1. Nell’ultimo quindicennio dell’Ottocento, e fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, è emerso, in Europa ma non solo, un nuovo soggetto sociale, politico, culturale ben definito. Esso aveva alle spalle una lunga e travagliata gestazione: straordinari momenti di insorgenza rivoluzionaria (il 1848, la Comune) conclusi da altrettanto brucianti sconfitte, aspri e mai del tutto superati conflitti ideologici (anarchici, neogiacobini, socialisti utopisti ecc.); varie esperienze pratiche (sindacali, cooperativistiche, comunitarie); il tutto inserito e modellato in contesti nazionali molto diversi tra loro. Alla fine però era emerso un protagonista indiscutibilmente egemone, il socialismo di orientamento marxista, organizzato in partito, e collegato a sindacati, cooperative, giornali, riviste, su scala nazionale e con espliciti e impegnativi legami internazionali: la Seconda internazionale. Sui suoi legittimi genitori non ci sono dubbi possibili. Esso è nato da un incontro storicamente determinato. Da un lato una nuova classe, che lo sviluppo economico rapidamente produceva e rapidamente escludeva, ben definita nel rapporto tra capitale e lavoro salariato. Questa classe andava proprio allora concentrandosi nella grande industria, era capace di rivendicazioni e lotte collettive, e al tempo stesso (avendo dietro di sé la Rivoluzione francese) non era più plebe indistinta e rassegnata, poiché aveva “una confusa coscienza dei propri diritti sociali e politici. Dall’altro lato un pensiero forte, il marxismo, che a “sua volta aveva radici nell’eredità insieme riconosciuta e criticata della cultura moderna, offriva a quel nuovo soggetto sociale non un generico sostegno, ma strumenti intellettuali robusti per comprendere le ragioni strutturali delle sue sofferenze, per decifrare e immettersi in un’interpretazione generale della storia, per dare fondamento e plausibilità a un progetto di trasformazione generale del sistema e lo chiamava quindi a darsi un’organizzazione politica e ad assumere il ruolo di futura classe dirigente. Tale incontro non fu privo di ostacoli e controversie, ancora dopo le aggregazioni organizzative e anche tra coloro che pur si dichiaravano sinceramente marxisti. Controversie teoriche (dal «marxismo della cattedra» influenzato dal meccanicismo positivistico o dall’eticismo kantiano, all’economicismo tradeunionista); controversie politiche (sul suffragio universale, sull’importanza del Parlamento, sul colonialismo, sulle questioni operaie). Su tutto questo non occorre soffermarsi, perché esiste una vasta letteratura, ma soprattutto perché le controversie non impedirono a quel soggetto in formazione di definire comunque, anche a prezzo di qualche mediazione e di qualche ambiguità, un’identità culturale e di darsi un indirizzo politico unitario.
Utile invece, perché oscurato da successive e più aspre divisioni e oggi quasi dimenticato, è ricordare l’esito cui quel tentativo arrivò nel periodo del suo decollo, cioè la sua “straordinaria ascesa, su ogni versante, nel corso di poco più di vent’anni, e i risultati ottenuti, molti dei quali permanenti. Conquiste politiche: allargamento sostanziale in molti importanti paesi dell’accesso al voto, spazi di libertà di parola, di stampa e di organizzazione, pur pagando cruente repressioni, carcerazioni, esilii. Conquiste sociali: riduzioni dell’orario di lavoro, diritto alle «coalizioni dei lavoratori», cioè alla contrattazione collettiva, primi passi di assistenza sanitaria e previdenziale e di tutela di donne e bambini, istruzione elementare obbligatoria. Crescita organizzativa (in Germania quasi un milione di iscritti) e crescita elettorale (intorno al 1910 la socialdemocrazia raggiunse, in Germania ma non solo, oltre il 35% dei voti e divenne il primo partito in Parlamento). Infine successi culturali: il marxismo penetrò nelle università (oltre che nelle fabbriche, nelle carceri e fino in Siberia), formando gruppi dirigenti di grande valore e imponendo ai maggiori intellettuali che lo avversavano di confutarlo, ma prendendolo sul serio. Anche qualche insorgenza rivoluzionaria, contro stati autoritari, sconfitta ma non inutile, come in Russia nel 1905, o vincente, come in Messico. Una così sorprendente e rapida ascesa era connessa a un’unità di fondo che, al di là dei dissidi passati o di quelli in gestazione su alcuni punti, era sufficiente a definire un’identità, a mobilitare grandi speranze in grandi masse. Non c’era socialista, per quanto riformista e gradualista, che non credesse alla necessità e alla possibilità di un superamento del sistema capitalistico come obiettivo finale del suo impegno. Non c’era socialista, per quanto rivoluzionario e impaziente, che “negasse la necessità di una permanente e strutturata organizzazione politica, con una precisa connotazione di classe, e come sede per formare una coscienza di classe. La parola socialista e quella comunista non si presentavano quindi in quel contesto divergenti, tanto meno incomponibili, designavano anzi la differenza e la complementarietà tra una fase di transizione, più o meno lunga, e un approdo cui quella transizione doveva portare.

Basta il semplice restauro della memoria di quella fase fondativa a dirci qualcosa di importante su tante sciocchezze che tormentano la discussione dei nostri giorni. Soprattutto quanto sia stato fondamentale il contributo del movimento operaio marxista alla nascita della democrazia moderna, nei suoi caratteri essenziali e distintivi: sovranità popolare, nesso tra libertà politica e condizioni materiali che la rendano esercitabile. Quanto sia stato importante il nesso tra organizzazione, pensiero strutturato, partecipazione di massa per fare di una plebe, o di una moltitudine di individui, un protagonista collettivo della storia reale. Infine, quanto sia parimenti assurdo supplire oggi a un vuoto di analisi e di teoria riverniciando dietro nuovi nomi idee già logore e battute un secolo fa, come l’anarchismo; o usare parole antiche, come socialdemocrazia, per indicare idee o scelte del tutto diverse da ciò che erano nate per indicare.
