Giuseppe-Di-VittorioIntervento di Dino Greco, Bari, 13 ottobre 2017 –

Il primo tema che svolgerò riguarda il nodo della pesante sconfitta subita nel 1955 dalla Fiom nella elezione della commissione interna della Fiat e la coraggiosa quanto radicale riflessione autocritica – promossa da Giuseppe Di Vittorio – che prese avvio da quel duro scacco e che impresse una svolta radicale sul piano delle politiche contrattuali e della stessa concezione del rapporto fra organizzazione sindacale e lavoratori.
Una riflessione destinata ad innescare un processo di rinnovamento profondo del sindacato, i cui frutti matureranno copiosamente nel decennio successivo ed oltre.

Il contesto storico-politico che qui richiamo solo per collocare quanto seguirà in un quadro d’insieme è quello segnato dalla conferenza di Jalta, dove le tre potenze vincitrici della seconda guerra mondiale decidono sostanzialmente l’assetto del mondo in seguito alla sconfitta del nazismo e dei fascismi.

Nella relazione finale di quella conferenza si affermava, fra l’altro, che l’Europa era libera, si invitavano i paesi affrancati dal giogo nazista a svolgere elezioni democratiche e si sanciva l’impegno comune affinché tutti i popoli potessero scegliere liberamente i loro governanti.

Si sa che l’impegno fu palesemente disatteso nei decenni successivi caratterizzati invece dalla “guerra fredda”, inaugurata dal presidente americano Dwight Eisenhower e dal suo segretario di stato John Foster Dulles, che formulò la teoria del rollback, una strategia aggressiva per contrastare e se possibile rovesciare, senza esclusione di colpi, la diffusione nel mondo dell’influenza sovietica.

Gli aiuti previsti dal piano Marshall per la ricostruzione, in cambio dell’esclusione delle sinistre dal governo, rappresentarono l’altro corno di questa strategia.

Le elezioni del’48 con la sconfitta del Fronte popolare, la rottura dell’unità antifascista, la scissione sindacale della Cgil unitaria decisa dalla componente democristiana dopo lo sciopero generale proclamato in seguito all’attentato a Togliatti, la scissione socialista con la fondazione del cosiddetto “partito americano”, capeggiato da Giuseppe Saragat, la prima strage di Stato a Portella della Ginestra, tracciano la strada di una guerra di trincea in un’Italia che rappresenta la frontiera più esposta nel confronto post-bellico fra capitalismo e socialismo.

Seguiranno gli anni dello scelbismo, della legge truffa, della repressione più dura, dentro e fuori le fabbriche.

La borghesia industriale entra a piedi uniti nella lotta politica che si sviluppa nel paese, in perfetta consonanza col governo democristiano, e la Fiat rappresenta la punta di lancia di una possente offensiva antioperaia e anticomunista.

Del resto – come osservò Giorgio Ghezzi – se si esclude la prima parte dell’esperienza giolittiana, in Italia le lotte del lavoro sono sempre state considerate “sovversive” finché il paese contrassegnato da una democrazia non compiuta è sprofondato nella tragedia della dittatura e della guerra a fianco dei nazisti. E’ solo il lavoro, con gli scioperi del ’43 e del ’44 che rompe lo schema del consenso di massa del fascismo.
Sono il lavoro e la Resistenza che impongono alle classi dirigenti, pesantemente compromesse con il regime, il patto costituzionale.
Ma anche questa straordinaria legittimazione che il lavoro ottiene rimane sospesa, contestata.
Non solo ai tempi di Di Vittorio, evidentemente, giacché l’attacco e lo svilimento della Costituzione, il latente sovversivismo delle classi dominanti, è il filo nero che attraversa l’intera storia repubblicana fino ai giorni nostri.

Non a caso, esperienze come quelle del comunitarismo olivettiano o del tecnocratismo di Enrico Mattei, certo corrosivo di un impianto democratico, ma altrettanto certamente anti-americano, rimangono forme dei rapporti sociali capitalistici del tutto eterodosse nel panorama italiano, episodi fuori dal paradigma dominante, guidato e dominato dalla Fiat.

Fatto si è che alla riorganizzazione capitalistica, alla ripresa produttiva dell’economia, all’innovazione tecnologica e allo sviluppo di modi di produzione fondati su modelli fordisti e tayloristi, non corrisponde né un’elevazione delle retribuzioni, né, tantomeno, un qualche riconoscimento del diritto di coalizione dei lavoratori che viene contrastato in ogni modo.

