marx199Formazione e comunicazione nell’epoca del capitalismo digitale –

La cassetta degli attrezzi marxiana offre strumenti adeguati per analizzare la società della conoscenza? A me pare di sì, se pensiamo a quello che può apparire un paradosso: la centralità della conoscenza nel processo di produzione, più che attenuare lo sfruttamento lo accentua, anche se in forme differenti rispetto al passato. La conoscenza contenuta nei prodotti è ormai più preziosa dei classici elementi fisici usati per produrli: la triade classica, -terra, lavoro, capitale – sta diventando secondaria rispetto alla materia prima della informazione, la cui evidente abbondanza rende sempre meno rilevante la funzione della domanda e dell’offerta nella determinazione del prezzo, concetto portante dell’economia di mercato.
Marx (fondamentale la rilettura del “Frammento sulle macchine” nei Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, 1857-1858) immagina una organizzazione produttiva in cui il produrre è affidato alle macchine, mentre al lavoratore ne è affidata la supervisione. Afferma Marx: “la potenza produttiva dipende sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia e dall’applicazione di questa scienza alla produzione”; la natura del sapere racchiuso nelle macchine è prodotto dalla evoluzione complessiva della società, dalla sua “Intelligenza Generale” (il Genaral Intellect). Walter Benjamin nel 1936, sulla scia di questa lezione di Marx, affrontando il problema del controllo del sapere e delle relative forme proprietarie, vedrà non la fabbrica, ma il sapere, la cultura e la comunicazione come riclassificatori dei rapporti sociali. Più che mai oggi la questione da affrontare è, dunque, quella di chi possiede, controlla e governa la macchina, quella macchina che ormai coincide con “la potenza del Sapere”. Il sapere in sé è diventato la principale forza produttiva, modificando notevolmente la composizione della forza lavorativa nelle economie sviluppate. La messa a profitto del sapere (dunque della cultura, dell’istruzione, della comunicazione), è finalizzata alla produzione del cosiddetto “capitale umano”. Cambia perciò di segno – ma non viene superato – il conflitto capitale-lavoro.
Non per caso, grandi aziende come Microsoft o Google si stanno proponendo come leader nel campo della formazione globale, diventando testimonial, gestori, fondatori di centri di alta formazione e anche partner di istituzioni formative. Microsoft è partner del MIUR per un insieme di progetti, come quello denominato Edu Connect, il cui obiettivo dichiarato è – testuale – l’“evangelizzazione tecnologica delle scuole”.
La transizione in corso, dalla società industriale alla società “informazionale” (Castells), procede già da decenni e porta alla configurazione e all’affermarsi di un nuovo modello capitalistico. Apple, Google, Microsoft, Facebook, Twitter, Amazon, Ebay (le nuove “sette sorelle” del mercato globale), dispongono di enormi capitali e sono accomunate da una vocazione monopolistica (p. es., Google ha l’88% della pubblicità basata su motori di ricerca; Facebook possiede il 77% del traffico sui social generato da dispositivi mobili; Amazon controlla il 74% delle vendite online). Sappiamo bene, ormai, che quando scambiamo un post in un social network o facciamo una ricerca in rete, produciamo informazioni che vengono catalogate e memorizzate: per un’impresa che voglia pubblicizzare i propri prodotti o servizi, gli algoritmi che organizzano la lettura delle ricerche che conduciamo in rete diventano fondamentali. I dati, la loro estrazione dalla rete, il loro trattamento, la loro mercificazione, diventano sempre più strategici, realizzando la cosiddetta “economia dei big-data”. Tanta parte dei nostri comportamenti quotidiani viene registrata, analizzata, sollecitata, manipolata; tradotta in risorsa pubblicitaria: la pubblicità fa ormai parte del nostro stesso ambiente di vita, trasformatosi in una sorta di “grande vetrina”. Gli spazi per la pubblicità in rete vengono venduti sulla base dei profili degli utenti. Il tutto avviene grazie ad algoritmi (elaborati e gestiti a fini di profitto) in grado di anticipare i nostri desideri, interpretando quanto esprimiamo nelle interazioni online. Su questa via, anche la produzione dell’opinione pubblica diventa un business, trasformando i media e la rete in “fabbriche del consenso” (Chomsky). Pensiamoci: oggi la forma più pervasiva (ma la meno socialmente percepita) di alienazione è proprio quella prodotta dal potere degli algoritmi. Il modello data-centrico del capitalismo della Silicon Valley tende a convertire ogni aspetto della nostra vita quotidiana in una merce, in una risorsa redditizia. Se l’esito naturale di tale processo è che tutti possono diventare tracciabili e influenzabili, quindi manipolabili, sorge una domanda spontanea: il futuro della stessa democrazia può essere lasciato nelle mani di aziende private e dei loro algoritmi?
