giovanni_mazzettidi Giovanni Mazzetti –

“E’ dura, ma non ci sono scorciatoie, e non ci saranno mai!”
Donald Winnicott, Sulla natura umana 1954)

Chiunque abbia l’intenzione, o anche solo il desiderio, di far fronte alla crisi, per creare le condizioni di una nuova fase di sviluppo, deve ovviamente interrogarsi sulle vie da intraprendere per conseguire quel risultato, visto che nessuno può aspettarsi che venga da sé. Ed è in questo processo di sofferto confronto con la realtà che la società e gli individui che ne fanno parte dimostrano il grado di maturità raggiunto o il perdurare della loro immaturità. Nel quadro generale delle reazioni che si stanno susseguendo su questo terreno c’è innanzi tutto chi, privo di qualsiasi creatività, sostiene che la soluzione sia già nota da tempo, e si tratterebbe solo di “fare i compiti” corrispondenti per entrare in una nuova fase di prosperità. Come vedremo, costoro non hanno alcuna idea dei profondi cambiamenti intervenuti nel contesto umano, cambiamenti che hanno causato quei problemi, la cui mancata soluzione è alla base dell’attuale sofferenza sociale. Fortunatamente c’è anche chi, visti i disastri causati negli ultimi trent’anni da quell’approccio, non si ritrova in quella prospettiva e sostiene che i compiti stessi sono formulati in modo improprio, cosicché la via per la prosperità non sarebbe quella che è stata sin qui battuta.
Sennonché non basta opporsi al pensiero egemone per imboccare la via del cambiamento necessario. Dietro ad ogni opposizione c’è infatti una trappola insidiosa, nella quale chi dissente può finire catturato: quella di fantasticare sull’esistenza di percorsi alternativi a loro volta già dati, che non verrebbero battuti solo per l’arbitrario sbarramento altrui. Questa semplificazione della situazione, che rappresenta solo il risultato speculare del modo di procedere di coloro ai quali ci si oppone, spinge a credere che il godimento di una libertà a portata di mano venga precluso proprio dal fatto che al suo dispiegarsi si frappone un’artificiosa barriera. Ma Marx ci aveva già messo in guardia contro simili semplificazioni dei processi sociali sottolineando che quasi sempre la barriera [che ostacola il nostro cammino] non è affatto “artificiosa”, e tanto meno arbitraria, perché riflette solo i rapporti che hanno dato forma alla vita fino a quel momento, e “la sua soppressione presuppone semmai la creazione di una nuova potenza”. Pertanto, la lotta per il superamento di quell’ostacolo o passa attraverso “uno sviluppo molto positivo della forza produttiva, [la manifestazione di] un’energia reale e la soddisfazione di bisogni imperiosi, con un’estensione del potere degli individui” in uno spazio sociale ancora inesplorato, o costituisce una pura e semplice autogratificazione illusoria.
Come evitare di finire catturati in questa trappola?
Perché la crisi rappresenta una sfida culturale
Com’è noto, le relazioni umane non sono “naturali”, bensì risultato dell’evoluzione culturale, e cioè costituiscono ogni volta un prodotto storico. Per questo hanno subito e subiscono continui mutamenti, sollecitati dalle conquiste che intervengono nel garantire la riproduzione della vita, derivanti dall’acquisizione di nuove capacità produttive e sociali. Ma sarebbe ingenuo pensare che il passaggio da una forma di rapporti ad un’altra sia sempre stato e possa essere un passaggio lineare. Questo non solo perché le relazioni sociali contengono sempre una componente antagonistica, e cioè non sono espressione di un potere comune, con la conseguenza che i mutamenti intervengono sempre o quasi in modo travagliato. (Basti pensare, ad esempio, alle ricorrenti rivolte delle classi subalterne e alle guerre che si sono accompagnate al superamento della schiavitù). Ma ancora di più perché ogni livello di sviluppo viene raggiunto per poi essere nuovamente perduto proprio in conseguenza dell’ulteriore sviluppo che esso garantisce. Così la spinta al cambiamento non si presenta inizialmente in forme positive, bensì negative, cioè come difficoltà di riprodurre i rapporti prevalenti. La spia che la società è pronta per un cambiamento ha cioè frequentemente assunto quella forma che chiamiamo “crisi”.