Persino diversi economisti americani si dolsero per il fatto che le ingenti risorse messe a disposizione del piano Marshall avevano prodotto sì una crescita sostenuta, ma fondata sul basso costo del lavoro, cosa che aveva impedito una contemporanea crescita dei redditi e generato un ristagno nella spesa e nei consumi.

La Fiat persegue con metodo l’attacco ai diritti individuali e collettivi dei lavoratori: licenziamenti politici, schedature di massa (se ne contarono fino a 350mila), istituzione del premio anti-sciopero (che restò in vigore fino al’62).

Verso la fine del’52 la Fiat creerà i reparti confino, dove verranno concentrati e isolati molti militanti della Fiom, del Pci e del Psi; tra questi la famosa Officina Sussidiaria Ricambi (O.S.R.), il cui acronimo fu ribattezzato in “Officina Stella Rossa”, che durò fino al 1957 quando sarà chiusa e tutti i lavoratori in organico licenziati.

La repressione si salda ad una condizione durissima della vita di fabbrica, fatta di controlli fiscali ossessivi, aumento dei ritmi e taglio dei tempi.

A questa accanita versione della lotta di classe di impronta vallettiana si univa la configurazione di una sorta di welfare aziendale (mutue, case, pensioni, assicurazioni sociali, colonie, ecc.) e un sistema discriminatorio e di favore fatto di prestiti, tanto più importanti in un quadro del tutto deficitario dei servizi pubblici sociali che dava all’operaio e alla sua famiglia elementi di certezza tutt’altro che indifferenti.

Bisogna anche tenere conto che fino alla metà degli anni Cinquanta l’immigrazione prevalente in Fiat non è quella meridionale, ma quella che proviene dalle campagne piemontesi, dove l’autonomia culturale, i livelli di politicizzazione, la capacità di resistenza non erano certo quelli della parte più tradizionale e sperimentata della classe operaia torinese e dove il mix fra repressione e paternalismo autoritario facevano senz’altro presa in una parte dei lavoratori.

E tuttavia, pur nelle difficoltà e nelle asprezze del durissimo scontro di classe in atto, la forza della Fiom alla Fiat si era mantenuta enorme fino al 1954, quando con oltre il 63% dei voti eleggeva la maggioranza assoluta dei commissari, ben 100 sui 58 che contavano Fim e Uilm prese insieme.

Nelle elezioni del ’55 i rapporti si rovesciano: la Fim diventa il primo sindacato con il 40,5%, La Fiom retrocede al 36,7% e la Uilm raddoppia i suoi voti passando al 22,5%.

La situazione peggiorerà ancora nei due anni a seguire, quando la Fim consoliderà il suo primato e la Uilm supererà nettamente la Fiom, ormai consegnata ad una rappresentanza minoritaria dei lavoratori Fiat.

Lo shock è enorme.
Nell’esito disastroso aveva indubbiamente pesato la durissima repressione padronale, i pesanti interventi della direzione nella campagna elettorale, al punto che la Fiom non era riuscita a presentare le liste dei candidati in alcune sezioni Fiat.
Tuttavia, le dimensioni della sconfitta furono tali da determinare uno sbandamento tra le file della Fiom e molti militanti abbandonarono successivamente ogni attività sindacale, mentre la nuova situazione spingeva la Fiat ad accentuare ancora di più la propria attività repressiva.
Si può dire che nel ’55, nella più grande ed importante fabbrica d’Italia, il padronato cerca e ottiene il suo 18 aprile sindacale.

E’ a questo punto che – per la diretta iniziativa di Giuseppe Di Vittorio – si apre nella Cgil un profondo esame autocritico nel quale, sin dal primo approccio, si specchiano il coraggio politico e l’onestà intellettuale del suo segretario.

“Anche se la colpa è al 99 per cento del padrone, se c’è un 1 per cento che ci riguarda – disse al direttivo della Cgil – è su questo che io voglio lavorare (…) Dobbiamo cioè dire chiaramente ai lavoratori che anche per i nostri errori il padronato ha potuto portare molto avanti la sua politica di terrorismo e coazione. Dobbiamo dare la prova ai lavoratori che la Cgil ha il coraggio di guardare in faccia la realtà, di esaminare la propria azione, di scoprire e di denunciare apertamente i propri errori e di fare appello agli stessi lavoratori perché ci aiutino con il loro consiglio, con le loro esperienze, a superare questi errori, queste difficoltà, queste deficienze, e quindi a trovare insieme la strada che ci deve permettere di andare avanti”.

