“Le trasformazioni del lavoro nel capitalismo globale e digitalizzato” –
Comincio col proporvi un frammento di storia industriale italiana della metà degli anni Settanta, una storia poco conosciuta, poco studiata e ormai consegnata agli archivi, come molta della nostra migliore storia sindacale e politica. E purtuttavia assai importante, non soltanto, come cercherò di dimostrare, per capire la siderale distanza che ci separa, sotto ogni punto di vista, da quell’epoca nella quale un movimento operaio coeso e conflittuale seppe misurarsi senza sudditanze con il capitale sul governo del processo produttivo e seppe contrattare la ripartizione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale, praticando e formalizzando un sistema di relazioni industriali oggi inconcepibile. Un ripasso utile anche per capire cosa si è perso, come e perché lo si è perso e cosa di esso possa – debba – essere recuperato per riprendere il cammino.
Mi riferisco a ciò che in quel periodo accadde in una delle classiche branche del manifatturiero, il settore tessile primario (filatura e tessitura laniera e cotoniera), giudicato a quel tempo “maturo”, da un’ampia letteratura economica, perché ad alta composizione di manodopera e quindi destinato ad essere trasferito nei paesi emergenti sulla base di una nuova divisione internazionale del lavoro. Fu del resto questa la scelta che prevalse in Inghilterra e in Germania, ma non in Italia, dove una parte dei gruppi industriali più forti scelse la via opposta, quella di un massiccio investimento nelle nuove tecnologie, con impianti che raggiunsero il valore di un miliardo di lire per addetto, in virtù di un intreccio fecondo fra tessile e meccanotessile, fra meccanica ed elettronica. Ne derivò un formidabile aumento della capacità produttiva che, fatalmente, generava un’eccedenza occupazionale che i padroni tendevano a risolvere con i licenziamenti di massa, solo in parte ammortizzati dal ricorso alla cassa integrazione guadagni. Fu in questo contesto che si sviluppò una straordinaria fase di conflitto sindacale e di contrattazione che, per ridurre la narrazione all’essenziale, si concluse con un compromesso inedito: fu concesso alle aziende di spingere l’utilizzazione degli impianti sino ad oltre 8mila ore annue, con una pressoché totale saturazione del tempo disponibile, 24 ore su 24 per sette giorni alla settimana per 315 giorni l’anno. L’orario di lavoro fu ridotto a poco più di 32 ore pagate come 40.
Con un’organizzazione articolata su turni giornalieri di 8 ore, le giornate di riposo su base annua superavano quelle di lavoro; cinque squadre organiche si avvicendavano coprendo l’intero arco della giornata, il lavoro straordinario venne totalmente abolito, furono istituite squadrette che consentivano ai lavoratori di frequentare la mensa aziendale nella mezzora retribuita, fu contrattata un’assegnazione variabile delle macchinario in ragione del titolo del filato.
L’enorme ricchezza liberata dal mix innovazione + uso intensivo degli impianti e il conseguente aumento della produttività consentì, contemporaneamente, la riduzione degli orari di lavoro più forte d’Europa, l’assorbimento delle eccedenze occupazionali determinate dall’aumento di produttività e persino sensibili crescite degli organici, aumenti retributivi e passaggi di qualifica per gli operai addetti alla produzione.
Questo ciclo virtuoso non durò una stagione, ma quindici anni.
Non è il piacere consolatorio del ricordo nostalgico, dell’amarcord, che mi ha spinto a questa ricognizione, ma la constatazione che la robotizzazione spinta, se accompagnata da una robusta conflittualità sindacale, dalla lotta di classe, non può che essere una benedizione perché consente di diminuire il tempo di lavoro socialmente necessario, impedendo al padrone di trattenere per sé e per intero la maggior ricchezza prodotta.
Oggi più di ieri è chiaro che non si può fronteggiare le straripanti applicazioni della tecnologia alla produzione industriale, non si può cioè raggiungere l’obiettivo della massima occupazione se non attraverso politiche che uniscano poderosi investimenti pubblici ad una drastica riduzione dell’orario di lavoro. Fuori da questo cimento che le sinistre e i sindacati del tempo presente hanno del tutto smarrito, non c’è che la sconfitta e la barbarie.