La crisi, pertanto, non è altro che il disgregarsi dei rapporti dati, con l’emergere di una crescente difficoltà a continuare a svolgere la vita umana su quella base. Quegli stessi rapporti, che per una fase storica hanno coerentemente mediato le relazioni degli individui con gli oggetti di cui vivono e con gli altri esseri umani con cui interagiscono, ora entrano in contrasto con le intenzioni e le aspettative che sottostanno alla loro azione, causando una frustrazione e un senso generalizzato d’impotenza.
La domanda che sorge spontanea in simili frangenti è: perché sta succedendo tutto ciò? Per quale ragione ciò che si faceva fino a ieri non produce più una situazione positiva, o almeno accettabile, come accadeva?
Una prima risposta: la crisi, un male arbitrario
C’è un percorso esplicativo che è stato spesso imboccato nella storia e che, purtroppo, sembra anche oggi prevalere. Poiché, come abbiamo accennato, la nuova situazione genera sofferenze, la tendenza prevalente è quella di frapporre una resistenza ad accettarla come un dato di fatto, reagendo ad essa come un qualcosa che non dovrebbe esserci. Una volta raggiunto questo caposaldo emotivo, si confrontano due diversi modi di elaborare il rifiuto. C’è infatti chi, finendo subito preso nella trappola, ritiene che la crisi costituisca un’immediata e consapevole manifestazione di forza di una parte della società, che vorrebbe in tal modo dimostrare il proprio dominio sull’altra. Essa conseguirebbe cioè da una
“scelta delle classi egemoni di stare dentro al paradigma monetarista e rigorista, una scelta assunta nella consapevolezza dei suoi costi sociali e delle possibili alternative”.
Il limite di quest’approccio è evidente. Pur vivendo in un mondo dominato dal rapporto della proprietà privata, si immagina che gli individui sappiano e vogliano già agire come un organismo comunitario, cosicché ogni comportamento che non tiene conto degli effetti dell’azione individuale sull’insieme della società costituirebbe un arbitrio. Ma se gli individui sono già rozzamente dipendenti gli uni dagli altri sul piano materiale, cioè attraverso i rapporti di scambio, ciò non comporta affatto che essi abbiano già realizzato una comunità, che semmai può essere soltanto un obiettivo da perseguire al di là dello sviluppo già intervenuto.
Il secondo approccio attribuisce, invece, quella che considera comunque come una “colpa” non a tutta la classe egemone, ma ad una parte di essa. Questa avrebbe trasgredito le stesse regole sui cui si basa il procedere sociale. Emblematica, da questo punto di vista, fu la reazione di Einaudi alle proposte eterodosse di Keynes per uscire dalla crisi degli anni ’30.
“[Nella crisi] si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quali esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori incompetenti, o avventati o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. … Non l’euforia della carta moneta [per sostenere interventi pubblici] occorre, ma il pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù”.
Con entrambi gli approcci la crisi viene interpretata come conseguenza di un comportamento deviante altrui, che basterebbe inibire per ritornare sulla via maestra che porta fuori dalla crisi.
Una seconda risposta: la crisi, un grave errore delle classi egemoni
Il secondo percorso esplicativo si scosta solo marginalmente dal primo. Si limita infatti a ridefinire come una responsabilità ciò che i primi considerano una colpa. Le classi egemoni avrebbero cioè assunto su di sé il potere di indirizzare l’economia convinte di mediare un nuovo sviluppo; ma il tutto sarebbe sfociato nella crisi per il loro egoismo e la loro ignoranza.
Nel corso degli ultimi decenni i gruppi che hanno abbracciato quest’orientamento sono diventati moltitudini. Non starò qui a riesumare la mia critica al movimento della decrescita, per la quale rinvio il lettore ad un pamphlet pubblicato recentemente, Critica la decrescita. Né mi soffermerò sul mio dissenso dalla proposta del reddito di cittadinanza o incondizionato, che ho già svolto in Quel pane da spartire e in molti articoli su Sbilanciamoci e su il manifesto. Non mi confronterò nemmeno con coloro che ritengono che basti “un rilancio degli investimenti pubblici e privati”, accompagnato da una “politica redistributiva e di rilancio del lavoro”, con i quali ho interloquito recentemente su Critica Marxista. Mi soffermerò brevemente in questa sede su due orientamenti culturali che riducono la crisi ad una questione monetaria, per poi concludere con un approfondimento delle questioni di metodo che, a mio avviso, decidono dell’efficacia o dell’inconsistenza delle battaglie culturali.