Poi, più precisamente:

“Specie sul terreno aziendale, noi non abbiamo studiato a fondo i nuovi processi produttivi, le nuove forme di retribuzione ad incentivo, molto differenziate tra un’azienda e un’altra” (…) Il nostro più grave errore è stato quello di seguire schemi generali, invece di elaborare nelle fabbriche e nei reparti le rivendicazioni più sentite dai lavoratori”.
La questione che si abbatteva come un colpo di maglio sul sindacato di Di Vittorio era che, negli anni successivi al ’45, la Cgil praticava una rigorosa centralizzazione contrattuale che lasciava poco o nessuno spazio alla contrattazione di categoria.

Non solo, le iniziative delle commissioni interne erano viste con sospetto e spesso osteggiate perché considerate come l’espressione di un sindacalismo “aziendalista”, corporativo e divisivo, che comportava la rottura dell’unità della classe operaia.

Questa concezione erigeva il sindacato esterno ad unico rappresentante genuino degli interessi della classe operaia e della sua unità, mentre strutture come le commissioni interne erano considerate come inevitabili portatrici di interessi particolari, quando non veicolo di un sottogoverno che portava acqua alle direzioni aziendali.

Si generava così un paradosso esplosivo: proprio mentre la Cgil conseguiva la maggioranza assoluta nelle commissioni interne, negava ad esse il diritto alla contrattazione aziendale in ragione di un modello centralizzato che ne affidava il monopolio al sindacato esterno.

Ciò finì per generare una schizofrenia e una contraddizione che sfociava in una crisi, prima latente poi esplosiva, del rapporto con i lavoratori.
Su di essa fece leva la Fiat, il cui passo successivo fu quello di revocare ai collettori sindacali le ore di permesso, imponendo la comunicazione formale dei nominativi, con la conseguenza che i collettori della Fiom furono trasferiti di posto in breve tempo e molti di loro vennero inseriti nelle liste dei licenziamenti.

La distruzione della rete dei collettori privò la Fiom di uno strumento organizzativo fondamentale per la comprensione dei problemi della fabbrica e per mantenere un rapporto costante con i lavoratori.
Si completava così un prosciugamento delle fonti che alimentavano la vita sindacale di fabbrica.

Si trattava ora di avviare una profonda riconsiderazione dell’intera politica contrattuale della Cgil.

Operazione tutt’altro che semplice e scontata, come documenta un’eloquente testimonianza di Gianni Alasia che ricorda un attivo che si svolse alla Camera del lavoro di Torino, dove intervenne il segretario nazionale confederale Oreste Lizzadri, un compagno che pure aveva avuto grandi meriti nel periodo della clandestinità e nella fondazione della Cgil unitaria dopo la Liberazione, in un’Italia occupata ancora per metà dai tedeschi e dai fascisti e per l’altra metà dagli alleati.

Ebbene, Lizzadri nel suo intervento – fra lo stupore dei più – affermò che “sì, è vero, alla Fiat siamo stati sconfitti, ma guardatevi intorno, la Cina avanza!”.
A ben vedere, si trattava della replica consolatoria, dell’atteggiamento che aveva consentito a tanti compagni e compagne che avevano vissuto gli anni duri del confino politico fascista di reggere la prova pensando che quella sconfitta era in realtà provvisoria di fronte al luminoso esempio dell’Unione Sovietica.

Il punto è che qui non si trattava di “guardare altrove”, ma di “guardarsi dentro”.

Ed è ciò che avvenne, passando per uno scontro aspro che investì l’insieme del gruppo dirigente della Cgil, incontrando l’opposizione più dura in alcune zone del Mezzogiorno e nella Fiom nazionale.

Di Vittorio, che pure aveva nutrito un forte scetticismo nei confronti del sindacato d’azienda e della contrattazione decentrata seppe rivedere le sue precedenti convinzioni, aiutato in questo dalla formidabile sensibilità che in ogni momento della sua vita egli ebbe per ciò che si muoveva nelle opinioni, nei sentimenti, nei comportamenti dei lavoratori dai quali mai e poi mai il sindacato doveva separarsi.

Di Vittorio afferra il problema con determinazione estrema e promuove un avvicendamento drastico nei gruppi dirigenti.
Alla Fiom chiama Agostino Novella e Vittorio Foa, mentre a Torino si insedia un gruppo di lavoro del quale fanno parte, tra gli altri, Bruno Trentin, Sergio Garavini, Bruno Fernex e Tino Paci, con il compito di studiare e comprendere meglio l’organizzazione del lavoro in Fiat e l’impatto delle nuove tecnologie sulla condizione di lavoro.