Da quel tempo molta acqua è passata sotto i ponti.
Le contromisure elaborate dal capitale per contrastare la tendenziale caduta del saggio di profitto, la globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia si sono accompagnate ad una controffensiva contro il lavoro di una violenza e pervasività senza precedenti. Ne sono stati sconvolti non soltanto i rapporti di forza, ma le stesse idee delle classi subalterne tornate, con le loro organizzazioni, a brancolare nell’alveo dei rapporti sociali esistenti.
Come è noto, al crollo dell’Unione Sovietica è corrisposta la crisi irreversibile delle socialdemocrazie, definitivamente rinculate, l’una dopo l’altra, dentro il dogma liberista, in una inarrestabile fuga nell’opposto.
La società di mercato è divenuta l’orizzonte entro cui obbligatoriamente muoversi. Ci si persuase che oltre quelle Colonne d’Ercole c’era solo l’ignoto.
Questa debacle politica e culturale ha investito come un ciclone le organizzazioni sindacali, divenute incapaci di un pensiero e di una strategia autonomi.
Il dogma della flessibilità, spacciato per fisiologia oggettiva dell’impresa moderna, ha via via corroso l’intera impalcatura dei diritti; la contrattazione si è trasformata in una negoziazione a perdere; la scelta della moderazione salariale, nell’illusione che questa favorisse gli investimenti e l’occupazione, si è impadronita, con poche significative eccezioni, dei gruppi dirigenti sindacali.
Mentre si rottamavano le scuole di formazione sindacale, considerate retaggi di un sindacato intriso di ideologia, venivano forgiate schiere di sindacalisti educati alla pseudoscienza di una contrattazione che legava gli emolumenti salariali ad indici di bilancio imperscrutabili. L’autonomia della rivendicazione salariale spariva e veniva soppiantata da formule astruse in cui la retribuzione diveniva una variabile dipendente dell’inflazione, del margine operativo lordo dell’impresa e da mille diavolerie che la rendevano incerta e variabile.
Ci fu contrasto, alla base, ma i fortilizi di resistenza furono progressivamente espugnati.
Il decentramento della produzione, la disarticolazione artificiosa del ciclo produttivo in cento segmenti rigorosamente controllati dal padrone, ma formalmente autonomi, hanno minato alla radice l’unità di classe, hanno ridotto la consistenza e la forza della classe operaia “centrale”, hanno desindacalizzato una grande fetta del lavoro industriale e dei servizi.
Ci troviamo ora di fronte ad un sindacato che ha progressivamente mutato il proprio codice genetico.
La contrattazione collettiva nazionale è congelata da tempo o ridotta ad un simulacro, mentre quella aziendale, anche nel settore manifatturiero dove vantava la sua più antica e consolidata tradizione, si è strada facendo trasformata in un aziendalismo intrinsecamente segnato dalla subalternità.
La proliferazione degli enti bilaterali e le forme esplicite o surrettizie di finanziamento del sindacato ad esso connesse ne hanno compromesso l’autonomia e l’indipendenza.
Il peso dei servizi a rapporto individuale (uffici vertenze, patronati, assistenza fiscale, ecc.) ha assunto un peso sempre più rilevante rispetto alla contrattazione collettiva e sta mutando radicalmente il rapporto stesso fra il sindacato e gli iscritti.
Si attenua sino a smarrirsi del tutto il significato del sindacato come strumento di riscatto collettivo: il riferimento non è più la classe, ma le persone che avendo un lavoro cercano nel sindacato, ciascuna per sé, una qualche forma di assistenza e di protezione individuale. Così la più elementare coscienza di classe si stempera sino ad evaporare.
Di quello che fu il più grande sindacato europeo, inventore di inedite forme di democrazia operaia e direttamente produttore di politica non vi è più più né traccia né memoria.
Governi di centrosinistra e di centrodestra, per nulla o tiepidamente contrastati dai sindacati, hanno potuto così colpire al cuore i capisaldi del welfare (dalle pensioni alla sanità) e, con l’abolizione dell’articolo 18, demolire l’architrave su cui poggiavano i diritti individuali e collettivi dei lavoratori, cancellando, nella sostanza, l’intera legislazione lavorista degli anni Settanta.