Il capitalismo contemporaneo ha conosciuto e conosce varie definizioni, che riflettono la sua realtà proteiforme: la forma industriale, quella finanziaria, quella cognitiva. Si parla di ‘capitalismo digitale’, ‘cognitivo’, ‘informazionale’, di ‘biocapitalismo’ (Codeluppi), di ‘turbocapitalismo’, di ‘finanzcapitalismo’ (Gallino), di ‘tecno-capitalismo’, di ‘capitalismo delle piattaforme’ (Srnicek, Vecchi). Qualcuno si è spinto fino alla definizione di ‘postcapitalismo’ (Drucker, Mason) teorizzando la “fine del capitalismo” (Rifkin), quasi a riecheggiare la “fine della storia” fantasticata negli anni ’90. Sta di fatto che se il futuro è il web e le fabbriche sono il passato, il capitalismo non muore ma cambia forma: il suo imperativo è sempre quello di sfruttare, vendere, realizzare profitto. Informazione e conoscenza, che dovrebbero rappresentare “beni comuni”, vengono usate, sfruttate indifferentemente come materia prima per la produzione capitalistica di merci materiali e immateriali. Ciò che fa, di questo capitalismo, qualcosa di assolutamente inedito, sta nel fatto che esso non è più soltanto un sistema economico (dunque un “mezzo”), ma è divenuto una forma/norma di vita, una “biopolitica” (Foucault). La sfuggente identità del capitalismo contemporaneo (testimoniata dalle sue variegate definizioni) non può non riflettersi nel campo dei suoi naturali antagonisti; di qui le domande: quale classe antagonista? quale proletariato? quali modificazioni nella composizione di classe? quale lotta di classe? In ogni caso, parliamo di un capitalismo ambiguo, perché tende a dissimulare le molte alienazioni che esso stesso genera con la falsa autonomia del lavoro intellettuale/cognitivo e con la cosiddetta “autoimprenditorialità” (quasi a voler celare la questione proprietaria e il permanente sfruttamento del lavoro dietro una realtà virtuale, in cui esisterebbero solo individui e non più classi). Qui ci soffermiamo soprattutto su quella forma di capitalismo che realizza plusvalore grazie alla capacità di catturare nella rete linguaggi, saperi, comunicazione, conoscenza; ma va detto che non esiste una separazione netta tra le diverse tipologie di capitalismo: la world factory (la “fabbrica” del capitalismo cognitivo) vede la complementarietà tra produzione industriale, produzione di conoscenza e finanza.