2. Nel giro di pochi anni, però, quel movimento che sembrava avviato a essere una «potenza» precipitò in una crisi verticale, si ruppe in molti frammenti. Perché? Perché si scontrò con un evento tanto sconvolgente quanto difficile da leggere e da governare: la Prima guerra mondiale.
Sembra ben strano, se non fosse rivelatore, che, ancor oggi, l’acceso dibattito sul Novecento, e in particolare sui suoi aspetti tragici, abbia trascurato o marginalizzato quel passaggio storico fondamentale e «costituente» per l’intero secolo. A dire il vero, l’incapacità di elaborare una convincente spiegazione di quella guerra, delle sue cause, della sua portata e delle sue conseguenze non è sorprendente in sé. L’intera generazione che la visse e vi partecipò con convinzione, presto ne misurò concretamente la tragedia: milioni e milioni di morti e di invalidi, economie demolite, stati e imperi che si dissolvevano, particolarmente nei paesi perdenti ma ovunque in Europa, colpirono l’intera società, quasi tutti gli strati sociali, certezze e culture che sembravano consolidate. La sorpresa era stata grande per tutti, perché ragioni e responsabilità di un tale disastro sembravano, in quel momento, inspiegabili, non c’era una crisi economica o sociale che spingesse a un conflitto militare di quelle dimensioni e a quei costi, la spartizione coloniale del mondo si era quasi conclusa con mediazioni accettate, la competizione tra le potenze per l’egemonia, pur evidente, si svolgeva sul terreno finanziario e tecnologico. Le stesse classi dominanti, pur da tempo impegnate in un riarmo a scopo dimostrativo, non prevedevano e non auspicavano una guerra mondiale, le alleanze tra loro apparivano casuali e contraddittorie al loro interno, fino all’ultimo riluttavano al passo decisivo. Ma poi, la scintilla di Sarajevo e una concatenazione quasi casuale di provocazioni fatte alla leggera avevano portato al precipitare di una guerra mondiale, alla quale i nuovi armamenti davano il carattere mai conosciuto di «guerra totale». E masse enormi vi parteciparono con la piena convinzione di «difendere la propria patria e la propria civiltà», sopportando il ruolo di «massa da macello». Questa duplice e contraddittoria coscienza («la guerra come incidente» o la «guerra di difesa dall’aggressore») segnò a lungo la memoria collettiva, cui concorse anche la grande intellettualità. Più tardi intervenne, critica ma altrettanto limitativa, la teoria – Croce ne è un esempio – della «parentesi di irrazionalità»; infine, prevalse stabilmente la lettura della Prima guerra mondiale come lotta tra le «democrazie» occidentali (che però erano al momento anche le maggiori potenze coloniali) e gli imperi autocratici (peccato che il Kaiser e lo Zar combattessero in campi diversi e gli americani fossero intervenuti solo all’ultimo momento). È quest’ultima la lettura oggi codificata: la Prima guerra mondiale come anticipazione di uno scontro che poi si ripropose nella Seconda guerra mondiale e nella guerra fredda (non a caso un presidente della Repubblica italiana, brava persona, è di recente arrivato a chiamare «quarta guerra di indipendenza» quel primo conflitto che un papa aveva definito giustamente «inutile strage»). Sarebbe interessante approfondire questo discorso, dedicandolo ai tanti che assolvono il capitalismo e il liberalismo dalla responsabilità della faccia oscura del Novecento, compresi i legami che lo uniscono all’attuale teoria della guerra preventiva. Ma ci porterebbe lontano da ciò che ci interessa: le conseguenze della Prima guerra mondiale sul movimento operaio marxista, sulle sue divisioni e metamorfosi, sulla nascita del comunismo. Onestamente non si può dire che il movimento operaio sia stato sorpreso. Al contrario, già a cavallo tra i due “secoli, non solo si sviluppò una discussione in cui il tema della guerra via via acquistava maggior rilievo, ma si andava direttamente al cuore del problema, se ne indagavano le cause, la si collegava a una lettura generale della fase storica, con una serietà di analisi e un impegno teorico di cui rimpiangere il livello.

Chi ritualmente ripete che il marxismo è sempre stato prigioniero di uno schema e per sua natura sempre incapace di cogliere le continue trasformazioni del sistema che avversava, può qui trovare una delle possibili smentite: parlo del grande dibattito sull’imperialismo, nel quale il problema della guerra era parte e conclusione proprio di diverse analisi della grande trasformazione del capitalismo intervenuta negli ultimi decenni. Questa trasformazione già obbligava a rivedere molte delle previsioni contenute nel Manifesto di Marx, e delle strategie a esso legate, investiva e collegava fenomeni diversi e contraddittori. Tanto per citare i più importanti: il salto tecnologico, allora rappresentato dall’introduzione sistematica delle nuove scienze nella produzione (chimica, elettricità, comunicazioni a distanza, meccanizzazione agraria); la nuova composizione sociale, per la concentrazione del lavoro operaio in grandi impianti industriali e le differenziazioni nelle sue capacità professionali, cui si affiancava il declino del ceto artigianale e commerciale, ma anche la crescita di un nuovo e non meno numeroso ceto medio legato a funzioni impiegatizie e ancor più a funzioni pubbliche; lo spazio maggiore per concessioni salariali, in parte offerto dai proventi di uno sfruttamento coloniale meno primitivo; la finanziarizzazione dell’economia con le società azionarie e i grandi trust sostenuti dalle banche. E poi l’istruzione generale, che riduceva l’analfabetismo ancora dominante ma creava barriere di classe non meno rigide; la rapida accelerazione degli scambi commerciali mondiali e l’esportazione “di capitali anche oltre i confini degli imperi, che riapriva una competizione per l’egemonia, spingeva al riarmo e accresceva il peso politico delle caste militari per sostenerla; infine, l’allargamento del suffragio che imponeva e permetteva di cercare, e spesso di ottenere, il consenso con nuovi strumenti ideologici come il nazionalismo e il razzismo.