La duplice necessità, di formare strumenti di conoscenza capaci di penetrare l’anatomia del processo produttivo e di riplasmare, di realtà in realtà, una capacità di iniziativa contrattuale, non poteva che mettere al centro la questione dello strumento negoziale, la necessità di un’articolazione delle lotte che non comportava affatto una perdita della coscienza e dell’unità di classe ma, al contrario, un rafforzamento straordinario del protagonismo operaio in ciascun luogo di lavoro, in materia di orario, inquadramento professionale, retribuzione, tutela della salute.

Viene dunque messa in discussione quella “perifericità” della fabbrica che viveva nella strategia sindacale e che si era rivelata perdente.

Nascono qui le premesse di quel movimento che nella sua maturità, nell’esperienza consiliarista di chiara impronta gramsciana degli anni Settanta, produrrà la più estesa esperienza di contrattazione della storia repubblicana, forme di controllo sulla produzione, di potere operaio e modelli di sindacalismo fondati su un originale intreccio di democrazia diretta e delegata del tutto inediti in Europa.

Un movimento che lascerà per oltre un decennio un’impronta profonda sull’insieme della società italiana, almeno fino alla nuova sconfitta alla Fiat del 1980 che sembra ancora una volta segnare un passaggio d’epoca, con la fondamentale differenza, rispetto a quel lontano ’56, che la Cgil non volle o non seppe trovare la capacità di analizzare le ragioni oggettive e soggettive di quella sconfitta che segnò una profonda involuzione nel rapporto fra il sindacato e i lavoratori, smarrendo proprio l’insegnamento del sindacalista, del rivoluzionario di Cerignola.

Il quale ci lascia, guardando alle secche in cui ristagna oggi il sindacato, un secondo grande tema su cui riflettere e che formulerei così: la crisi del sindacato non si supera inventando scorciatoie para-politiciste, ma ragionando seriamente sul proprio deficit di rappresentatività sociale e rielaborando criticamente la propria strategia, per rifondare – come fece Di Vittorio dopo la sconfitta alla Fiat – un modello contrattuale inclusivo, capace di offrire risposte ad un mondo del lavoro non più composto, in prevalenza, dalla classe operaia “centrale”, ma frammentato in un arcipelago sociale che la nuova organizzazione del lavoro e le politiche padronali hanno reso marginale e privo di rappresentanza.

Quanto al più complesso “genoma” Di Vittorio, alla statura politica e morale dell’uomo, non abbastanza compresa e apprezzata, vi consiglio di leggere il monumentale lavoro di Adolfo Pepe, presidente della Fondazione Di Vittorio.

Io mi limiterò a tornare su alcuni aspetti della sua personalità che spiegano la posizione, altrettanto e persino più coraggiosa di quella dimostrata nella svolta sindacale, che Di Vittorio assunse di fronte ai fatti di Poznan e, soprattutto, di fronte all’intervento militare sovietico in Ungheria.

Come è noto, si consumò qui uno strappo profondo fra la Cgil e il Pci, fra Togliatti e Di Vittorio. Un contrasto che si protrasse con asprezza lungo l’intero ’56 e che aveva come prodromo la diversa valutazione che Di Vittorio dava sul rapporto segreto in cui Chruscev denunciava i crimini di Stalin al XX congresso del Pcus.

Già sui fatti polacchi Di Vittorio metteva in dubbio una corrispondenza de l’Unità che validava le versioni provenienti da Varsavia secondo le quali la rivolta operaia era in realtà diretta da non meglio definiti “agenti provocatori” e replicava in un intervento sulla stessa Unità che un ruolo del genere poteva essere stato giocato da costoro, ma che se non ci fosse stato un malcontento diffuso e un distacco profondo fra i lavoratori, i loro bisogni e il sindacato questi stessi agenti sarebbero stati isolati.
L’articolo terminava con l’indicazione della necessità di un esame serio della questione operaia a Poznan e, più in generale, in Polonia.
Questa posizione sarà condivisa dall’intera segreteria confederale che invierà un telegramma ai sindacati polacchi in cui dopo avere espresso “il dolore e il rammarico dei lavoratori italiani per i fatti di Poznan”, si dice “sicura che i sindacati polacchi opereranno efficacemente e rapidamente per soddisfare le legittime rivendicazioni dei lavoratori, nel quadro di un progresso economico e sociale della repubblica polacca, condizione per isolare e neutralizzare qualsiasi provocazione”.