Nel nostro presente, l’enorme crescita della ricchezza prodotta consentirebbe la soluzione dei più grandi problemi dell’umanità, a patto di una radicale trasformazione dei rapporti di proprietà su base planetaria. Invece succede l’esatto opposto: si lavora di più e si guadagna di meno, molto di meno, sino alla cronicizzazione di forme della prestazione prossime al lavoro schiavile.
La lotta di classe è oggi praticata dal capitale per estrarre plusvalore assoluto in forme che uniscono lo sfruttamento più tradizionale all’innovazione tecnologica e organizzativa più spinta.
Come scrive Marta Fana,
“il precariato è la risposta feroce contro la classe lavoratrice, il tentativo più riuscito di distruzione di una comunità che aveva in sé un connotato, quello di classe, che si caratterizza per una comunanza di interessi in costante conflitto con gli interessi di chi ogni mattina si sveglia e coltiva il culto dell’insaziabilità, dell’avidità che si fa potere. Il potere di sfruttare, di dileggiare tutti quelli che contribuiscono a creare le fortune dei poche che se le accaparrano (…). Loro hanno vinto nel momento in cui sono rimasti uniti perseverando nel disaggregare i lavoratori in quanto corpo sociale.
Per farlo hanno avuto bisogno di molta creatività, di imporre, con una buona dose di maquillage, un nuovo volto al lavoro: eliminando dall’immaginario i bassifondi, gli operai; escludendo dal racconto quotidiano la fatica dello sfruttamento; mascherando l’impoverimento dietro l’obbligo di un dress code”.
Il passaggio d’epoca che riorganizza le forme dello sfruttamento è il passaggio dal capitalismo industriale finanziario a quello che ormai è universalmente chiamato capitalismo digitale. Un passaggio, vale la pena di sottolinearlo, del tutto interno al modo di produzione e di consumo capitalistico.
Nel giro di quindici anni si è formata una nuova oligarchia industriale e produttiva (Google, Amazon, Facebook) che solo quindici anni fa non esisteva.
Negli anni Sessanta General Motors era l’impresa che aveva nel mondo il fatturato maggiore. Alle aziende servivano decine e decine di anni per acquisire una posizione di peso a livello mondiale.
Oggi Google, la più grossa impresa mondiale per fatturato, generatrice di profitti stellari, ha alle sue dipendenze non più di cinquantamila persone.
Al modo di funzionamento di queste aziende che si muovono con eccezionale velocità corrisponde però un’enorme lentezza nella percezione delle trasformazioni che sono intervenute e noi arranchiamo spaesati nella difficoltà di elaborare chiavi interpretative che non possono meccanicamente replicare le categorie che si sono sviluppate nell’Ottocento e nel Novecento.
Renato Curcio racconta con efficacia la dimensione lavorativa di un lavoratore della Leroy Merlin, che chiama convenzionalmente Filippo.
“Un giorno Filippo va a lavorare come al solito, e l’azienda gli dice: da oggi tu dovrai utilizzare questo bracciale elettronico, un tablet che entra in funzione con il badge, non appena Filippo fa il suo ingresso in azienda. Filippo va allo spogliatoio e poi al punto di lavoro, dove è abituato a incontrare il capo reparto che gli dà le indicazioni per la giornata. Ma lì non trova nessuno e sente invece un beep beep provenire dal suo tablet sul braccio, lo guarda, e vi trova scritte sette operazioni che deve compiere. Sullo schermo appare: operazione numero 1, spostare il bancale X dal posto Y al posto Z, 7 minuti; operazione numero 2, spostare un altro bancale, 12 minuti, e via di seguito. Filippo si accinge a svolgere il suo compito e trova un altro lavoratore, che è stato convogliato anche lui dal suo tablet su quel bancale per fare quell’operazione, ma non si possono parlare perché al primo saluto che si scambiano, il tablet dice: dovete lavorare, non chiacchierare, se chiacchierate vi leviamo punti.