Molto di tutto ciò fu avvertito dai gruppi “dirigenti del movimento operaio con una serietà e un impegno scientifico invidiabili, ma li spingeva a interpretazioni diverse e a conclusioni, all’inizio non cristallizzate ma via via divaricanti (Lenin, Luxemburg, Hilferding, Kautsky, Bernstein e dietro di loro, partecipi, intellettuali e operai, partiti e loro frazioni, sindacati). Da una parte il nuovo capitalismo fu visto come conferma della possibilità di una via graduale, tutto sommato indolore, al socialismo, quasi un esito naturale dello sviluppo, da cui si deduceva la priorità affidata al parlamentarismo e al tradeunionismo: autoritarismo e guerra potevano intervenire nel percorso, ma erano evitabili e non l’avrebbero comunque interrotto. Da un’altra parte l’imperialismo fu visto come fase suprema e putrescente del capitalismo, l’avvio di una degenerazione: concentrazione del potere effettivo dietro la maschera di un parlamentarismo screditato e corrotto, sviluppo sempre più ineguale del mondo, antagonismo tra grandi potenze, proteso a cercare all’esterno risposte alle ricorrenti crisi di sottoconsumo, a raccogliere intorno a sé ceti medi oscillanti con il furore patriottico, e a isolare la classe operaia e i contadini. La guerra in questo caso era nel conto, ne andava denunciato il carattere imperialistico e poteva offrire un’occasione rivoluzionaria o sprofondarsi in una inutile strage. Entrambe le parti “però non ritenevano la guerra imminente e, per ragioni opposte, non pensavano che avrebbe cambiato profondamente il corso delle cose. Perciò fu possibile per tutto il movimento socialista assumere un solenne impegno contro la guerra, ma non sviluppare una campagna di mobilitazione di massa che forse, data l’incertezza dei governi, avrebbe potuto almeno rinviarla o permettere di non esservi coinvolti.
Ma quando la guerra, quel tipo di guerra, scoppiò, travolse il mondo e travolse la Seconda internazionale. La maggioranza dei più importanti partiti che la componevano (con la timida eccezione di quello italiano) tradì l’impegno a opporvisi e a denunciarla. Lenin rimase solo. La parola tradimento non mi piace, e la sua ripetizione ossessiva rappresentò un ostacolo grave, successivamente, a ogni tentativo di dialogo o di convergenza, possibile e necessaria; in quel momento però era fondata. Non mi riferisco solo al voto dei parlamentari socialdemocratici sui crediti di guerra e al sostegno dei governi belligeranti, né solo alla passività e anzi allo stimolo con i quali i gruppi dirigenti contribuirono al furore patriottico dei loro militanti e dei loro elettori, all’equivoco della difesa della patria che ormai diventava volontà di vittoria. Mi riferisco al fatto che anche quando – di fronte ai morti, alla fame, all’uso cinico della «carne da macello» da parte delle caste militari – i popoli, non solo nei paesi perdenti, cominciarono ad aprire gli occhi e si produssero delusione, rabbia, diserzione, scioperi (anzi, anche dopo la conclusione della guerra), quei gruppi dirigenti mantennero ferma un’intesa con gli apparati burocratici e con la casta militare, per garantire la loro continuità e chiamarli a «garantire l’ordine». Rifiutarono “sia un’improbabile rivoluzione sia un serio tentativo di democratizzazione politica e di riforme sociali, ruppero cioè con le proprie stesse radici. E ne pagarono il prezzo: come forza politica e come pensiero quella che ancora si chiamava socialdemocrazia rimase per decenni marginale, dispersa, impotente, e ritrovò un ruolo importante solo dopo la Seconda guerra mondiale, modificando in sostanza la propria identità socialista in liberaldemocratica, ala sinistra, nel bene e nel male, nel campo occidentale.

Dall’altro lato chi sulla guerra aveva avuto ragione, e dalle insorgenze popolari sperava di intravedere l’esito di una rivoluzione socialista, dovette constatare la propria minorità, cercare scorciatoie e subire sconfitte e repressioni nell’Occidente europeo, si raggruppò intorno al pensiero leninista (convinto richiamo e insieme revisione profonda del marxismo originario) e intorno alla sola eredità effettiva che la guerra aveva lasciato: la rivoluzione, in un grande paese arretrato e destinato a un lungo isolamento, la Russia. Qui dunque nacquero la forza e il richiamo, e altrettanto le difficoltà e i limiti, di un nuovo soggetto politico che decise di chiamarsi comunista, che ambiva a un ruolo mondiale, ed effettivamente lo esercitò per molti decenni.
Arriviamo così al tema più controverso ma ineludibile di una vera nuova riflessione sulla questione comunista. Quello che segna il limite estremo tra revisione, critica e abiura e, paradossalmente, è rimasto marginale e implicito nel dibattito storico e politico degli ultimi anni: la lettura e il giudizio sulla Rivoluzione bolscevica e il suo consolidamento in un grande Stato e in una organizzazione internazionale.
È stata una scelta sciagurata che portava già dall’origine in sé i cromosomi delle peggiori degenerazioni, e alla fine si è autodissolta dopo aver fatto danni pesanti? Allora non occorre spaccare il capello, ricostruire un processo storico nel suo contesto: basta individuare quei cromosomi, far parlare il fatto della sconfitta finale, lasciarlo al solo lavoro accademico, politicamente archiviarlo. La «spinta propulsiva» dell’Ottobre non si è mai esaurita, semplicemente non c’è mai stata. Oppure la Rivoluzione russa è stata un grande evento propulsivo per la democrazia e l’incivilimento, successivamente tradito dal potere personale e dalla burocratizzazione, senza rapporto con il contesto storico dal quale era “originato e in cui si collocava? Allora basta una robusta denuncia dello stalinismo, una franca critica di chi non lo ha condannato in tempo, la fierezza dell’antifascismo, per sentirsi liberi di cominciare da capo, in «un mondo nuovo».