Togliatti qui invitò Di Vittorio a valutare la potenza del nemico, “forte non solo nel suo, ma anche nel campo opposto” e, quindi, “a non alimentare il disorientamento nel partito e la sfiducia nell’Urss”. Un invito, questo, ribadito da Togliatti anche dopo che il maggiore giornale polacco aveva di fatto recepito esplicitamente i rilievi di Di Vittorio.

Il 25 ottobre esplode la rivolta in Ungheria. Dove la situazione si presenta ancora più complessa e contraddittoria, soprattutto dopo gli sviluppi positivi della situazione in Polonia dopo i fatti di Poznan: qui i sindacati avevano promosso un serio esame critico degli errori compiuti e Gomulka era passato pressoché direttamente dal carcere alla segreteria del partito.

Il 26 ottobre il Pci prende posizione affermando che la richiesta di intervento sovietico è una prova di debolezza da parte del Partito comunista ungherese.
Ancora più netto era stato Pietro Ingrao che sull’Unità parlava di forze controrivoluzionarie all’opera e chiedeva in sostanza di schierarsi, perché non esisteva un terzo campo, ma si stava da una parte o dall’altra della barricata, e soltanto dopo si sarebbe potuto discutere e differenziarsi.

Non passano 24 ore e questa volta è la Cgil a parlare attraverso una presa di posizione storica:
“La segreteria confederale – diceva il comunicato – ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva dei metodi di governo e di direzione politica ed economica antidemocratici che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari (…) La Cgil si augura che cessi lo spargimento di sangue, che si trovi nuovamente la concordia per superare la drammatica crisi attuale, isolando gli elementi reazionari che si sono inseriti in questa crisi col proposito di restaurare un regime di sfruttamento e di oppressione. In pari tempo la Cgil (…) deplora che sia stato chiesto e si sia verificato l’intervento di truppe straniere (…)”.

Lo scontro con Togliatti divenne inevitabile anche perché nel prosieguo del documento si invitavano i lavoratori italiani a non accettare campagne che avrebbero ancor più diviso i lavoratori e quindi “a non compiere la scelta di campo” chiesta prima da Ingrao e poi da Togliatti stesso.

“Nel nostro partito – si legge in una lettera che il 31 ottobre Togliatti inviò ai dirigenti sovietici, resa nota da Giulietto Chiesa solo nel settembre del 1996 – si manifestano due posizioni opposte ed entrambe sbagliate. Da una parte ci sono coloro i quali dicono: l’abbandono dei metodi staliniani, sancito dal XX congresso, è la causa di questo disastro. Dall’altra parte, all’estremo opposto, ci sono gruppi che esigono che l’intera direzione del nostro partito venga cambiata, e si richiamano ad una dichiarazione fatta da Giuseppe Di Vittorio”.

Togliatti proseguiva:
“La posizione di Di Vittorio non corrisponde alla linea del nostro partito. Vi assicuro che gli avvenimenti ungheresi si sono sviluppati in modo tale da rendere difficile la nostra azione di chiarimento all’interno del partito”.

E infine:
“La mia opinione è che il governo ungherese, rimanga o no alla sua guida Imre Nagy, si sta muovendo irreversibilmente verso una linea reazionaria; vorrei sapere se siete della stessa opinione”.

Era, evidentemente, un invito all’intervento, probabilmente superfluo perché i sovietici lo avevano già deciso.

Lo scontro non si poteva dunque attenuare perché in gioco erano questioni di fondo, non addomesticabili con equilibrismi dialettici ed è direttamente Di Vittorio a prendere di nuovo parola:

“A mio giudizio – dice – sbagliano coloro i quali sperano che dalla rivolta (…) possa risultare il ripristino del regime capitalistico e semifeudale che per decenni ha dominato l’Ungheria. E’ un fatto che tutti i proclami e le rivendicazioni di ribelli conosciuti attraverso le comunicazioni ufficiali di radio Budapest, sono di carattere sociale e rivendicano libertà e indipendenza. Da ciò si può desumere chiaramente che, ad eccezione di elementi provocatori e reazionari legati all’antico regime, non ci sono forze di popolo che richiedono il ritorno al capitalismo”.