Per orientarci possiamo prendere le mosse da una considerazione di Marx:
“è possibile rivoluzionare i rapporti di produzione esistenti e i rapporti di distribuzione ad essi corrispondenti mediante una trasformazione dello strumento di circolazione – trasformando cioè l’organizzazione della circolazione?” scrive nei Grundrisse. “Se ogni trasformazione della circolazione in tal senso presupponesse a sua volta cambiamenti delle altre condizioni di produzione e rivolgimenti sociali cadrebbe naturalmente a priori questa dottrina, che propone i suoi giochi di prestigio sulla circolazione, da un lato, per evitare di riconoscere la componente di potere (gewaltsamen Charakter) sottostante alle trasformazioni e, dall’altro lato, per rappresentare questo cambiamento non come presupposto bensì come risultato evolutivo delle trasformazioni nella circolazione”.
A. Uscire dall’euro.
Questa critica si attaglia perfettamente ad un testo che è stato avidamente letto a sinistra, il cui sottotitolo è “la fine della moneta unica [con il ritorno alla lira] salverebbe democrazia e benessere in Europa”. Quali critiche possono essere avanzate a chi condivide questo orientamento?
La tesi principale è che, uscendo dall’euro, recupereremmo un’autonomia nel gestire le politiche economiche, una “sovranità” che, con l’euro, sarebbe stata persa. Ma l’autonomia – cioè la capacità di darsi proprie regole indipendentemente dagli altri – presuppone l’inesistenza di intrecci vitali con questi altri. In caso contrario l’autonomia si trasformerebbe nella pretesa di agire a prescindere dall’insieme dei rapporti nei quali si è immersi. Ora, le esportazioni e le importazioni incidono, ciascuna, per circa il 30% del prodotto interno lordo, cioè poco meno di un terzo della ricchezza prodotta ogni anno. Pertanto c’è un nesso profondo tra l’economia italiana e l’economia di altri paesi. Ciò che spinge a riconoscere che le regole possono solo essere la manifestazione di un accordo con coloro che sono così strettamente legati a noi. Ciò non significa, ovviamente, che le regole esistenti debbano essere considerate adeguate; ma che se si vuole cambiare la situazione e non regredire in un anacronistico isolamento, si debbono, nonostante le difficoltà, concordare regole alternative con gli altri. Detto in termini espliciti, quella di una possibile sovranità nazionale è solo una chimera regressiva.
Secondo alcuni sostenitori dell’uscita dall’euro non sarebbe necessario sobbarcarsi quest’onere, perché ci sarebbe un regolatore automatico in grado di far tornare i sistemi economici al loro “funzionamento fisiologico”. Questo regolatore – udite, udite! – sarebbe nient’altro che la legge della domanda e dell’offerta che, attraverso l’adeguamento dei prezzi riuscirebbe a far “diventare gli scambi più equilibrati” In questo modo di ragionare tutte le conquiste realizzate dall’economia da inizio Novecento, quando si è cominciato a riconoscere la natura contraddittoria del rapporto domanda-offerta lasciato a se stesso, scompaiono nel nulla. Come purtroppo scompare nel nulla l’accenno di comprensione delle crisi moderne avviato da Marx e ripreso da Keynes.
L’ignoranza della storia si spinge talvolta fino a degli estremi senza scusanti. Se si dice, come fa il programma della Modern Monetary Theory italiana, anch’essa orientata ad uscire dall’euro, che “una moneta non posseduta da alcuno stato è un’aberrazione monetaria che non ha precedenti in 5.000 anni di storia”, si dimostra di non sapere nulla della natura e della storia della moneta. Non si sa, ad esempio, che la moneta sgorga spontaneamente dal rapporto di scambio, e solo in un secondo momento riceve, eventualmente, una istituzionalizzazione sociale. Non sa, inoltre, che una situazione nella quale lo stato ha cominciato a regolare direttamente l’emissione di moneta, in Italia si è instaurata solo nel 1893, con l’istituzione della Banca d’Italia, dopo lo scandalo della Banca Romana, mentre prima c’erano ben sei istituti, di cui due soli pubblici, che emettevano moneta.