La mia indagine sul comunismo italiano nella seconda parte del secolo vorrebbe appunto contribuire a una valutazione più seria e circostanziata di quel che la Rivoluzione russa ha avviato. Ma non potrebbe neppure cominciare, e risulterebbe falsata, senza un breve accenno alle vicende di quella fase: gli anni tra le due guerre. Perché proprio su quelli si sono accumulate nella memoria censure ed equivoci di cui occorre sbarazzarsi. E perché in quella vicenda il comunismo italiano ha poi trovato sia le risorse, sia i limiti, per la costruzione di un grande partito di massa e la ricerca di una propria «via al socialismo».

3. La Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né avrebbe retto, senza Lenin, il Partito bolscevico, il suo insediamento nella pur minoritaria ma concentrata classe operaia, il livello e la saldezza del suo gruppo dirigente, non diviso ma allargato dalla confluenza del gruppo trockista e dal rientro di tanti esuli già formati in vari angoli dell’Europa. Ma ancor “meno ci sarebbe stata senza la guerra mondiale. Furono la disgregazione dello Stato autocratico, la fame nelle città, i milioni di contadini semianalfabeti strappati ai loro villaggi per combattere, la loro insorgenza in un’armata in disfatta e la delegittimazione dei suoi vertici a renderla una scelta possibile. I soviet non furono l’invenzione di un partito, quanto una spinta organizzativa indotta dalla necessità e dalla rabbia, avevano alle spalle il 1905, e in essi si svolse un’effettiva lotta per l’egemonia nella quale si affermò un’autorità riconosciuta e prese forma un programma. Lenin, che pure aveva già elaborato la teoria dello sviluppo ineguale, e dunque della rottura a partire dagli anelli più deboli della catena, aveva resistito a lungo all’idea che essa potesse assumere un carattere socialista, tanto meno consolidarsi, in un paese economicamente e culturalmente arretrato (per questo aveva confutato l’idea trockista della rivoluzione permanente). Ancora all’inizio della guerra, era convinto che la Russia doveva e poteva essere il punto di innesto di una partita il cui esito si sarebbe giocato in Occidente, là dove il socialismo poteva contare su basi «più solide». La scelta di conquistare subito e direttamente il potere statale fu presa da lui, e contro molte esitazioni dei suoi compagni, quando non solo il potere esistente era in una crisi irrecuperabile. La maggioranza del popolo voleva fermamente la Repubblica, la terra, la pace immediata, che i partiti liberaldemocratici non volevano né potevano concedere. Il potere ai soviet e la conquista del Palazzo d’inverno avvennero su quel «programma minimo», cui si aggiungeva la nazionalizzazione delle banche, luogo e strumento del capitale estero. La rivoluzione non aveva alternative, se non la restaurazione del potere autocratico o la precipitazione nell’anarchia e nella dissoluzione dell’unità di uno Stato “multinazionale. E infatti avvenne in forma relativamente incruenta (i feriti, nella presa del Palazzo furono meno numerosi di quelli che costò la ricostruzione successiva dell’evento per un film). E aveva, nel merito, un consenso nella popolazione larghissimo, per quanto poteva esserlo in un paese immenso, disperso, analfabeta, e mai unificato se non dal mito dello Zar e da una religione superstiziosa. Nulla a che fare con un atto giacobino, da parte di una minoranza che approfittando di un’occasione conquistava il potere. A quel programma ci si attenne, anche contrastando spinte più radicali, come nel caso della pace di Brest-Litovsk.
A dar però poi forma al nuovo potere (deperimento dei soviet, sistema monopartitico, limitazione delle libertà, esecuzione della famiglia imperiale, polizia segreta) fu la vocazione, come oggi si dice, autoritaria del leninismo, o la coerente ed estrema applicazione di alcuni concetti apertamente formulati da Marx («violenza come levatrice della storia», «dittatura del proletariato»)? A me non pare vero, o quanto meno mi pare una parte secondaria del vero. Basta rileggere e comparare due saggi di Lenin scritti a breve distanza tra loro per rendersene conto: Stato e rivoluzione, al cui centro c’è l’idea di una democrazia (che rimane pur sempre una dittatura come lo è ogni Stato) ma assume un carattere più avanzato perché fondato su istituzioni partecipative dirette, rappresenta la maggioranza del popolo e garantisce il contenuto di classe del nuovo Stato; e La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky in cui la dittatura proletaria appare invece «senza limiti» e l’istanza democratica viene assorbita nel partito che la rappresenta e l’organizza.

Il ruolo decisivo lo ebbero invece due fatti enormi. Anzitutto la lunga e tremenda guerra civile con una straordinaria partecipazione di massa che confermò la legittimità della rivoluzione ma devastò il paese in ogni angolo, quanto e ancor più della guerra mondiale. Quella guerra civile non fu provocata né combattuta contro forze liberali o borghesi ma, nel modo più spietato, da armate zariste in nome della restaurazione, prevalentemente con il reclutamento delle popolazioni che avevano sempre gestito le repressioni imperiali, e con il sostegno dei governi inglese e francese. E fu vinta dai bolscevichi al prezzo di una ferrea militarizzazione, e lasciò dietro di sé caos nella produzione in ogni settore, campagne costrette all’autoconsumo, ancor più fame nelle città, proletariato industriale decimato e disperso, emigrazione degli strati tecnicamente qualificati (salvo una parte che dalla rivoluzione era stata conquistata e l’Armata rossa integrò senza remore). Anche una semplice organizzazione della sopravvivenza spingeva ormai verso un esercizio centralizzato e duro del potere.
