fotostudioledi Giovanni Mazzetti –

La condizione di coloro che non sono ancora in età pensionabile e lavorano, e quella dei lavoratori già in pensione sono apparentemente indipendenti e, secondo il senso comune prevalente, addirittura contrastanti. Come recita la vulgata, ciò che i secondi ricevono come pensione verrebbe sottratto ai primi come contributi. Ci troveremmo, dunque, in un gioco a somma negativa per i primi, che si vedrebbero privare di una parte dei “loro” soldi. Questa rappresentazione è, nel migliore di casi, frutto di un errore grossolano, mentre nel peggiore costituisce una maldestra mistificazione. La mistificazione consiste nel teorizzare un conflitto (tra generazioni) là dove invece c’è un interesse comune.
La questione è semplice, nonostante gli ideologi conservatori tendano a confondere il processo che sfocia nella sua soluzione dietro ad inutili complicanze. Innanzi tutto, grazie al lavoro di quelli che oggi son pensionati, i giovani possono posporre significativamente il momento del loro ingresso nel mondo del lavoro, ed entrare nel processo produttivo con conoscenze enormemente superiori rispetto a quelle dei loro padri. C’è dunque stato un “contributo” materiale, da parte di chi oggi è anziano, alla libertà dei giovani dalla condizione servile, condizione che la maggior parte dei loro predecessori doveva subire in un passato non lontano. Si dirà, ma quell’emancipazione non basta. I giovani sono oggi esclusi in massa dal lavoro; che se ne fanno, dunque, di quella libertà?
Qui interviene l’altro aspetto dell’interesse comune al quale abbiamo accennato. Le occasioni di lavoro dei giovani possono, infatti, scaturire:
– dal fatto che gli anziani concludono la loro fase di partecipazione alla produzione andando in pensione, e vengono sostituiti dalle nuove generazioni, con una redistribuzione tra generazioni del lavoro necessario;
– da una crescente soddisfazione di bisogni, che chiama in causa nuovi lavori.
Ora, se si impone agli anziani di lavorare sempre più a lungo, come sta accadendo da più di vent’anni, questa fisiologica redistribuzione dell’attività produttiva viene bloccata, e i giovani finiscono col trovarsi in massa esclusi dal lavoro.
Va poi tenuto presente che la condizione di qualsiasi occupazione è la domanda che la genera. In una situazione nella quale la componente anziana della società tende a crescere sistematicamente, la domanda di quest’ultima rappresenta una componente essenziale della creazione del lavoro necessario e possibile – più persone che vivono più a lungo con più bisogni. Ovviamente, se quei bisogni vengano conculcati, com’è avvenuto negli ultimi decenni, gli anziani vivranno peggio, ma anche i giovani verranno trascinati in una situazione insostenibile fatta di disoccupazione e di emarginazione.
La politica pensionistica degli ultimi decenni – con l’allungamento dell’età pensionabile e con il contenimento dei redditi pensionistici – fa quindi l’esatto opposto di ciò che millanta. Va contro gli interessi dei giovani, perché, da un lato, inibisce la fisiologica redistribuzione del lavoro tra anziani e giovani e, dall’altro, ostacola la soddisfazione di nuovi bisogni e la corrispondente creazione di nuovo lavoro.
I conservatori – che si illudono di agire da “riformatori” – affrontano la crisi prendendo come fenomeno di riferimento il fatto che “non ci sono i soldi. Secondo loro i soldi andrebbero recuperati con tagli e risparmi. Ma se per il singolo la disponibilità di denaro può aumentare attraverso una rinuncia a spendere (ma disporrà di meno beni e servizi), per l’insieme della società ciò è impossibile. I soldi, a livello aggregato, non possono derivare da un atto negativo. Al contrario, essi ci sono solo se i soggetti economici (individui, imprese e stato) li spendono, facendoli di volta in volta rientrare nel processo della circolazione monetaria e degli scambi. Infatti, per la società nel suo insieme la quantità di denaro disponibile, in un qualsiasi arco di tempo, è data da M (massa monetaria) moltiplicata per V (velocità con la quale viene spesa).
Se, per “trovare i soldi”, si tagliano i redditi dei lavoratori, dei pensionati e le spese pubbliche, si ottiene l’effetto opposto rispetto a quello sperato, cioè i soldi verranno inevitabilmente a mancare più di prima. Infatti, le spese complessive si contrarranno, la circolazione monetaria e degli scambi verrà ridimensionata, e il problema della disoccupazione diventerà irrisolvibile, perché la leva sulla quale si basa la creazione di lavoro sarà stata depotenziata. Né può bastare, come credono in molti, l’intervento della Banca Centrale, teso ad accrescere la liquidità, perché quel denaro viene usato prevalentemente per acquistare attività finanziarie, riversandosi poi sui mercati speculativi, invece di trasformarsi in domanda solvibile. Così come non si può far affidamento sulle esportazioni, cioè sulla spesa dei cittadini di altri paesi, perché le esportazioni incidono già per un terzo della produzione nazionale, e la crisi ha investito quasi tutti i paesi occidentali.
Pertanto, se la parola d’ordine dei conservatori è “Meno ai padri e più ai figli” (Nicola Rossi), ad essa si deve opporre una prospettiva alternativa, nella quale si spiega che il “Dare di più ai padri, fa avere anche di più ai figli”, con un gioco a somma positiva per entrambi. Certo per riuscire in questo rovesciamento di prospettiva bisogna spiegare il funzionamento del sistema economico, aiutando i cittadini ad emanciparsi dalla diffusa ignoranza dei suoi meccanismi. Non basta chiamare giovani e anziani ad una convergenza volontaristica nelle lotte, perché nessuno può battersi realmente per qualcosa della quale non intravede, almeno, il senso positivo.
I conservatori hanno tutto l’interesse a procedere in modo confuso, affastellando critiche insensate e previsioni catastrofiche, parlando di necessità di sacrifici, di sprechi intollerabili, di privilegi, ecc., per giustificare i peggioramenti normativi e i tagli per cui si battono. Per questo occorre analizzare a fondo, con le dovute distinzioni, l’attività dell’INPS in una prospettiva storica e teorica, ma anche le teorie profondamente diverse che stanno dietro ad ogni scelta di politica economica.
I nostri obiettivi
Il nostro fine è quello di rovesciare la direzione degli interventi legislativi degli ultimi vent’anni. Per raggiungerlo perseguiremo i seguenti cambiamenti.