Tutte queste slabbrature teoriche si riflettono ovviamente direttamente nelle stesse analisi economiche. Una tesi avanzata è, ad esempio, che bisognerebbe uscire dall’euro e svalutare perché “se non si muove la moneta si deve muovere il salario”. Ma notoriamente quando la moneta “si muove”, cioè si svalorizza, si muove anche il salario. Il salario è infatti un prezzo, e cioè l’espressione di una determinazione reciproca tra valore della forza lavoro e valore della moneta. La tesi di fondo è che se la moneta (usata negli scambi internazionali) è sopravvalutata interverrà un lungo periodo di deflazione di salari e prezzi. Per evitarla che cosa si dovrebbe fare? Imporre una svalutazione del cambio, che però avrebbe a sua volta l’effetto di ridurre i salari reali. Insomma per evitare che intervenga un fenomeno negativo si dovrebbe far in modo di attuarlo consapevolmente in anticipo.
Per non cogliere questo aspetto negativo ci si immagina che tutto si risolva in un processo positivo. Nella fantasia di coloro che considerano la svalutazione come un passaggio necessario, il vantaggio starebbe nel fatto che si potrebbe vendere agli acquirenti esteri più a buon mercato, cioè a prezzi più bassi. Ma ciò significa che per ottenere da coloro ai quali si vende lo stesso valore di prima bisogna offrire – cioè lavorare – di più, in cambio della stessa quantità del loro prodotto, perché se ci si limita ad offrire quanto si offriva prima si ottiene di meno. Il salario dunque, in contrasto con le fantasie sulla panacea, si muove, in concomitanza con il mutar di valore della moneta. La trincea dei paladini della svalutazione è che questo fenomeno di riduzione del valore reale dei salari interverrebbe solo nei confronti dei fornitori esteri, mentre non investirebbe la produzione nazionale. Ma questo ragionamento regge solo per quei paesi che, per una ragione o l’altra, sono solo esportatori. Per un paese integrato nell’economia internazionale le cose stanno diversamente. L’aumento del prezzo dei prodotti esteri, determinato dalla svalutazione, si riflette infatti inevitabilmente sui costi di produzione, determinando una riduzione dei salari reali.
Un’ultima considerazione. L’idea che svalutando si produrrebbe e si venderebbe di più regge solo nell’ipotesi antimarxiana e antikeynesiana che la crisi che stiamo attraversando non sia determinata, sul piano generale, dall’esistenza di una capacità produttiva eccedente. In caso contrario l’occupazione aggiuntiva del paese che svalorizza finirebbe, nella migliore delle ipotesi, col distruggere una parte dell’occupazione del paese che mantiene il valore della sua moneta invariato. Con una caduta del reddito di quel paese compensata solo in parte dal minor aumento del reddito che interverrebbe nel paese che ha svalutato. Ci sarebbe pertanto una contrazione degli sbocchi complessivi aggiuntiva rispetto a quella della quale già si soffre. E perché mai il paese che vede minacciato il suo livello di occupazione non dovrebbe ricorrere a sua volta ad una svalutazione competitiva, del tipo di quelle che dilagarono nel corso degli anni Trenta del Novecento, con un aggravamento dello stato generale di crisi?
Per quanto sia difficile, l’unica strada per uscire dal pantano nel quale siamo finiti è dunque quella di una profonda trasformazione culturale, che passa attraverso la formazione di un sapere alternativo rispetto a quello dominante oggi nel senso comune, anche a sinistra. La proposta d’uscita dall’euro è una scorciatoia sbagliata, nient’altro che alchimia sociale.
B. Introdurre una “quasi moneta”: i Certificati di Credito Fiscale
Per avvicinarci al problema insito in quest’altro approccio può esserci nuovamente d’aiuto Marx là dove scrive,
“all’intuizione popolare, che vede il denaro apparire e scomparire meno spesso in tutti i punti periferici della circolazione quando rallenta il corso del denaro, sembra ovvio interpretare le crisi come insufficienza della quantità dei mezzi di circolazione”.