Seconda novità: l’esaurirsi del sommovimento di massa che in Occidente, soprattutto in Germania, per un breve momento sembrò annunciare una possibile rivoluzione, ma presto si dimostrò minoritario rispetto all’intera società. Non aveva obiettivi chiari, né una guida politica sicura, né quadri, si ripresentò a lungo, ma in rivolte disperse e occasionali, facilmente represse da apparati militari ancora in piedi e da corpi di volontari nazionalisti. Esecuzioni sommarie e assassini selettivi (da Rosa Luxemburg fino a Rathenau) vennero usati non solo per sbarrare la strada a una rivoluzione che non c’era, ma anche alla democratizzazione politica e a limitate riforme sociali. Già in quel momento pesò non poco l’insensata imposizione del trattato di Versailles e l’arroganza dei vincitori nel gestirlo.

Cambiava così tutto il quadro: la Rivoluzione russa, al di là dell’emergenza della ricostruzione, doveva affrontare insieme i problemi dell’accumulazione primitiva, dell’organizzazione di uno Stato quasi mai esistito, e ormai distrutto, della prima alfabetizzazione per un 80% della popolazione, in un totale e minaccioso isolamento. Lenin comprese, almeno in parte, la realtà. Liquidò seccamente entusiasmi e furori del comunismo di guerra, impose la Nep, che ebbe presto successo, avviò una politica estera prudente che poi portò al trattato di Rapallo. Giunse a proporre una collaborazione economica che garantisse a imprese capitalistiche estere la proprietà dei loro investimenti in Russia (subito rifiutata). Infine, quasi dal letto di morte, espresse la propria ostilità alla concentrazione del potere nelle mani di un capo.
Ma la gravità del problema restava in campo, il consolidamento di uno Stato e di una società socialista, con le proprie sole forze, per un periodo probabilmente lungo, in un paese arretrato. Voglio con ciò giustificare ogni aspetto della Rivoluzione russa come obbligata conseguenza di fattori oggettivi e soverchianti; negare analisi e teorie sbagliate, errori politici macroscopici ed evitabili, che la segnarono dall’origine e in modo permanente? Tutto il contrario. Cerco di spiegare, o forse solo di spiegarmi, con i fatti, la dinamica del processo, collocarla in un contesto, e di commisurare alle difficoltà i successi che dall’inizio e a lungo quell’azzardo invece ottenne (così come si è fatto, e anch’io feci, ricostruendo il decollo della modernità borghese, le sue conquiste e i suoi errori). In questo caso: uno sviluppo economico rapido e rimasto ininterrotto per molti decenni (anche nel periodo della grande crisi “mondiale degli anni trenta), un primo acculturamento di masse sterminate, la mobilità che promuoveva dal basso in alto, la redistribuzione del reddito pur nella dura povertà, la garanzia di elementari tutele sociali per tutti, una politica estera generalmente prudente e non aggressiva, tutto ciò insomma su cui in quegli anni non brevi si costruiva un alto grado di consenso e di mobilitazione all’interno, e, malgrado tutto, anche simpatia e prestigio all’esterno. E non voglio tacere alcuni errori fin dall’inizio evitabili che pesarono a lungo, che non furono recuperati anche quando potevano più facilmente esserlo e che oggi è utile, oltre che doveroso, riconoscere. Il primo errore, al quale lo stesso Lenin aprì la strada, fu quello dell’ossessione della «linea giusta», della centralizzazione delle decisioni nel vertice della Terza internazionale, fino al dettaglio della tattica, applicata a situazioni molto diverse. Esso portò dall’inizio l’Internazionale comunista a decisioni oltre che gravemente sbagliate, oscillanti, come per esempio la gestione estremistica della politica in Germania (di cui furono direttamente responsabili Zinov’ev e Radek); o in quella cinese, avviata d’intesa con il Kuomintang, fino al momento in cui passò allo sterminio dei comunisti. Col tempo portò alla consuetudine, accettata dai vari partiti nazionali, di applicare alla lettera, e senza mediazioni, le direttive del partito guida, come avvenne nel caso del patto Molotov-Ribbentrop. Ne risultava compromesso uno dei migliori insegnamenti strategici della Rivoluzione russa, ossia la capacità di analisi determinata di una realtà determinata.
Il secondo errore fondamentale riguarda la scelta, compiuta alla conclusione della Nep e per sostenere una pur necessaria rapida industrializzazione, della collettivizzazione forzata delle campagne. Anziché portare a una crescita produttiva agricola, da cui trarre, con mezzi accettabili e reciprocamente convenienti, risorse per l’industrializzazione, quella scelta, oltre “i tragici costi umani, trasformò per sempre l’agricoltura in una palla al piede dell’economia sovietica. Cosa necessaria potevano essere la pianificazione centralizzata o il contenimento dei kulaki, cosa diversa erano la pianificazione e la collettivizzazione frettolose anche della piccola proprietà o le deportazioni di massa.
Un terzo errore corretto in fatale ritardo, ma al quale lo stesso Lenin aveva aperto un varco, fu quello di additare come nemico principale, all’interno del movimento operaio, il cosiddetto «centrismo» (Kautsky e Bernstein in rotta con la loro destra, il socialismo austriaco, il massimalismo socialista in Italia). La socialdemocrazia aveva sicuramente contribuito a quell’errore: con impegni traditi, concessioni poi rinnegate, con alleanze senza princìpi; ma rifiutare di intervenire sulla vasta area di forze ancora incerte, a volte disponibili come interlocutori, imporre loro rapidamente «o di qua o di là», proporre esclusivamente un fronte unico dal basso che le escludeva, portò a un settarismo, a un’autosufficienza che neppure l’emergere del fascismo permise di superare prima che fosse tardi. Di tutti questi errori, Stalin non fu più responsabile dei suoi oppositori.