Quali punti? Lo scoprono dopo la prima operazione. Fanno il lavoro in 8 minuti, e il tablet segnala che ci hanno messo un minuto in più del previsto, dunque gli verranno tolti 120 punti; ma indica anche che se nella seconda operazione impiegheranno un po’ meno dei 12 minuti previsti, dei punti verranno aggiunti, quindi potranno tornare in equilibrio. Finite le sette operazioni, il tablet gliene assegna immediatamente altre, per esempio è entrata tanta gente in negozio quindi dice a Filippo di andare al posto X a fare l’operazione Y per 42 minuti, ecc. Filippo quindi scopre che da quel momento viene remunerato con dei punti, e che la sua vita non è più regolata da relazioni prossimali con una gerarchia, ma che la gerarchia è incorporata in uno strumento che è diventato il suo capo (…). Lo strumento dice a Filippo cosa fare, se lo ha fatto bene o male, se ci ha messo troppo tempo o poco, se gli mette punti o glieli toglie… vale a dire lo gestisce: lo strumento ha il comando di Filippo. Filippo lo indossa, ma paradossalmente è Filippo che è indossato dallo strumento.”
Non abbiamo più una gerarchia prossimale, relazioni tra lavoratori, ma un mutamento radicale di quella che è stata la categoria principale di lettura del mondo del lavoro in tutto il Novecento, ossia la categoria del ‘tempo’.
Storicamente i contratti retribuiscono ore di lavoro – l’azienda compra lavoro e lo paga tanto all’ora – e si articolano intorno a una categoria di tempo che è il tempo orario; sono state fatte quindi lotte (ahinoi, in un tempo trapassato) per diminuire l’orario, aumentare la retribuzione oraria ecc.
Ora, nel passaggio al capitalismo digitale, questa categoria di tempo non ha più alcun valore, perché ciò che viene misurato dal bracciale non è l’ora di lavoro ma quanto lavoro viene fatto realmente all’interno di un’ora.
Ma si modifica però anche l’idea di spazio, perché qual è lo spazio tra due persone che sono intermediate da un dispositivo digitale? Possono essere migliaia di chilometri. I lavoratori, benché spazialmente vicini in metri, ma dotati ognuno di un dispositivo digitale che li collega a una piattaforma, sono in termini di spazio, di distanza tecnologica, lontanissimi. E fra loro drammaticamente competitivi.
Dopo un po’ di tempo sarà possibile verificare tutte le tracce di ciascuno, e magari vedere che il rendimento di Tizio è sostanzialmente costante ed è un profilo basso. Sarà l’algoritmo, che è in possesso di tutte le informazioni necessarie, a decidere con ineffabile precisione chi potrà rimanere al lavoro e chi no.
Il meccanismo è asettico, impersonale, “pulito”. Una sentenza non impugnabile.
Bisogna rendersi conto che questa modalità di governo e di dominio non riguarda solo il lavoro tradizionale ma, per il tramite delle tecnologie digitali, si trasferisce a livello mondo.
Quando utilizziamo lo smartphone noi produciamo una sterminata massa di informazioni di cui si impossessano gratuitamente le imprese proprietarie dei brevetti e degli strumenti che utilizziamo. Queste informazioni vengono preziosamente custodite e vagliate. Serviranno per orientare la produzione e il consumo.
Ancora Curcio: “Ci troviamo improvvisamente all’interno di un panorama in cui oggi nel mondo miliardi di persone stanno producendo gratuitamente plusvalore per aziende capitalistiche che sono proprietarie non solo delle tecnologie ma anche dei dispositivi tecnologici, perché ce li vendono. E noi ne siamo in possesso perché ce li vendono in quanto li abbiamo comprati e tutti i mesi paghiamo una quota per connetterci a internet”.
Solo gli schiavi, nella storia, producevano plusvalore assoluto. Il padrone dava loro ciò che serve per rimanere in vita. Ora stiamo attraversando una fase storica in cui il capitalismo digitale recupera il rapporto di schiavitù e lo ripropone – mutadis mutandis – sotto forma di un lavoro volontario, disseminato e persino suadente. Il capitale riesce cioè in un miracolo egemonico, in senso gramsciano: riproduce il rapporto capitalistico di produzione non solo attraverso la coercizione, il dominio ma, contemporaneamente, attraverso il consenso.
Di nuovo Curcio: “Se il capitale riesce a costruire delle rappresentazioni delle situazioni, tali che le persone dominate le facciano proprie, ecco che i dominati non confliggeranno più con il potere, ma utilizzeranno le sue stesse rappresentazioni per spiegarsi la propria situazione e accettarla (…).