Si tratta di un luogo comune che sentiamo continuamente ripetere a tutti i livelli della società, con l’affermazione che il nostro problema consisterebbe nel fatto che “non ci sono i soldi!”. E se il problema è questo, che cosa ci sarebbe di più ovvio e ragionevole dell’immettere nel sistema i soldi che mancano, per ristabilire un fisiologico andamento della riproduzione? Prendiamo il recente appello sottoscritto da alcuni studiosi di sinistra, pomposamente definito come “Risoluzione immediata della crisi in Italia”, secondo il quale per “Uscire dalla depressione si dovrebbe procedere all’emissione di ‘moneta statale’ a circolazione interna”. La proposta è facilmente comprensibile. Lo stato italiano dovrebbe emettere dei Certificati di Credito Fiscale da distribuire – direttamente e gratuitamente – a cittadini e imprese, che potrebbero usarli anche nei rapporti di scambio correnti, proprio per mettere nelle mani di questi ultimi la moneta che manca. In tal modo il sistema si rimetterebbe in moto, perché “aumenterebbe la domanda, diminuirebbe il costo del lavoro, con un effetto positivo sulla crescita del PIL e dell’occupazione”. Questi Certificati, da emettere fino ad un massimo di 200 miliardi di euro annui, potrebbero essere usati, “dopo due anni dall’emissione, per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione”. Essendo però anche immediatamente spendibili come denaro nelle transazioni private, questi titoli “opererebbero come una moneta nazionale complementare all’euro”, generando quella capacità di spesa che la mancanza di soldi sta inibendo. Che cosa c’è che non va in questa proposta?
Innanzi tutto i suoi sostenitori affermano che essa “non genererebbe debito”. Ma è veramente così? Che cos’è il debito? Non è altro che una somma che dovrà essere restituita in futuro. Nel momento in cui lo stato anticipa oggi denari che dovrebbe riscuotere in futuro si indebita, né più e né meno di come fa qualsiasi impresa che si rivolge ad una banca chiedendo oggi che i soldi che ricaverà in futuro dalla sua attività produttiva, salvo poi restituirli quando i ricavi futuri interverranno. Come fanno le banche quando concedono un anticipo, che iscrivono nel loro bilancio una passività corrispondente al prestito, così deve fare lo stato nel momento in cui concede ai cittadini e alle imprese di entrare in possesso oggi dei soldi che gli restituiranno domani. Certo, se si falsifica la contabilità si può omettere di registrare la partita passiva, ma essa interverrà comunque nel momento in cui i cittadini e le imprese pagheranno le imposte non con i loro denari, bensì facendo valere i crediti fiscali che sono stati regalati loro dallo stato. In altri termini, il debito sembrerà non esserci solo perché resterà occulto fino al momento della riscossione delle imposte.
Per capire meglio questo problema si può far riferimento alla questione degli 80 euro concessi ad alcune categorie di lavoratori dipendenti dal governo Renzi. La somma corrispondente ha dovuto essere coperta con altre entrate, perché altrimenti, fermi restando i criteri del procedere sociale, avrebbe dovuto essere registrata come deficit, cioè come somme date a debito che prima o poi avrebbero dovuto essere ripagate.
Per comprendere appieno il senso di questa critica si deve tener presente uno dei passaggi essenziali del pensiero keynesiano: il denaro è sempre un rapporto bilaterale. Nel momento in cui lo stato emette i Certificati in questione la fa perché sa che i cittadini e le imprese gli dovranno versare imposte per un importo equivalente. Per registrare coerentemente questo rapporto deve contabilizzare la sua rinuncia attuale a quelle entrate future, iscrivendole come passività corrente, da equilibrare nel momento in cui i crediti verranno versati in sostituzione delle imposte future. Senza questa operazione, che comporta un aumento del debito corrente, quello che viene immesso in circolazione non sarebbe un vero e proprio denaro, ma una sorta di dono che lo stato fa a se stesso e ai cittadini e alle imprese. In altri termini lo stato rivoluzionerebbe il rapporto di denaro in modo immediato trasformandolo, per la parte corrispondente ai certificati emessi, in un potere che non scaturisce dal contributo alla produzione collettiva, ma da un atto che “crea” unilateralmente il potere di appropriarsi prodotti. Poiché il potere corrispondente di spingersi al di là del rapporto di valore non è già stato sviluppato, il tutto genererebbe un’incontrollabile babele.