Se non si considerano entrambe le facce della Rivoluzione russa, e del primo decennio del suo consolidamento, è impossibile decifrare l’ancor più contraddittoria fase del decennio successivo, il momento della prova più dura, l’impresa più rilevante: la resistenza al fascismo e la Seconda guerra mondiale. La tesi centrale dell’attuale revisionismo storico, che è penetrata nella memoria diffusa e la altera totalmente, è quella che vede nel fascismo la risposta forsennata e delirante all’incombente minaccia del bolscevismo. Una tesi che non ha alcun fondamento. Il fascismo in Italia nacque sul tema della vittoria tradita e iniziò la sua campagna di violenza «contro i rossi» quando l’occupazione delle fabbriche, peraltro niente affatto orientata verso la «rivoluzione», si era già conclusa, rivolte contadine non ce n’erano o erano stati episodi isolati, il Partito socialista era nella confusione e si avviava a ripetute scissioni, il sindacato era guidato dallala più moderata. Trovò poi finanziamenti nel padronato e la complicità delle guardie regie, mentre la Chiesa aveva da poco concluso un patto con i liberali e guardava con diffidenza il nuovo partito di Sturzo. Mussolini si presentava dunque come definitiva garanzia dell’ordine. Arrivò infine al governo, senza alcuna situazione di emergenza, per investitura del re, e con l’appoggio diretto, in Parlamento, delle forze conservatrici tradizionali (in un certo momento perfino i Giolitti e i Croce) che pensavano di usarlo e domarlo semplicemente per restaurare il precedente e oligarchico assetto del potere.
In Germania il nazismo, marginale e sconfitto per tutto il periodo durante il quale le turbolenze della sinistra erano state represse da governi socialdemocratici, da un esercito ricostruito e tornato politicamente attivo e da una maggioranza parlamentare decisamente conservatrice, crebbe all’improvviso sull’onda del rinato nazionalismo e della crisi economica aggravata dalle perduranti riparazioni di guerra. La violenza selettiva delle SA e l’antisemitismo ricevevano espliciti appoggi dall’alto. Raggiunse l’apice dei voti nel 1932, ma era di nuovo in calo quando Hitler fu fatto cancelliere da Hindenburg, con la complicità di von Papen e di Brüning, e con il decisivo sostegno degli stati maggiori prussiani. In Ungheria Horty andò al potere quando già la «Repubblica dei soviet» di Béla Kun era stata repressa. Franco più tardi avviò in Spagna la guerra civile contro un governo democratico moderato, legittimato dal voto, e tra le masse, più dei «bolscevichi», pesavano gli anarchici.

Indubbiamente in tutti questi casi i comunisti avevano una qualche corresponsabilità, per non aver visto la gravità e la natura del pericolo e per non aver costruito, anzi per aver ostacolato, con la teoria del socialfascismo, l’unità delle forze che dovevano e potevano arginarlo. Ma le responsabilità delle classi dirigenti nella nascita del fascismo furono ben maggiori: per aver seminato culture, esacerbato ferite che ne avevano costituito le premesse, per averlo agevolato e legittimato mosse non dall’intento di fronteggiare un’altra e maggiore minaccia, ma da quello di sradicare ogni possibile contestazione futura dell’ordine sociale e imperiale esistente. Comunque sia, a metà degli anni trenta, quando a tutto ciò si aggiunse la grande crisi economica, il fascismo prevaleva in gran parte d’Europa e già manifestava chiaramente non solo la propria essenza autoritaria, ma la propria vocazione aggressiva. Qui si colloca il momento più tragico della storia del Novecento e qui ebbero origine sia la straordinaria e positiva ascesa dell’Unione Sovietica, sia i germi di una sua possibile involuzione.
I “partiti comunisti erano in grave difficoltà ovunque ma particolarmente in Occidente, indeboliti organizzativamente ed elettoralmente, messi fuori legge, in esilio, in carcere o sterminati. L’Unione Sovietica, malgrado il successo dei primi piani quinquennali, si sentiva esposta a un’aggressione militare che da sola non poteva reggere. Fece dunque, in meno di due anni, una svolta politica e ideologica radicale, ben sintetizzata più tardi dallo slogan: «risollevare dal fango la bandiera delle libertà borghesi». Stalin non solo accettò, ma promosse quella svolta, il VII congresso dell’Internazionale la sancì, Togliatti, Dimitrov, Thorez la tradussero nell’esperienza dei Fronti popolari. Sulle vicende dei governi di Fronte popolare, molto brevi e mal elaborate sul piano strategico, ci sarebbero molte cose da approfondire. Sottolineo solo alcuni punti essenziali.
Nei loro obiettivi immediati (impedire una nuova guerra mondiale, avviare una “politica di riforme) furono sconfitti. Rappresentarono comunque in concreto il primo segnale di una grande mobilitazione democratica di popolo e di intellettuali contro il fascismo e a sostegno di nuove politiche economiche. In connessione, non pienamente consapevole, con il New Deal americano gettarono le prime pietre di un edificio che poi nella guerra fu costruito e portò alla vittoria: qualcosa più di un’alleanza militare.

Se furono battuti ed entrarono in crisi non lo si può imputare all’estremismo dei partiti comunisti. Malgrado essi mettessero al primo posto la difesa dell’Unione Sovietica, anzi proprio per questo, i comunisti vi parteciparono con piena convinzione (in Spagna con eroismo) ma anche con una prudenza perfino eccessiva. In Francia conquiste sociali importanti, e permanenti, furono il prodotto di un grande movimento rivendicativo dal basso, sul quale il Pcf intervenne «perché non si esagerasse». Il governo Blum, che i comunisti sostenevano dall’esterno ma lealmente, cadde rapidamente per le proprie incertezze in politica economica e finanziaria, la fuga dei capitali, lo sciopero degli investimenti. La vittoria di Franco in Spagna fu favorita dall’intervento esplicito e diretto del fascismo italiano e tedesco, e con la benevola neutralità degli inglesi, che si impose a Blum e fu “poi imitata da Daladier. I comunisti cercarono con durezza di arginare la spinta anarchica alla radicalizzazione, e l’Unione Sovietica fu sola nel portare alla legittima Repubblica un sostegno per quanto poteva. La critica che si può loro applicare sta nel fatto che quella politica restò per loro una scelta legata anzitutto a un’emergenza, non incise profondamente nella strategia di lungo periodo.

