una schifezza, ma quale buono e giusto. I sindacalisti sono poi altri che non fanno niente per noi, pensano ai cazzi loro, come sistemare i parenti e fare i soldi» (T., bracciante).

Vi è a volte anche la consapevolezza di una complicità nel raggiro, dalla quale però non si può sfuggire per il ricatto della precarietà e il bisogno di reddito, come evidenzia B., un bracciante locale che «per  due settimane, compreso sabato e domenica, ho guadagnato 500 euro, cioè [il datore di lavoro] mi ha versato 1.000 euro, ma la metà il giorno dopo l’ho ritirata in contanti e lasciati al bar della cognata. Prima pagava direttamente lui in contanti, ma da quest’anno pretende di pagare così; per me cambia poco o nulla, sempre 35 euro al giorno sono, l’importante è che mi segna 15 giornate, per lui invece in questo modo dimostra di essere perfettamente in regola con i pagamenti e i contributi» (N., bracciante). Nella stragrande maggioranza dei verbali, l’ispezione su questo punto si limita alla consultazione di una sola busta paga, consegnata all’ispettore dai responsabili dell’azienda.

La maggior parte dei lavoratori intervistati non ha mai assistito ad un’ispezione, se non indirettamente: «E’ successo il mese scorso, arrivo al campo e scopro che siamo solo una decina, abbiamo ancora da finire la raccolta di ieri, ma il capo-squadra ci informa che sono venuti alcuni ispettori e non dobbiamo lavorare» (A., bracciante)piuttosto che nascondere i lavoratori, la scarsa attività lavorativa può anche benevolmente essere interpretata come inevitabile conseguenza: “se deve stare dietro ai controlli, preferiscono quel giorno tralasciare i lavori di routine, l’organizzazione della raccolta” (G., ispettore).

Il limite maggiore di questo sistema di verifica sulle condizioni e il rispetto dei diritti dei lavoratori resta il mancato coinvolgimento dei lavoratori stessi: se, in Italia come  a livello internazionale, ormai «proliferano pacchetti di controllo etico “chiavi in mano”, incentrati su autogestiti on-site checking-up, toolkits, database e questionari online da compilare a cura dei fornitori, in una sorta di “monitoraggio da monitor”», nel nostro caso ci siamo invece imbattuti anche in lavoratori fissi – cioè i capi-squadra, con mansioni tipiche del caporale – impegnati ad assicurare sulla qualità del lavoro e il rispetto dei diritti: “noi restammo fuori quel giorno, mentre lui corse dal padrone indaffarato con quei signori” (A., bracciante). Anche nei verbali l’incontro con i lavoratori non viene spesso neanche menzionato, mentre il più delle volte la presenza di un rappresentante “eletto/nominato” viene appuntata durante l’incontro con i responsabili dell’azienda, pratica invece vietata dal regolamento al fine di garantire al rappresentante la piena libertà di espressione e opinione.

Anche i sindacati giocano un ruolo importante in quanto le ispezioni spesso si riducono ad incontri con delegati sindacali locali che tendono però a fornire rassicurazioni, timorosi dei danni economici che una loro denuncia comporterebbe sul territorio. Così, se alcuni sindacalisti di base si rifiutano anche di rispondere “a questi che dal nord hanno il coraggio di chiedermi per posta elettronica, comodamente seduti dietro le loro scrivanie, se siamo a conoscenza di violazioni del CCNL o se sappiamo di livelli di paga bassi” (A., sindacalista), dall’altra i vertici dei sindacati confederali rassicurano gli ispettori inviati dai grandi supermercati norvegesi per verificare le condizioni di lavoro nella raccolta del pomodoro, che “la probabilità che l’azienda si rifornisca da aziende agricole che utilizzano il lavoro illegale è relativamente bassa”.