Nella proposta non è chiarito se al momento in cui lo stato si vedrà “pagare” le imposte con i Certificati considererà quel pagamento come entrate effettive, immettendo di nuovo in circolazione quei Certificati, o se invece provvederà a distruggere i titoli di credito, registrandoli come mancate imposte. E’ ovvio che nella prima ipotesi si tratterebbe di una vera e propria moneta aggiuntiva immessa in circolazione, mentre nella seconda ipotesi si tratterebbe solo di uno “sconto fiscale”, cioè di una perdita sulle entrate. Per eludere questo problema, i sostenitori della proposta ipotizzano che la loro mossa produca un aumento del PIL tale da permettere allo stato di rinunciare a quelle entrate, perché esse sarebbero compensate dalle maggiori entrate dovute all’aumento del PIL, che sarebbero non occasionali, ma stabili. Ma se nell’arco di appena tre anni verrebbero immessi crediti fiscali per un ammontare complessivo di 400 miliardi di euro (ipotesi degli estensori della proposta), le entrate dello stato dovrebbero aumentare in conseguenza della crescita del PIL dello stesso ammontare, perché altrimenti l’amministrazione pubblica, se riconoscesse di non poter “rivoluzionare” in modo immediato il rapporto di denaro, si vedrebbe costretta a tagliare le spese per la somma mancante. Ma il PIL italiano è attualmente di poco superiore ai 1.500 miliardi, supponendo anche che in tre anni si riesca a farlo crescere del 15% (ipotesi degli estensori della proposta) ciò corrisponderebbe a soli 225 miliardi. Anche considerando che i Certificati non verrebbero fatti valere tutti insieme e a breve scadenza, è molto probabile che si determini uno squilibrio nei conti pubblici, che sarebbe solo spostato là nel tempo.
Se la proposta appare debole sul piano tecnico, lo è ancor di più sul piano teorico. Gli autori sostengono che “il sistema della moneta unica … è diventato un freno per la crescita dell’Eurozona e di ogni singolo paese”. Ma si tratta, anche qui, di un’affermazione mutuata dal senso comune prevalente. La crisi che ha determinato un sostanziale ristagno dell’economia europea non è qualcosa che è esploso a partire dal 2008, bensì risale alla fine degli anni ‘70, quando si è stati incapaci di far fronte alla crisi delle politiche keynesiane. Lo stato confusionario e l’impotenza di cui hanno sofferto da allora i sostenitori dello Stato sociale hanno favorito il prevalere dei neoliberisti, i quali hanno confuso gli effetti di una speculazione finanziaria che favoriva un’inflazione dei valori del capitale (asset price inflation), sostenuta anche dal quantitative easy della FED, con una ripresa dell’accumulazione. Certo chi immagina che quella degli anni Novanta e del primo decennio del duemila come una situazione fisiologica può oggi propendere per una sua emulazione. Ma chi sa riconoscere la dinamica evolutiva della crisi non può essere d’accordo.