Ad esprimersi in modo così netto era il Di Vittorio sindacalista e presidente della Federazione sindacale mondiale che interveniva in nome dell’autonomia del sindacato e dell’unità dei lavoratori dopo avere condotto nella Fsm, già prima dei fatti polacchi e ungheresi, un’esplicita battaglia politica, proponendo un documento che affermava l’indipendenza dei sindacati da qualsiasi governo, registrando un’ostilità diffusa espressa nei suoi confronti non soltanto da parte dei sindacati dei paesi socialisti.

Occorre qui tornare su alcuni tratti fondamentali della personalità politica di Di Vittorio.

Basta leggere la relazione da lui svolta alla terza sottocommissione della Costituente sul “Diritto di associazione e sull’ordinamento sindacale”, per cogliere a tutto tondo lo spessore e la modernità del suo pensiero politico, in particolare sui temi dell’indipendenza del sindacato, della libertà e della pluralità sindacale, dell’originale concezione della democrazia come condizione dell’unità sindacale.

Di lui scriverà Vittorio Foa – nel suo “Il cavallo e la torre”: “Credo di dover riconoscere in quell’uomo il mio solo maestro di politica”.

Ed è sempre Foa – ricorda Adolfo Pepe – a rintracciare in Di Vittorio che porta in sé l’eredità intellettuale, morale e politica del sindacalista rivoluzionario, una complessa “coabitazione di due lealtà , quella alla classe e al partito della classe”, una sorta di “doppia appartenenza”, dove però – cosa della massima importanza – la lealtà al partito non assorbe mai quella alla classe e non la subordina a sé.

Del resto, Di vittorio scopre il partito comunista – e vi aderisce – nel ’24, attraverso una riflessione sull’avvento del fascismo che aveva prosciugato il terreno dell’esperimento sindacalista, che per vivere “presuppone la democrazia, cioè la libertà di organizzazione, di propaganda e di movimento”.

Di qui la necessità del partito politico che invece “può continuare a vivere e a funzionare anche durante la tormenta, assicurando la continuità storica del movimento proletario”.

Si tratta, a mio modo di vedere, di un percorso simile a quello che portò Antonio Gramsci dall’esperienza dell’Ordine nuovo, dalla teorizzazione di una classe operaia capace di produrre direttamente politica, senza intermediari, all’insufficienza di questo cimento (che mai sarà smarrito nella sua più matura costruzione teorica) di fronte alla sconfitta operaia e al fascismo e dunque alla necessità di costruire il partito comunista.

Di Vittorio non abbandonerà mai l’antica convinzione che “il partito non è tutto e il sindacato è sempre l’organo specifico della lotta di classe; l’organo che realizza l’unità di classe anticapitalistica sul terreno degli interessi economici che uniscono tutti i lavoratori”.

E’ sorprendente ritornare ad alcune letture del Marx politico e vedere come la sua concezione del sindacato fosse molto simile a quella di Di Vittorio piuttosto che a quella che è stata nella tradizione del movimento socialista della Seconda e anche della Terza Internazionale.

“Mai – scriveva Marx – i sindacati devono essere collegati a qualsiasi associazione politica o posti sotto la sua dipendenza, se vogliono compiere il compito che è loro: farlo significherebbe portare un colpo mortale al socialismo.
Tutti i partiti politici, quali che siano, entusiasmano le masse operaie per un certo tempo, i sindacati per contro organizzano tutte le masse, in modo durevole, solo essi sono capaci di rappresentare una classe che deve opporsi giorno per giorno alla potenza del capitale”.

In Marx c’è, come in Di Vittorio, la consapevolezza che persino attraverso forme primordiali di lotta di classe, il movimento di classe non potrà non trasformarsi in un fatto politico, nella misura in cui pone un problema di potere di fronte al capitale.

Insomma, ogni volta che un movimento di classe si oppone in quanto classe alla classe dirigente, e cerca di piegarla con un’azione esterna , questa è un’azione politica.
Per questo, secondo Marx, ogni lotta di classe è una lotta politica.

Sarà proprio Ingrao, molti anni dopo, a rivedere completamente le posizioni a suo tempo espresse di fronte al dramma ungherese, affermando che “ dove il partito politico operaio si dà un orizzonte che scavalca la generazione attuale, e assume la classe come agente di un rivolgimento storico, il sindacato afferma continuamente la necessità di non smarrire l’oggi. Che il problema di una tale dialettica fra sindacato e partito sia reale – continuava Ingrao – lo conferma l’esperienza di quei paesi socialisti in cui la riduzione del sindacato ad organo meramente sussidiario del potere politico ha offuscato un momento necessario all’interno delle istituzioni e del movimento popolare, e in questo modo ha tolto qualcosa di importante anche al potere politico, e di fatti lo ha privato dell’esistenza di un segnale autonomo che continuamente esprima il grado di tensione che si determina tra i bisogni attuali dei lavoratori e i fini storici della classe”.