La debolezza degli standard privati di verifica è ulteriormente accentuata dalla tendenza dilagante all’esternalizzazione dei servizi lavorativi: le aziende della GDO ottengono la certificazione SA8000 che estende la Responsabilità Sociale d’Impresa anche ai loro fornitori, che sono a loro volta certificati Globalgap, ma che subappaltano il lavoro ad altri soggetti, come le aziende di lavoro somministrato, anche loro in possesso di tutte le certificazioni etiche e sociali.

Sulla carta tutto risulta perfetto, ma all’ultimo anello della catena, nel campo, ci si può muovere con una certa agilità negli interstizi della grigizzazione del lavoro agricolo, con contratti di lavoro fasulli, posizioni lavorative aperte senza che poi queste vengano effettivamente registrate, voucher di copertura e altri espedienti per aggirare l’eventualità remota di un controllo.

La sostanza dei rapporti sociali infatti emerge ogni qualvolta episodi drammatici di cronaca impongono indagini e approfondimenti più articolati.

E’ il caso ad esempio dell’inchiesta giudiziaria Sabr (dal nome di un caporale tunisino coinvolto nella vicenda), dove grazie allo sciopero e alle denunce di un gruppo di braccianti africani, è stato condannato per riduzione alla schiavitù il “re delle angurie”, un noto e stimato imprenditore agricolo salentino. Malgrado la condanna a 15 anni di carcere, la sua azienda agricola risulta certificata GlobalGap (ggn: 4050373439200) e ancora oggi appartenente alla Rete del lavoro agricolo di qualità.

Allo stesso modo l’azienda di Corato dove lavorava Paola Clemente, una bracciante morta nell’estate del 2015 mentre lavorava nei campi, ancora oggi risulta in possesso della certificazione globalgap (codice ggn: 4049929943384), così come l’agenzia InforGroup, attraverso la quale aveva ottenuto l’ingaggio per meno di tre euro l’ora per l’acinellatura dell’uva, è in possesso della certificazione di qualità ISO:9001.

Il dubbio sull’efficacia di questi sistemi privati di certificazione sorge anche scorrendo la carrellata di certificazioni – Bio Suisse, Demeter, BRC, IFS, Grasp, GlobalGap (codice ggn: 4050373533694) –  in possesso della azienda agricola dove “l’attività di indagine ha consentito di accertare che i lavoratori prestavano attività lavorativa che, tenuto conto anche delle ore di viaggio, si protraeva dalle 12 alle 18 ore giornaliere, per 7 giorni alla settimana, con tempi di recupero che non consentivano neppure l’espletamento delle normali incombenze domestiche” o l’azienda presso la quale lavorava tramite un caporale connazionale, Abdullah Muhamed, un quarantasettenne sudanese stroncato per l’eccessivo caldo e carico di lavoro in un campo di pomodori che conferiva alla cooperativa agricola Terre di Federico (codice ggn:  4052852801393), al 26 giugno 2018 regolarmente iscritta alla rete del lavoro agricolo di qualità, che riforniva a sua volta alcune delle più note industrie conserviere italiane.

Conclusioni

I risultati di questa ricerca, sebbene non ci possano fornire una significativa validazione scientifica a causa degli evidenti limiti di rappresentatività di un campionamento ristretto e casuale, ci forniscono tuttavia importanti indicazioni non solo sulla diffusione di un meccanismo ormai collaudato e diffuso di “esternalizzazione deresponsabilizzante” in cui il subappaltatore svolge di fatto le funzioni tradizionalmente riconducibili all’attività del caporale, ma ci mostrano in modo chiaro anche l’inconsistenza sostanziale degli standard privati nella verifica delle condizioni reali di lavoro.

Da questo punto di vista, la diffusione della certificazione Globalgap/Grasp in Italia pone in evidenza le contraddizioni implicite nell’attuale sistema di governo globale del settore agroalimentare, in particolare l’asimmetria di potere tra una dimensione nazionale di regolazione sociale del lavoro e la potenza autoregolativa delle grandi imprese della distribuzione.