Guardiamoci intorno: siamo immersi in flussi di comunicazione continui e pervasivi. I cellulari, i tablet, gli iPad e gli iPhone hanno reso totalizzante il nostro rapporto con la rete: viviamo in una compulsione e connessione esistenziale fatta di istanti, il nostro tempo non ha più né passato né futuro. Tutto entra nella logica della breve durata. Persino sul piano antropologico siamo in presenza di trasformazioni profonde. Dell’homo sapiens contemporaneo sono state date definizioni che vanno dall’homo faber all’homo oeconomicus, all’homo consumens, all’homo technicus, all’homo cablatus e finalmente, abbandonato il latino, siamo giunti al prosumer (cioè producer+consumer, il ‘produttore-consumatore’). L’individuo introietta imperativi quali: non fermarsi mai, non perdere tempo, non approfondire, a tutto vantaggio del surfing, del “copia e incolla”, di un sapere superficiale che non è conoscenza; si coltiva l’illusione di poter sapere tutto e subito. Il prosumer è chiamato a interpretare la propria esistenza in termini di ‘dover consumare’, ’doversi connettere’, ‘dover garantire prestazioni e produttività crescenti’. Nel momento in cui le ‘grandi narrazioni’ e le utopie del passato perdono senso, persino i saperi canonici entrano in crisi, mentre viene posta in primo piano l’acquisizione di ‘competenze’, ovviamente funzionali ai modi di produzione ed ai rapporti di produzione vigenti. Le conseguenze di tutto ciò, sul piano dell’istruzione e della formazione, sono evidenti e drammatiche: si misura proprio qui il livello di egemonia culturale conquistato negli ultimi decenni dall’azione combinata e congiunta, sotto la regia del capitale, di nuove tecnologie e neoliberismo. Si è perso di vista l’obiettivo di formare cittadini consapevoli e dotati di senso critico, si è dato sempre più spazio alla formazione del prosumer (ci parla di questo anche l’infelice esperienza della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”). Pensiamo ad un lessico da tempo in uso nella nostra scuola: quale finalità educativa e formativa si ha in mente quando si adottano termini come portfolio, crediti, debiti, governance, manager, leadership, ecc.? Non a caso i grandi monopolisti degli algoritmi si sono insediati in gangli strategici della formazione: le esibizioni di Steve Jobs a Stanford, di Mark Zuckerberg e di Jeff Bezos nelle principali università americane, hanno aperto la strada a poderosi investimenti economici e a meccanismi di controllo, condizionamento e sfruttamento della ricerca.
Molti si erano illusi che la rivoluzione digitale annunciasse l’inizio di una nuova, sfolgorante era. Non è mancato chi, a sprezzo del ridicolo, ha parlato di un “nuovo Rinascimento”. I guru della New Economy tuttora riassumono le mirabilia del web in due parole chiave: libertà e ricchezza. Del web viene esaltata la libertà di esprimersi. Non solo. La rete promette ai più capaci – o fortunati – di trasformare un sito web in ricchezza. Ma dietro tutto questo, dietro lo specchio in cui si riflette la nostra quotidianità di internauti, sta una ben solida realtà: perfino i servizi che appaiono e ci vengono presentati come totalmente gratuiti – un “dono della rete”! – fanno entrare milioni di dollari nelle tasche degli azionisti di società come Google o Facebook. Si aggiunga che vigono meccanismi di sfruttamento della forza lavoro che la rendono meno tutelata, meno retribuita e persino più alienata rispetto all’operaio fordista (valgano gli esempi di Amazon o di Uber). I knowledge workers, che per primi avrebbero dovuto beneficiare delle opportunità della rete, risultano invece i più penalizzati per precarietà e retribuzioni al ribasso. Dietro gli schermi dei nostri smartphone esistono legioni di cottimisti digitali.
Il potere del capitalismo digitale deriva in gran parte dal suo supporto tecnologico: la piattaforma, giustamente considerata come la versione digitale del panopticon, la prigione progettata da Jeremy Bentham. La piattaforma permette di tracciare ogni dato prodotto da chi è interconnesso; essa rappresenta, dunque, il guardiano della prigione: vede, ma non è vista; è il soggetto della comunicazione, ma non comunica nulla di sé. Come il detenuto, anche l’internauta viene osservato in ogni momento, ma non sa da chi e perché. L’unico soggetto che ha una visione completa della realtà virtuale in cui opera è la piattaforma, o meglio il suo proprietario. Se poi dal panopticon si passa al synopticon (Lyon), dove il controllo è esercitato da una pluralità di istituzioni politiche ed economiche, con relative piattaforme, ci troviamo nel bel mezzo di quella “società del controllo” di cui parlava