Nel suo intervento all’VIII congresso del Pci, Di Vittorio interverrà per rivendicare la piena autonomia e indipendenza del sindacato, liquidando la teoria della cinghia di trasmissione in nome di un’unità che non poteva fare appartenere un sindacato ad un partito, né qui né altrove, quale che fosse il regime politico in auge.
Vorrei concludere citando due passi di altrettanti interventi di Di Vittorio. Il primo è tratto da un discorso che egli tenne a La Spezia in occasione dei festeggiamenti per i suoi sessant’anni, mentre il secondo lo fece a Bologna, nel gennaio del ’53, al II congresso della cultura popolare.
Entrambi rendono come meglio non si potrebbe il senso profondo, indistruttibile, dell’appartenenza di Di Vittorio alla sua classe, il riscatto della quale rimase sempre la bussola dell’azione sindacale e politica dell’intera sua vita.
A La Spezia:
“Io non sarei stato nulla, io non sarei stato mai tratto dalla massa anonima dei miei fratelli braccianti di Cerignola e della Puglia se non fosse esistito, se non si fosse sviluppato, se non avesse lottato il movimento operaio organizzato.
Ragazzo bracciante semi-analfabeta, figlio di braccianti analfabeti, vivente in una società in grande maggioranza di analfabeti (guardati allora, generalmente, con disprezzo dalla intellettualità del tempo), certo nessuno avrebbe potuto pensare, senza il movimento operaio organizzato, che qualcuno da quella massa dovesse emergere (…) Avevamo bisogno di aprirci la strada e aprircela con le nostre forze, i nostri mezzi, la nostra volontà per uscire dallo stato di abbrutimento e di umiliazione in cui erano tenuti i lavoratori e conquistarci un destino migliore. Sentivamo il peso della nostra arretratezza secolare e il bisogno imperioso di uscirne. Ed è questo che mi ha portato a studiare, a cercare di imparare per trovare la via della liberazione che portasse i braccianti della Puglia, del Mezzogiorno, dell’Italia, ad assurgere a migliori condizioni di vita e a una superiore dignità umana. Avevamo bisogno di dirigenti e il movimento operaio se li è creati questi dirigenti”.
E a Bologna:
“Amici congressisti – afferma di Vittorio – sono lieto di salutare questo grande congresso, che ha già avuto una profonda eco nel paese ed è destinato ad avere vaste ripercussioni nelle masse popolari per quanto concerne lo sviluppo della cultura nel popolo, in nome della Confederazione generale italiana del lavoro e dei cinque milioni di lavoratori manuali e intellettuali che vi sono iscritti”.
“La nostra Confederazione del lavoro ha nel suo programma, nel suo Statuto, fra i suoi compiti fondamentali quello di difendere e di sviluppare la cultura nelle masse popolari e lavoratrici, come mezzo essenziale di liberazione, non soltanto di liberazione spirituale dell’uomo, come mezzo cioè di liberazione dall’ignoranza, dalla miseria, dalla superstizione, dai pregiudizi, ma anche come strumento fondamentale di liberazione dall’arretratezza, dalla miseria, dalla povertà, dalla sporcizia, come strumento di elevazione intellettuale, morale, spirituale ma anche economica e sociale”.
“Perciò la Confederazione del lavoro e tutte le organizzazioni sindacali annettono una importanza primordiale a tutti gli sforzi che sono diretti alla diffusione ed allo sviluppo della cultura nel nostro popolo (…)”.
“Ma prima di questo – prosegue Di Vittorio – permettetemi di accennare ad una certa ironia che è stata fatta da alcuni giornali sul mio intervento con un discorso a questo congresso della cultura popolare italiana […]”.
“Per rendere a suo modo chiaro il significato della mia presenza a questo congresso, un giornale ha scritto una frase appositamente sgrammaticata per dire: «Ecco qualcuno che è veramente rappresentativo di coloro che non conoscono la lingua italiana e che sono al fondo dell’ignoranza al congresso della cultura popolare».
“Lo scopo è di tentare di rappresentare come estremamente basso il livello culturale di questo congresso della cultura popolare. Ma lo scopo è anche un altro, al quale accennerò brevemente. Bisogna che io dica che in questa ironia di giornali benpensanti, di giornali che esprimono gli interessi della classe privilegiata e dirigente della nostra società, c’è qualche cosa di fondato”.
“Io non sono, non ho mai preteso, né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura. Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana… La cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale…”.
“Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri. Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società…”.