Sebbene la distinzione pubblico/privato resta pur sempre problematica, in quanto a differenza del valore concettuale resta difficile una sua separazione empirica, il rapporto inversamente proporzionale tra lo smantellamento dei sistemi statuali di regolazione e controllo del mercato del lavoro agricolo e la proliferazione degli standard privati è abbastanza evidente, così come la sua conseguenza in termini di peggioramento delle condizioni lavorative e salariali del bracciantato nelle aree agricole meridionali.

Lo scivolamento dell’autorità dal pubblico al privato, e il conseguente ripiegamento verso un regime soft-law, si traduce infatti nello smantellamento delle norme obbligatorie volte storicamente a garantire un rapporto più equo ed equilibrato tra imprese e lavoro, e all’autoconferimento alle stesse imprese leader del potere normativo per la tutela del lavoro.

A differenza però dei paesi con una minore tradizione di tutela del lavoro, nel nostro caso studio questa fase dell’ “outsourcing governance” è  accompagnata e sostenuta da processi di neoliberalizzazione abbastanza paradossali: la diffusione delle certificazioni sulla tutela del lavoro si interconnettono infatti con riforme volte all’ istituzionalizzazione delle anomalie del mercato del lavoro agricolo, a una torsione dallo stato sociale allo stato penale e a un sistema di stratificazioni multiple di subfornitura deresponsabilizzante. La remissività pubblica arriva infine a anche a concretizzarsi nella definizione di un sistema proprio di certificazione etica che riflette gli stessi limiti e  paradossi degli standard privati.

E così, mentre si moltiplicano documenti, dichiarazioni, contratti e clausole da sottoscrivere sul rispetto dei diritti e del benessere dei lavoratori, mentre si ramifica e consolida una vera e propria “industria” dell’auditing, non c’è poi nessuno che – al di là delle autocertificazioni – ne verifichi il sostanziale rispetto.

La farraginosità dei sistemi di verifica e controllo degli standard privati permette però di disvelare in modo palese anche una loro funzione puramente commerciale – di apparenza e di non sostanza – tesa a rassicurare e catturare le preoccupazioni di natura etico-sociale dei consumatori. In tal modo si fomenta anche l’illusione del “consumatore sovrano”, che deresponsabilizza i vertici delle filiere, per far ricadere il peso sull’altra estremità della catena; lo sfruttamento si palesa in tal modo come diretta conseguenza delle scelte inopportune dei consumatori “poveri” che non acquistano i prodotti opportunamente certificati.

In questo passaggio dalla cittadinanza “fondata sul lavoro” al consumerismo si condensa l’egemonia di quel “populismo di mercato”  secondo il quale il mercato non è più semplicemente lo strumento democratico più affidabile, ma anche l’unico possibile.

La natura asimmetrica delle catene trova così ulteriore consolidamento in questo sistema di mercato, libero di spostare le pressioni competitive sugli anelli più deboli e periferici della catena, che a loro volta cercano di scaricare sulle spalle dei lavoratori.

In questo quadro appare necessario quantomeno procedere nella scissione della verifica delle buone pratiche agricole sul versante ambientale (il cui impatto può effettivamente essere misurato anche ex-post attraverso il “monitoraggio da monitor” su prelievi, analisi e campioni) da quello sociale, cercando di definire forme sperimentali di certificazione worker-driven, che potrebbero anche configurarsi come base di partenza per accordi e trattative sindacali sulle condizioni di lavoro non tanto con i datori diretti di lavoro ma con i “veri” datori di lavoro, pur tenendo sempre presente che, come dimostrano anche i risultati di questa ricerca, gli standard privati per loro stessa natura non possono essere sostitutivi di una regolazione sul lavoro che tenga conto della pluralità degli attori e degli interessi in campo: il punto nodale resta il superamento sostanziale dei limiti e dei paradossi della privatizzazione della sostenibilità che potrà avvenire solo attraverso un sistema di regolamentazione e controllo esterno ed estraneo al mercato.

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