I dispositivi digitali generano mappe culturali che plasmano il modo attraverso cui guardiamo il mondo e ce lo rappresentiamo.
Ma c’è un’altra implicazione. Consegnando le nostre informazioni non stiamo soltanto producendo ricchezza per altri, ma – sebbene non ve ne sia contezza nei più – stiamo consentendo un controllo su noi stessi.
Scrive Paolo Ciofi:
“Oltre ad offrire pubblicità per gli inserzionisti, nei livelli più alti e sofisticati le maggiori piattaforme usano gli algoritmi e tutti i trucchi che il software consente per metterci sotto controllo, ed estrarre dal nostro corpo e dalla nostra mente tutto ciò che serve per pianificare la loro attività di manipolatori e venditori di servizi: il corpo umano come un pozzo di petrolio dal quale estrarre materia prima per il business. (…) Il consumatore non sa di essere un lavoratore, mentre il lavoratore diventa un consumatore che non sa di lavorare”.
Difficile dire meglio.
La rete ti insegna poi anche un’altra cosa. E cioè che non serve sapere delle cose. Le conoscenze ci sono già tutte. C’è soltanto bisogno che tu impari a prenderle. Questo significa che le conoscenze le hanno altri, tu puoi al massimo imparare le procedure per procurartele.
Ora, è evidente che una svolta non può che passare attraverso la ricostruzione del sindacato, per rimettere in piedi e rifondare un modello contrattuale inclusivo, capace di riunificare i segmenti in cui tutto il mondo del lavoro eterodiretto è stato scomposto, disaggregato, per ricostruire quella trama solidale la cui disintegrazione sta alla base della guerra tra poveri su cui i padroni hanno in questi anni costruito la propria fortuna economica e politica.
Per farlo efficacemente, l’ultima cosa che serve è avventurarsi in bizzarre fumisterie.
Leggiamo nel documento che la Cgil sta portando alla discussione del suo 18° congresso che “nel nuovo modello di relazioni industriali innovative, in funzione delle nuove caratteristiche della prestazione del lavoro digitale, la nuova frontiera è – udite udite, ndr – contrattare l’algoritmo”.
Inutilmente cerchereste nel testo un approfondimento circa le caratteristiche di questo “innovativo” modello negoziale. Mentre non è difficile immaginare la reazione umoristica che questa formula genererà fra gli operai, i quali forse preferirebbero un sindacato che tornasse ad occuparsi di salario, orario e condizioni di lavoro, considerato che il salario continua a diminuire, l’orario ad aumentare e le condizioni di lavoro a peggiorare.
Ma per farlo – ecco il punto – non bisogna disporsi a “contrattare l’algoritmo” ma, piuttosto, a liberarsene.
Ciò che comporta una discreta propensione al conflitto, alla vituperata lotta di classe, troppo spesso trattata come un’ubbìa passatista, di fronte alle velleità concertative di questo ventennio.
La ricostruzione di un nuovo modello contrattuale inclusivo deve poi saldarsi ad una proposta di politica economica generale da tempo uscita dall’orizzonte strategico del sindacato, dove programmazione economica, ruolo decisivo della mano pubblica per una politica di investimenti che il capitale non vuole né può sostenere, piena occupazione, forte riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario possano divenire il fulcro unificante delle lotte.
Abbiamo da gran tempo imparato che la rivoluzione comunista non è un destino scritto nel codice genetico del proletariato al quale spetterebbe solo di scoprire ciò che è occultato dall’ideologia delle classi dominanti. Alimentare questo equivoco consolatorio, per giunta nelle modeste condizioni in cui siamo, servirebbe solo a produrre un involontario quanto poco raccomandabile effetto comico.
E’ invece indispensabile riprendere con umiltà il trascuratissimo lavoro di inchiesta e di analisi della composizione di classe nel tempo presente, delle condizioni oggettive e soggettive di ogni segmento del lavoro subordinato o eterodiretto.
Quasi nessun sindacato sente più il bisogno di apprendere direttamente dai lavoratori, dalla materialità della loro condizione. Il sapere è già presupposto, si forma e si deforma nei labirinti autistici delle relazioni industriali, anch’esse sempre più asfittiche e inconcludenti.
