moreno-Pasquinellidi Moreno Pasquinelli –

«Cari compagni,
dobbiamo un grazie agli organizzatori per averci offerto la possibilità di intervenire in questo incontro (Eurostop, Napoli, 21 maggio 2016, ndr), che speriamo contribuirà a rafforzare l’unità tra noi.

Non ruberemo il vostro tempo per spiegarvi che l’Unione europea è un consorzio imperialista; né per ricordarvi che essa è sorta sotto i migliori auspici degli Stati Uniti e come protesi della Nato in funzione antisovietica; e nemmeno per segnalarvi che l’avanzata dell’Unione ha corrisposto ad una sconfitta storica del ciclo di lotte operaie e sociali iniziate negli anni ’60. Né c’è bisogno che vi spieghi che l’Unione europea imperniata sulla moneta unica, non è solo una comunità economica fondata su paradigmi neoliberisti e vonhayekiani, ma un vero e proprio regime politico.

Il grande crack venuto dagli Stati Uniti nel 2007-2008 ha messo a nudo le falle strutturali del regime di moneta unica e la sua insostenibilità: molti paesi dell’eurozona sono alle prese con la più grande recessione della loro storia, squilibri acuti anziché convergenza tra i paesi; sterminio di aziende e distruzione di forze produttive; crollo degli investimenti; crescita delle insolvenze bancarie e parallela paralisi dei prestiti; aumento dei debiti pubblici e privati; disoccupazione a due cifre; calo dei consumi, crescita delle diseguaglianze sociali.

Dalla sfera economica la crisi è dunque passata a quella politica e istituzionale.
Il salto verso gli Stati uniti d’Europa, recondito obbiettivo della nuova aristocrazia finanziaria neoliberista non ci sarà, andiamo invece verso una nuova tappa della crisi europea, il cui sbocco sarà la dissoluzione dell’Unione. La marea unionista si sta infatti già ritirando, la riconquistata potenza egemonica tedesca contribuisce alla riemersione delle sottostanti fondamenta nazionali.

Qual è oggi la contraddizione principale?
Essa consiste nel fatto che la globalizzazione dispiegata —forma suprema di dominio del capitale—, è diventata una gabbia per le forze produttive di numerosi paesi i quali, se non ne escono, possono solo sprofondare in un inesorabile declino economico, sociale e civile. Questo destino, che un tempo riguardava solo paesi semi-coloniali a basso sviluppo delle forze produttive, tocca oggi anche paesi che ancora formalmente, ma per poco, appartengono al consorzio imperialistico. Parlo del mio Paese, l’Italia, parlo dei cosiddetti “paesi periferici” dell’Unione europea (“vulnerabili” li chiama la Bce).

Le sperequazioni e gli squilibri che la globalizzazione neoliberista porta con sé, l’Unione europea li ha accentuati, col risultato che la Grande Germania Riunificata, vero stato-nazione sovrano, usando diverse leve, è oramai diventato lo Stato-potenza egemone. La “germanizzazione” dell’Europa non sarebbe potuta avvenire senza l’abdicazione al comando tedesco delle classi dominanti dei diversi paesi europei. Esse, sostenute dalla casta braminica dei politici e degli intellettuali hanno promosso la spoliazione dei propri paesi —vi ricorda qualcosa la figura della borghesia compradora?—, finendo col consegnare alla Germania ed alle sue agenzie eurocratiche porzioni decisive di sovranità nazionale. I parlamenti sono diventati meri simulacri e gli stati, già sovrintendenti territoriali dello spazio giuridico imperiale a guida americana, sono divenuti i locali custodi del protettorato tedesco.

Per tornare alla contraddizione principale, essa, ha due aspetti: il primo riguarda le relazioni tra il centro e le periferie dell’Unione europea, l’altro concerne le relazioni sociali e di classe all’interno di ogni singolo paese. Le destre vorranno tenerli separati in modo oppositivo facendo leva sul primo a spese del secondo. Noi dovremo invece tenerli concatenati, ma sapendo che oggigiorno è il primo aspetto della contraddizione a prevalere.

Le forze produttive dei paesi “periferici” (e quando parliamo di forze produttive noi intendiamo le potenze materiali ed intellettuali del lavoro di contro alla sanguisuga del capitale) non possono che decrescere, condannando i paesi stessi ad una decadenza inesorabile. Contro questo destino dalle viscere di questi paesi avanzano le forze della resistenza. Non vengono dai settori alti della borghesia —oramai integrati come frazioni nella cupola della aristocrazia finanziaria globalista e che percepiscono gli stati come barriere alle loro scorribande.

La piccola borghesia pauperizzata, la classe operaia dell’industria, la massa proteiforme del lavoro precario, in poche parole quegli strati sociali che stanno in basso ed hanno pagato per primi la crisi economica e le crudeli terapie austeritarie, hanno già ampiamente divorziato dalla tradizionale casta politica bipolare, cercando nuove vie per far rispettare le loro istanze. A seconda dei paesi alimentano forze anche molto diverse fra loro: in Grecia Syriza, in Italia il M5S, in Francia il Fronte nazionale, in Spagna Podemos, con la variante dell’indipendentismo catalano.

Come vedete è nella logica delle cose l’unificazione dei due aspetti della contraddizione: la rivolta contro il dominio esterno ed il regime di protettorato, procede assieme a quella contro i settori alti dei dominanti e le loro élite, poiché fungono da cinghia di trasmissione del dominio esterno. Questa rivolta, oggi solo latente, tenderà a manifestarsi in forme virulente. Quando ciò accadrà non soltanto le attuali élite dominanti saranno spazzate via, le stesse forze che adesso danno voce alla rivolta latente delle masse popolari, lasceranno il posto a compagini più radicali, quelle che avranno l’ultima parola.