Come abbiamo visto la tesi sottostante alla proposta è che la produzione sia limitata dalla mancanza di denaro e immettendo denaro il prodotto torni a crescere. Ma si tratta di una rappresentazione feticistica delle relazioni produttive. Infatti il denaro manca non perché non ci sia, ma perché non circola, e cioè perché l’atto che normalmente media la cooperazione produttiva – la spesa – non viene praticato nella misura necessaria e possibile. Non è cioè la cosa nella quale si raffigura il potere di spendere che manca, ma la tendenza a tesaurizzare da parte di coloro che dispongono di denaro. Questo è un problema col quale i rapporti capitalistici hanno dovuto fare i conti ripetutamente nel corso del loro sviluppo, ed è stato affrontato. Inizialmente la risposta è stata quella dello sviluppo del credito. Questo comporta l’immissione di denaro addizionale, rispetto ai redditi nei quali si concretizza il prodotto passato, proprio per permettere a quella parte di esso che non ha già il suo equivalente di entrare in circolo. Vale a dire che poiché da ogni ciclo produttivo scaturisce un prodotto eccedente che non è stato pagato, si deve creare artificialmente il valore che lo compera. Ciò che accade con il moltiplicatore dei depositi, che consente alle banche di creare il denaro necessario. Ma le banche procedono in questa direzione solo fintanto che sono sicure che quelle anticipazioni di valore si trasformeranno effettivamente in un valore futuro, attraverso l’uso produttivo di quel plusprodotto. Per questo il credito non funziona in occasione delle crisi, quando questa prospettiva scompare. E’ qui che prende corpo il keynesismo, che muove proprio dal riconoscimento che il meccanismo del credito non permette di superare le crisi. Anche se il denaro venisse immesso in circolazione esso finirebbe nella trappola della liquidità o nella speculazione finanziaria, cioè soffrirebbe dell’incapacità delle aziende di procedere sulla via della crescita. E’ questa la ragione per la quale lo stato si deve sostituire alle imprese spendendo direttamente nella produzione. Fintanto che il sistema gode ancora di un margine di sviluppo sulla base del rapporto di valore – ciò che viene confermato dagli effetti moltiplicativi della spesa pubblica – questa strategia funziona. Ma quando il moltiplicatore cade a livelli irrisori – com’è accaduto a partire dagli anni ‘80 – nemmeno la spesa pubblica garantisce più aumenti del PIL capaci di assicurare una copertura spontanea delle spese ad aliquota invariata. E’ qui che lo Stato sociale, non avendo compreso che si stava dissolvendo la base stessa del processo riproduttivo rappresentata dal rapporto di valore, ha finito con l’incartarsi.
Ora, il superamento del rapporto di valore è cosa complessa e non sto qui, ovviamente ad affrontarla. Tuttavia mi preme sottolineare un punto. La proposta si illude che la struttura delle relazioni sociali possa restare immutata e basti immettere in circolazione il denaro mancante per riprodurre il rapporto alla base della società (ché altrimenti non si parlerebbe di una “soluzione della crisi”). Ma se sono vere le ipotesi di Marx e di Keynes questa strada è bloccata. Non nego che se i cittadini e le imprese si vedranno piovere addosso centinaia di miliardi regalati possano aumentare le loro spese, ma ciò costituirebbe solo una toppa transitoria al problema della crisi. Il senso della tesi keynesiana, che nelle crisi si presenta un problema di domanda, va compreso in tutta la sua estensione. Fintanto che la società è povera si può sostenere la domanda con la spesa, anche se è sempre meglio farlo con interventi produttivi diretti. Ma quando la società è giunta alle soglie dell’abbondanza, l’inadeguatezza della domanda aggregata dimostra solo che gli individui non sanno più cooperare in modo da garantire un ulteriore sviluppo, appunto perché questo può intervenire solo trascendendo il rapporto di valore. Certo nella proposta c’è un oscuro movimento in questa direzione, visto che quelle centinaia di miliardi affluirebbero a imprese e cittadini senza la contropartita di un equivalente. Ma i mutamenti sociali sono molto più complessi di simili pratiche, che ricordano troppo da vicino gli atti magici dei nostri antenati.
C’è, infine, un problema dirimente, che dimostra l’ingenuità della proposta. Si fa presto a dire che si “debbono assegnare circa 70 miliari di CCF ai lavoratori dipendenti e autonomi ogni anno in funzione inversa del loro livello di reddito”. Ma, a parte che in tal modo si nega il problema dell’infedeltà fiscale, non va ignorato quello che è sempre successo in occasione di qualsiasi intervento di distribuzione unilaterale di risorse (borse di studio, danni da calamità naturali, ecc.). Normalmente si sono scatenati conflitti tra i vari soggetti che si sono dimostrati irrisolvibili, con un peggioramento della capacità cooperativa. Tutto ciò vale, ovviamente, anche per gli 80 miliardi previsti per le imprese private, e per i 50 miliardi da impiegare in iniziative pubbliche. Lungi dal favorire un fisiologico sviluppo della cooperazione questi interventi, con ogni probabilità, scatenerebbero una vera e propria babele sociale dalla quale sarebbe impossibile uscire.
Ma allora?