Tornare all’inchiesta significa indagare innanzitutto le differenze, cioè le specifiche modalità attraverso le quali si materializza il rapporto di capitale nel tempo presente, come esso cambia la concreta condizione di lavoro e forma le idee, la coscienza di sé, le aspettative di quanti entrano nel processo di produzione e riproduzione.
Fra i pochissimi che stanno investendo nel lavoro di inchiesta e di analisi per sostenere, connettere e organizzare le lotte che a macchia di leopardo sono in atto in Italia, c’è il collettivo Clash City Workers.
Così si esprime il collettivo nell’incipit di un libro che riassume i risultati di una ricerca e di un’inchiesta condotti “sul campo”:
“Purtroppo a Sinistra, in quella parte politica che una volta era interessata a studiare com’era fatta la società per trasformarla, abbiamo trovato ben poco. Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale e ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi ‘immaginari’, a nuove ‘narrazioni’ (…). Alla prova dei fatti, le elaborazioni di filosofi, letterati, sociologi – ovvero di soggetti spesso sganciati dal mondo della produzione, quasi tutti interni al circuito universitario – non reggono: la ‘deindustrializzazione’, la ‘residualità degli operai’, la ‘centralità del cognitariato’, nel migliore dei casi sono semplificazioni, nel peggiore sono fantasmi, mere proiezioni di chi scrive (…). Nel frattempo, proprio chi ci governa ci studiava attentamente, produceva ricerche, indagini, sondaggi, pieni di dati e ragionamenti. Perché? Perché chi ci governa ha molta più consapevolezza di noi. Chi ci governa – che per comodità chiameremo la borghesia, i padroni, quelli che detengono i mezzi di produzione (fabbriche, campi, aziende, proprietà, capitali, rendite…) – si percepisce come un insieme definito da certe caratteristiche, come una classe sociale con degli interessi precisi, contrapposti ad un’altra classe sociale che esprime ‘naturalmente’ altri interessi, anche quando non ne è cosciente. Per questo motivo la borghesia ha bisogno di sapere come siamo fatti (…). Anche noi non possiamo permetterci di filosofeggiare, ma abbiamo bisogno di sapere precisamente come siamo fatti e come sono fatti i nostri nemici (…). Che lo si voglia o no, è la realtà il terreno dello scontro: anche perché a combattere con le allucinazioni si perde sempre”.
La composizione tecnica di classe è il primo punto da cui partire: comprendere come ogni segmento si colloca nella complessità dell’organizzazione della produzione sociale, come ogni tessera del mosaico contribuisce alla generazione della catena del valore. Non per ridurre tutto, meccanicamente, ad omogeneità ma, esattamente al contrario, per cogliere gli aspetti differenziali, quelli attraverso i quali il capitale divide e contrappone il lavoro subordinato, quello formale e quello informale, quello materiale e quello intellettuale, quello cognitivo in ogni sua sfaccettatura e quello in cui la fatica fisica è ancora l’elemento prevalente.
Insomma, l’omogeneità della classe, oltre la dimensione seriale, non è un dato di partenza, prodotto necessario di una sorta di “ontologia” proletaria, ma l’obiettivo per cui lottare.
L’indagine deve anche sapere indagare la struttura soggettiva dei bisogni, senza la quale il concetto di composizione tecnica rimane ancorato ad una descrizione sociologica.
Solo dentro questo complesso processo è possibile tentare di conquistare una ricomposizione politica di classe e definire nel concreto (non astrattamente, non “in vitro”) una politica capace di riaggregare ciò che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha diviso, trasformando il mondo del lavoro in un caleidoscopio, fratturandone la coesione solidale, separandone gli interessi, ponendoli in reciproca concorrenza.
Lo sfruttamento capitalistico è sì pervasivo, ma non si sviluppa in una superficie liscia, senza gerarchie di luoghi e di settori, di cui bisogna invece costruire delle mappe gerarchiche, da mettere in relazione con le modifiche intervenute nel meccanismo di accumulazione.
Con questo schema teorico e nella temperie del conflitto si può individuare il piano comune, concreto e insieme politico e simbolico su cui far leva per ridare vita ad un punto di vista di classe oggi completamente sradicato.
Dino Greco