Questa rivolta, qui sta il punto, non potrà che assumere toni nazional-popolari e patriottici.

Qual è la causa di questa rinascita dei sentimenti nazionali e di questa domanda di sovranità statuali?

Private di ogni strumento di autodifesa, alle masse dei diseredati non resta che affidarsi allo Stato affinché svolga le sue funzioni costituzionali di garante e tutore dei diritti dei cittadini e degli interessi della grande maggioranza del popolo. Questa istanza che noi chiamiamo “sovranista” non è reazionaria in sé, è anzi una manifestazione primordiale di opposizione al globalismo, al libero-scambismo, al predominio assolutistico dell’economico sul politico.

Se la sinistra radical-chic ha deciso di suicidarsi opponendosi frontalmente a questa istanza, noi non possiamo commettere questo clamoroso errore. Dobbiamo, al contrario, andare incontro agli strati più umili e profondi dei nostri popoli.

Come forze antagoniste dovendo ragionare sul dopo-Unione, prima ancora di discettare su “piani B” di uscita dall’eurozona —cosa assolutamente necessaria beninteso!— dobbiamo deciderci a compiere questa mossa strategica, ovvero intercettare questa tendenza generale al risorgimento delle dimensioni e dei sentimenti nazionali, tentando di indirizzarla verso uno sbocco democratico e rivoluzionario che, a certe condizioni, potrà fornirci il ponte per la futura fuoriuscita dal capitalismo.

Non è la rivoluzione socialista infatti oggi all’ordine del giorno, ed il socialismo non è uno sbocco inevitabile, necessitato, ma solo possibile. Occorre l’azione giusta di “minoranze creative”, di avanguardie consapevoli, affinché il “possibile” si faccia largo nel gioco caotico di spinte e controspinte, evitando la maledetta trappola dell’eterogenesi dei fini. Senza il lievito il pane non si fa.

Questa tendenza generale alla riconquista delle sovranità nazionali, è come un fiume destinato a diramarsi in quattro tronconi principali: quello nazional-liberista, quello nazional-fascista, quello neo-social-democratico (chi immagina che siano possibili politiche keynesiane senza spezzare la gabbia dell’Unione) ed infine quello che noi dovremmo rappresentare, il democratico-rivoluzionario o nazional-popolare.

E’ altamente probabile, come già accaduto nel secolo scorso, che nazional-liberisti e nazional-fascisti, col beneplacito dell’aristocrazia finanziaria, convergeranno e faranno blocco, ciò che ci obbligherà, se non vorremo essere fatti a pezzi sul nascere, a fare fronte comune con la neo-social-democrazia e i diversi movimenti di resistenza democratica partoriti dalla crisi.

Ma questa è tattica, e nel campo tattico è bene non legarsi le mani. Noi, ad esempio, in Italia, non solo puntiamo a costruire un forte fronte ampio delle forze democratiche e sovraniste, chiamiamo apertamente alla formazione di un nuovo Comitato di liberazione nazionale che, sulla base del rispetto della nostra Costituzione, al momento decisivo dia vita ad un governo d’emergenza per gestire la rottura dell’Unione. Di qui il nostro “piano B” di poche ma decisive misure: emissione della nuova lira da parte di una banca centrale pubblica, nazionalizzazione del sistema bancario e delle imprese strategiche, controllo sul movimento dei capitali e delle merci, un piano per la piena occupazione.

Altri paesi imboccheranno la via dell’uscita dall’Unione e dall’euro? Ce lo auguriamo, ma a nessun popolo si può chiedere di rallentare la sua marcia o addirittura di fermarsi in attesa degli altri. Sarebbe non solo un errore, ma un crimine politico. Quando passa il treno della storia occorre salirci su senza esitare. Lo sviluppo è sempre diseguale, ogni paese ha le sue specificità e segue dinamiche sue proprie, ogni popolo le sue rappresentazioni politiche ed istituzionali. Anche nel caso che non uno ma più paesi escano dalla gabbia eurista, non è affatto detto che le forze che piloteranno la rottura, siano omogenee, che abbiamo la medesima visione geopolitica, che incarnino gli stessi interessi sociali. Un paese che esca a sinistra dall’euro non potrà mai costituire una medesima comunità sovranazionale con uno che ci esca da destra, su posizioni nazional-liberiste o nazional-fasciste. Condizionare l’uscita di un paese a quella simultanea di altri ci pare una versione dei neo-social-democratici i quali, paralizzati dal tabù del ripristino delle sovranità nazionali, evocano l’astruseria di due zone euro, o addirittura dell’uscita della Germania!
Lasciamo quindi al dopodomani le discettazioni sulla “Alba mediterranea”, o “afro-mediterranea”, e le utopie su nuove eventuali monete comuni.

Adesso, se non vogliamo essere condannati all’irrilevanza, dobbiamo fare la “mossa” strategica da cui tutto il resto dipende, puntando a diventare in ogni paese campioni della battaglia sovranista per battere il nemico principale: il blocco tra l’aristocrazia finanziaria-predatoria, il regime burocratico a guida tedesca e le cupole capitaliste compradores locali. Solo nel fuoco di questa lotta, se sapremo conquistare posizioni dirigenti, solo allora, potremo far diventare centrale l’aspetto sociale e di classe della contraddizione, oggi solo secondario, facendo quindi sì che la rivoluzione popolare democratica possa costituire il punto d’appoggio di quella socialista».

 

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