Pare di sentire, in sottofondo, le parole di Antonio Gramsci che sul Grido del popolo scriveva:
“Se è vero che la storia è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi dai privilegi, dai pregiudizi, dalle idolatrie, non si vede perché il proletariato, che un altro anello vuole aggiungere a quella catena, non debba sapere come, da chi e perché sia stato preceduto e quale giovamento possa trarre da questo sapere”.
Quel Gramsci che invitava le masse diseredate, e in primo luogo i comunisti, a imparare, a studiare, ad essere all’altezza del compito straordinario che essi hanno affidato a se stessi: quello di cambiare in radice il mondo in cui viviamo per costruirne uno di liberi ed eguali.
Di Vittorio svolse esattamente questo percorso, quello che portò un cafone di Cerignola a costruire le condizioni del proprio riscatto insieme a quello della sua classe.
Di Vittorio capì nel profondo quello che Gramsci non si stancò mai di raccomandare, quando scriveva che “occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.” Uno sforzo necessario, perché “la cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore; è presa di possesso della propria personalità; é conquista di una coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti, i propri doveri.”
Nel primo anniversario della morte di Antonio Gramsci, Di Vittorio pubblica su «La Voce» un articolo in cui descrive, come meglio non si potrebbe, il profilo politico e morale del rivoluzionario sardo.
“Antonio Gramsci – scrive Di Vittorio – non era un contemplatore, né il freddo scienziato che limiti la sua soddisfazione alla esattezza della diagnosi. Antonio Gramsci rappresentava la sintesi più completa dello scienziato scrupoloso, dell’uomo d’azione, del capo rivoluzionario”. “Egli fu il più grande marxista che abbia avuto l’Italia, quello che meglio d’ogni altro seppe trarne gli insegnamenti concreti e che compì i più grandi sforzi per applicarne il metodo alla situazione del nostro paese. Divenuto capo del Partito della classe operaia, Antonio Gramsci seppe vivere fra gli operai, seppe parlare con loro, seppe apprendere da loro e seppe dar vita al più interessante movimento unitario creato dalla classe operaia italiana, sia per la sua forma originale d’organizzazione che per la precisione e l’ampiezza dei suoi obbiettivi: i Consigli di Fabbrica”.
Discutendo con Gramsci sul programma dell’Associazione di Difesa dei Contadini d’Italia, fondata nel 1924 – scrive Di Vittorio – “io sentii la profonda commozione con la quale Gramsci considerava la miseria crescente dei pastori della sua Sardegna, dei contadini poveri del Mezzogiorno, dei braccianti di tutta l’Italia. Io sentii l’odio che si sprigionava dai suoi occhi penetranti, contro i banchieri ed i filibustieri del grande capitale del Nord, che saccheggiano il Mezzogiorno e tutto il popolo lavoratore d’Italia. Unire i contadini ed i braccianti attorno al proletariato industriale; unire tutti gli strati del popolo attorno alla classe operaia e al suo programma di emancipazione generale della società, non fu mai per Gramsci una mera questione di tattica, ma bensì il risultato della convinzione profonda che l’unione del popolo attorno alla sua classe d’avanguardia – la classe operaia – è la via maestra per giungere alla liberazione di tutto il popolo”.
Di Vittorio non conobbe l’opera fondamentale attraverso cui Gramsci potè parlare e ancora parla al mondo intero, i suoi Quaderni del carcere. Ma, grazie alla sua formidabile sensibilità di proletario ne seppe intuire oltre vent’anni prima tutta la portata.
C’è, fra gli altri, un passo dei Quaderni nel quale – sono convinto – Di Vittorio si sarebbe totalmente riconosciuto. E’ il brano intitolato “Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere”.
Gramsci vi scrive:
“L’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre comprende e specialmente ‘sente’. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo (…). Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale con il popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio. Se il rapporto fra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati è dato da un’adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere, solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che solo è la forza sociale; si crea il ‘blocco storico’ ”.
In questa descrizione si incarna, come in pochi altri esempi di dirigenti comunisti di quella statura, la figura umana, culturale e politica di Giuseppe Di Vittorio.

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