Il partito italiano, pur ridotto dalla repressione, costituì la maggioranza delle brigate internazionali in Spagna (insieme al piccolo Partito d’Azione), fu lì decimato ma formò una nuova leva di quadri che poi fu essenziale alla Resistenza in Italia, e lì cominciò a maturare, soprattutto in Togliatti, un primo abbozzo strategico di quell’idea della «democrazia progressiva», che riallacciava il tenue filo interrotto del congresso di Lione (guidato da Gramsci) ed era coerente con le sue originali Lezioni sul fascismo dei primi anni trenta. Al di là dei Fronti popolari, tanto più dopo la loro sconfitta, il vero elemento dirimente del decennio fu però la questione della guerra: come evitarla, come combatterla. Ed è su questo che oggi si sono riproposte tante reticenze, tante alterazioni dei fatti e del loro concatenamento. La follia aggressiva di Hitler poteva essere fermata in tempo. Un’amplissima documentazione storica testimonia che, malgrado il potere assoluto conquistato, la prospettiva della guerra, a tempi brevi, e apertamente esibita, trovava in Germania resistenze anche in poteri forti che potevano frenarla o rovesciarla. Innanzitutto il vertice delle forze armate, convinto che la guerra, almeno allora, la si perdeva, e lo faceva sapere. Militarizzazione della Renania, annessione dell’Austria, invasione dei Sudeti e occupazione di fatto dell’intera Cecoslovacchia: in ognuna di queste tappe di avvicinamento, una coalizione simile a quella che poi lo batté in guerra, anche solo mostrando determinazione, avrebbe interrotto il sogno hitleriano di dominio mondiale. Una tale coalizione difensiva fu ripetutamente proposta dall’Unione Sovietica e ripetutamente elusa o rifiutata dai governi occidentali. Perfino la Polonia, nuova vittima designata, negò un patto di difesa comune al governo di Mosca. Questi successivi cedimenti alimentarono il progetto nazista, Monaco ne è l’esempio (non a caso Mussolini fu rite“nuto un mediatore credibile, benché non neutrale). L’opinione pubblica tirava il fiato, perché non voleva rischiare una guerra. Ma già dopo poche settimane Hitler cancellò, indenne, il compromesso appena raggiunto. Viltà, incoscienza di chi doveva fermarlo? Non ci credo, e quasi nessuno successivamente ci ha creduto. Il fatto era che Chamberlain, e di rincalzo Daladier (Roosevelt era lontano, perché condizionato dall’opinione pubblica isolazionista, e da Wall Street che sempre più gli si opponeva), avevano un progetto, inconfessabile ma non privo di logica, quello di usare la Germania e indebolirla, deviando verso Est le sue pulsioni imperiali: due piccioni con una fava. A questo punto l’Urss siglò il patto di non aggressione con Ribbentrop, per evitare di diventare la vittima isolata, per guadagnare tempo, rovesciare il gioco. E le cose dimostrarono che aveva ragione; la Russia fu invasa poco dopo, ma come parte di una grande alleanza, militarmente adeguata. L’errore, semmai, fu quello di trascinare per un anno i partiti comunisti nella teorizzazione, ormai assurda, della guerra interimperialista, che oscurò il loro impegno antifascista e compromise in parte la stima conquistata sul campo. Errore a cui, più facilmente, il Pci poté sottrarsi. A confermare questa ricostruzione sta il fatto che anche dopo la dichiarazione di guerra e l’invasione della Polonia, inglesi e francesi non si mossero fino a quando il blitz tedesco attraverso il Belgio sfondò il fronte occidentale, la Francia crollò e il suo Parlamento (compresi ottanta deputati socialisti) concesse la fiducia al governo fantoccio Pétain. Olanda, Danimarca e Norvegia furono invase, la Svezia restò neutrale senza vietarsi neppure proficui commerci, Romania e Ungheria erano già al fianco della Germania, l’Italia, ingenua e furba come sempre, entrò in guerra per parteci“pare alla vittoria. L’Europa era in mano fascista, solo gli inglesi restavano intransigenti combattenti, protetti dal mare e sostenuti dagli aiuti americani, ma con prospettive incerte, e anche per merito di un conservatore intelligente e di carattere, Churchill. Le sorti del conflitto si rovesciarono nel momento in cui Hitler decise di invadere l’Urss. Col senno di poi è facile dire che, fra le tante, fu la maggiore tra le sue follie, ma spesso nella follia c’è una logica. Evidentemente Hitler era convinto che l’Unione Sovietica, al primo urto perdente, in breve crollasse, sul fronte interno più ancora che per debolezza militare, come era crollata la Francia, e come era crollata trent’anni prima la Russia dello Zar. Come poteva resistere una razza inferiore, male armata, dominata da un autocrate asiatico? Il suo crollo avrebbe assicurato alla Germania il controllo di un immenso paese, una riserva inesauribile di forza-lavoro e di materie prime. A quel punto l’Inghilterra non avrebbe potuto resistere, gli Stati Uniti avrebbero avuto nuove ragioni per tenersi alla larga. E infatti molti anche tra i suoi avversari temevano che andasse così come Hitler era sicuro che andasse. Il primo urto vincente ci fu, forse anche perché Stalin non se lo aspettava così presto; i tedeschi arrivarono alla periferia di Mosca e ai confini delle regioni petrolifere. Ma a quel punto, anche per la geniale intuizione della «guerra patriottica», l’Unione Sovietica si mostrò capace di una miracolosa mobilitazione popolare e di una sorprendente capacità industriale, gli alleati ne capirono l’importanza vitale e mandarono armi e risorse, Leningrado tenne duro accerchiata e affamata con mezzo milione di morti, i tedeschi furono fermati sulla strada di Volokolamsk, furono circondati e annientati a Stalingrado: cominciò la lunga marcia verso Berlino. Nel frattempo, Roosevelt incoraggiò e utilizzò l’attacco a Pearl Harbor dei giapponesi per portare finalmente gli Stati Uniti in guerra, una lotta partigiana efficace emerse in Grecia e in Jugoslavia. Dopo Stalingrado per Hitler la guerra era persa. E nella vittoria l’Unione Sovietica aveva avuto un ruolo decisivo, pagando con ventuno milioni di morti. Il comunismo stato un mito? Ammettiamo pure che in parte lo sia stato, ma a quel punto il mito trovava buone ragioni per crescere. Inscrivere la Seconda guerra mondiale come scontro tra i due «totalitarismi» è una pura stupidaggine: il fiume di sangue non l’avevano prodotto i comunisti, l’avevano versato.