Che cos’è che spinge la maggior parte delle proposte alternative ad imboccare delle improbabili scorciatoie del tutto simili a quelle sulle quali ci siamo brevemente soffermati? E quale errore sollecita molti di coloro che cercano di evitare quell’unilateralità a ricorrere ad un fantasioso sincretismo, che mette insieme tanti progetti senza badare alla loro reciproca incompatibilità logica.
A mio avviso, alla base di tutto ciò c’è un radicale fraintendimento della natura del fenomeno che ha investito le società sviluppate. Abbiamo accennato all’inizio che la crisi corrisponde al disgregarsi dei rapporti dati. Su questi rapporti gli individui hanno costruito la forma della socialità che li contraddistingue, cioè il loro modo di essere umani. Questo modo ha consentito loro di soddisfare i bisogni reciproci su scala allargata attraverso specifiche modalità sociali – prima quella della proprietà privata, poi quella dei diritti sociali. Ma attraverso queste forme essi hanno prodotto un mondo di rapporti – strumenti e relazioni – nel quale quelle modalità dell’esistenza non riescono più a mediare coerentemente il comune processo riproduttivo. Per questo i cittadini appaiono impotenti al progressivo aggravarsi delle contraddizioni e si impoveriscono. La reazione a questo stato di cose può essere di due tipi: si può sperimentare la crisi come un evento naturale (terremoti, inondazioni, ecc.) sul quale la società non è in grado di acquisire alcun potere o, al contrario, si può credere che un qualche potere possa esistere, o almeno essere sviluppato.
Ora, come ha sottolineato Marx nei confronti dell’azione dei movimenti sociali del suo tempo, la volontà da sola non è una forza adeguata ad affrontare i problemi emersi. Gli individui che procedono su quella base credono, infatti, che basti agire nelle modalità che conoscono per sperare di ottenere risultati diversi da quelli che li fanno soffrire. Ma a determinare l’insorgere dei problemi sono proprio quelle relazioni, che sono diventate inadeguate a contenere le forze produttive appena conquistate. Oltre la volontà occorre dunque sviluppare una capacità corrispondente alla nuova situazione, capacità della quale gli individui non sono ancora depositari. Ciò significa che debbono elaborare delle relazioni che non rientrano ancora nel loro bagaglio culturale. Un processo che può essere attuato solo a tentoni, conquistando dapprima quello che possiamo definire come un organizzatore di senso.
Questo organizzatore può sostenere il processo esplorativo, ma non indicare da subito il concreto percorso che corrisponde alla soluzione dei problemi emersi. Purtroppo la maggior parte delle persone non procede sulla base di questo presupposto. Precipitata in una stato confusionale a causa del susseguirsi degli eventi, esprime in una scarica immediata – con proteste, astensione dalle votazione, recriminazioni sulle colpe altrui – il proprio bisogno, che si presenta così come “una disordinata manifestazione del proprio stato emotivo”, dalla quale si spera che scaturisca la sua soddisfazione. Ma questo comportamento dimostra solo che le persone continuano a porre la società, cioè i loro stessi rapporti generali, come un qualcosa di esteriore. Esso, infatti, equivale non già al necessario processo di interiorizzazione dei problemi emersi, per procedere alle modificazioni autoplastiche della propria prassi, ma all’evocazione di un potere esterno, dal quale si fantastica dipenda la propria condizione umana.
E’ del tutto comprensibile che la crisi sopravvenuta ormai da un quarantennio non abbia avuto un risposta immediata; che essa sia sin qui stata caratterizzata da un’opposizione ideologica che chi voleva conservare le conquiste della Stato sociale, messe in discussione dalla crisi, e chi voleva riportare la società alle relazioni egemoni nella fase storica precedente. Ma i tempi sono ormai maturi per cominciare a comprendere la natura dei cambiamenti intervenuti attraverso lo sviluppo capitalistico prima e lo stato keynesiano dopo. Solo così potremo imparare a calpestare lo spazio sociale ancora sconosciuto, sul quale siamo finiti, senza incappare nelle conseguenze contraddittorie della nostra stessa azione. Solo così potremo dimostrare di essere il seme di un’epoca storica dell’umanità, evitando di finire come se fossimo invece la sua scorza.

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