già negli anni ‘80 Gilles Deleuze. La piattaforma digitale veicola un’idea di politica in apparenza al di là (o al di sopra) delle parti e si propone come strumento “del popolo, per il popolo”. Si tocca qui il cuore del populismo digitale, che esprime un pensiero semplificato, veloce, stereotipato, ben integrato nel capitalismo contemporaneo e che si candida addirittura a indicare soluzioni per la crisi della democrazia rappresentativa (Dal Lago e Morozov), ma la democrazia necessita di durata e di lungimiranza, laddove la rete vive di velocità e istantaneità. Torna dunque ad affacciarsi il tema della formazione del cittadino, nei termini imposti dal contesto in cui siamo immersi. Un contesto che a mio avviso suggerisce di pensare ad una nuova pedagogia, quindi ad un nuovo sistema di istruzione e formazione, che si dia l’obiettivo di formare l’uomo onnilaterale (allseitig), il cittadino del mondo capace di pensiero critico e soprattutto di un uso critico e consapevole dei nuovi strumenti tecnologici, anche al fine di un’educazione permanente, comunque nell’ottica di uno sviluppo delle capacità umane (tutte) come fine a sé stesso. E qui è d’obbligo tornare a Marx, il quale ci insegna che quando “l’intero processo di produzione […] si presenta come applicazione tecnologica della scienza”, c’è bisogno di una classe lavoratrice “superiore” (Grundrisse, pp. 706 sgg.); è una fase in cui la “specializzazione cessa” e “il bisogno di universalità, la tendenza verso lo sviluppo integrale dell’individuo comincia a farsi sentire” (Miseria della filosofia, p.116). Questa prospettiva richiede, tuttavia, l’organizzazione di una lotta sul piano politico e su quello culturale che tenga viva la percezione di “altri mondi possibili” attraverso l’abolizione dello stato di cose presente. Il nodo da sciogliere sta nella capacità di contrapporre alla pressione culturale ed economica dei monopoli delle piattaforme e dell’algoritmo una domanda di più autonomia e più libertà. C’è necessità di costruire un controllo sociale dei monopolisti dell’algoritmo: scuola e università potrebbero fare molto. Il tema della libertà di insegnamento e dell’autonomia di giudizio, che attiene alla mission fondamentale di ogni centro di formazione, non può non essere declinato in termini di acquisizioni critiche che permettano, ad ogni individuo, sia esso docente, discente o ricercatore, di assumere una piena cittadinanza, consapevole e autonoma, rispetto alle potenze di calcolo con cui deve inevitabilmente confrontarsi. Occorre anche agire sulle contraddizioni della rete, che può comunque assolvere al doppio compito di strumento organizzativo (si pensi ad es. ai flash mobs) e di canale comunicativo, dando voce e mezzi a chi è senza voce e senza mezzi. Internet è già oggi usato per diffondere proposte politiche e denunce che altrimenti sarebbero ignorate. Ma resta una realtà ambivalente, dove oppressione e rivolta sono entrambe presenti. Ciò che ancora manca nelle tante esperienze di “autoproduzione comunicativa” dei movimenti sociali è una critica del modo di produzione che attiene soprattutto alla “fabbrica del consenso”. La parola d’ordine dei movimenti dell’ultimo decennio (ad es. le primavere arabe): don’t hate the media, become the media (“non odiare i media, diventa tu stesso media”) va ricontestualizzata, mirandola alla modifica dei rapporti di forza nella società e andando oltre il carattere effimero del messaggio. Wikileaks, Edward Snowden e Anonymous hanno in qualche modo dimostrato che “il re è nudo” o, meglio, può essere messo a nudo. L’immaginazione di nuove modalità di azione politica può e deve prendere forma: la rete può certamente diventare uno spazio di organizzazione politica. Ma ciò di cui oggi avvertiamo l’assenza è proprio la politica: una politica capace di ritornare autonoma rispetto all’economia, per disvelare i rapporti sociali di produzione, in un contesto in cui la produzione di contenuti è diventata elemento centrale del capitalismo. La rete potrebbe diventare lo spazio per dare gambe ad una politica di radicale trasformazione. Ma ancora molte, troppe domande ci interrogano e restano senza risposta. La domanda conclusiva che vi pongo è la seguente: è possibile individuare nella “classe” dei prosumers un soggetto antagonista dell’attuale sistema economico capitalista? Se la risposta fosse affermativa, potremmo anche concludere il nostro discorso con un marxiano: Prosumers, ovvero “proletari digitali”, di tutto il mondo, unitevi (e lottate)!

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Intervento di Gennaro Lopez (.doc)

 

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