d) Ma gli anni trenta, per i comunisti, ebbero anche un’altra faccia, di cui non si può tacere, e che nel lungo periodo si è dimostrata decisiva. Mi riferisco, ovviamente, all’esercizio del terrore interno, alla repressione massiccia e crudele di oppositori potenziali o supposti. Esso non solo rivelò senza veli la pratica autoritaria di un potere senza limiti ormai istituzionalizzato, ma rappresentò anche un vero salto di qualità nel contenuto, oltre che nel metodo, di cui Stalin portava una personale responsabilità, e innescò meccanismi difficilmente reversibili. Il salto di qualità non si misura solo sul numero dei morti e delle deportazioni, sull’arbitrio delegato a esecutori che spesso a loro volta rapidamente ne restavano vittime. Si coglie piuttosto in due nuovi aspetti che stabiliscono una differenza profonda rispetto al leninismo, sia pur estremizzato, e anche rispetto alle lotte brutali contro le opposizioni negli anni venti, perfino rispetto alla liquidazione dei kulaki, forma estrema di una lotta di classe. Primo aspetto: la repressione allora, soprattutto dal ’36 al ’38, si concentrò, oltre che sui resti di un’élite bolscevica ormai priva di influenza sulla società e sugli apparati, e sinceramente disposta alla disciplina, sul partito stesso e, nel suo insieme, su coloro cioè che avevano seguito e applicato le scelte di Stalin e gli restarono fedeli. Dato irrefutabile: dei delegati al XVII congresso del Partito bolscevico, il «congresso dei vincitori» del 1934, dopo pochi anni quattro quinti erano stati uccisi o deportati, come accadde a 120 su 139 tra i membri del nuovo Comitato centrale. Il terrore raggiunse il suo culmine quando ormai le scelte economiche e politiche erano state applicate con successo, il pericolo, seppure incombente, era del tutto esterno. Un terrore quindi privo di base razionale, di giustificazione plausibile, che non rafforzava ma indeboliva il sistema a tutti i livelli (esempio estremo: la liquidazione proprio alla vigilia di una guerra, del gruppo dirigente dell’Armata rossa, fedele e competente, tre generali d’armata su cinque, centotrenta su centosessantotto generali di divisione e così via, a cascata). Lo stesso Stalin era promotore e vittima di quell’insensatezza: nelle memorie della figlia si ricorda che a ogni ondata di epurazioni egli era spinto da un giudizio critico sulla qualità dei quadri e da un sospetto nevrotico sulla loro fedeltà, dal timore della stabilizzazione di una casta burocratica, che si autoproduceva, e di apparati repressivi che via via agivano in proprio, e alla fine constatava che l’epurazione ne aveva promossi di più pericolosi di cui liberarsi in fretta. Secondo aspetto della novità che definiva lo stalinismo in senso proprio, collegato al primo, ma che non basta a spiegarlo: le giustificazioni addotte come prove per i verdetti più crudeli, nei processi più importanti, e le confessioni estorte. Agenti provocatori, complotti terroristi, spie dei fascisti o addirittura dei giapponesi fin dall’origine. Appare assurdo e quasi futile chiedere, come tanto spesso si è fatto e si continua a fare, alle generazioni che seguirono: che cosa sapevate, quanto sapevate di tutto ciò? A ogni livello, infatti, allora e dopo, come poteva qualcuno credere effettivamente che quasi l’intero gruppo di uomini che avevano diretto la Rivoluzione di ottobre già lavorassero per farla fallire, o che la maggioranza dei quadri sui quali Stalin si era affermato e l’avevano seguito si preparassero a tradire? Così si creava una rottura non solo tra fini e mezzi, ma una deformazione culturale profonda e duratura, la riduzione della ragione entro i confini più o meno ristretti imposti da una fede. Il volontarismo e il soggettivismo, nella coscienza non solo dei vertici ma delle masse, gettavano nel lontano futuro i semi che avrebbero prodotto il loro contrario: l’apatia delle masse e il cinismo della burocrazia. E tuttavia la forza di un ideale, i sacrifici compiuti in suo nome, i successi ottenuti per sé e per tutti, e altri che si delineavano, portavano anche i consapevoli non solo a giustificare i mezzi, ma a considerarli transitori. Una catastrofe era stata fermata, uno spazio si apriva per conquiste democratiche e sociali e per la liberazione di nuovi popoli oppressi. Il mondo era effettivamente cambiato e “progredendo, avrebbe sanato quelle contraddizioni. Questa era l’eredità complessiva che il comunismo italiano raccoglieva. Le risorse che la storia gli offriva e insieme i limiti da superare per fondare un partito di massa e cercare di definire una propria strategia: non un modello da riprodurre, ma un retroterra necessario «per andare oltre». Non a caso, per tratteggiare questa eredità ho voluto riformulare l’espressione, volutamente ambigua, che Kipling rese famosa: «il fardello dell’uomo comunista».

da Lucio Magri, Il Sarto Di Ulm, Il Saggiatore

 

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