A) Ridurre quanto prima l’età pensionabile, per ricondurla a meno di sessant’anni.
La convinzione generalmente condivisa, che “poiché si vive di più sia necessario lavorare più a lungo”, è un’emerita idiozia economica. Chi ragiona in questo modo ingenuo ritiene – magari senza nemmeno rendersene conto – che il lavoro abbia sempre lo stesso livello di produttività. Solo in questo caso, infatti, la percezione della pensione per il maggior numero di anni in cui si vive richiederebbe che si lavori per un maggior numero di anni equivalente. Ma se la produttività del lavoro cresce via via, i maggiori frutti che derivano da quella crescita possono esser goduti per riprodursi in condizioni confortevoli, senza dover prolungare il lavoro.
Molti economisti conservatori sostengono spudoratamente che in questi decenni la produttività del lavoro non sia aumentata significativamente. Ma i criteri che consentono loro di giungere a questa conclusione sono sbagliati. Non si rendono conto che la produttività sembra non crescere perché si produce molto meno di quello che si potrebbe produrre materialmente. Cioè interviene una limitazione arbitraria della soddisfazione dei bisogni, per garantire la riproduzione dei rapporti sociali che sono alla base della crisi (attraverso “patti” esplicitamente definiti di “stabilità”). E nel tentativo di spingere per un aumento della produttività dal lato dell’abbattimento dei costi, si aggrava il problema dell’inadeguatezza della domanda. Un aumento della spesa in pensioni, connessa all’abbassamento dell’età pensionabile, può, invece, sostenere la domanda e permettere il dispiegamento della produzione e dell’occupazione, che altrimenti verrebbe a mancare.
Solo degli stolti possono pensare, come fanno molti studiosi conservatori, che il mantenere l’incidenza della spesa pensionistica futura sul PIL allo stesso livello di oggi, pur con un aumento del numero degli anziani del 33%, non sfoci in un disastro. Poiché in questo caso interverrebbe una diminuzione del reddito pro capite dei pensionati di 1/3, rispetto al livello già miserevole di oggi, gli anziani finirebbero in miseria, e i giovani, privati della domanda necessaria al loro lavoro, avrebbero un futuro ancora più buio di quello di oggi. Ciò ci conduce al nostro secondo obiettivo.

B) Reintrodurre il metodo di calcolo delle pensioni con il sistema retributivo
Quando si dice che la pensione non è altro che la parte differita della retribuzione si afferma un criterio che va compreso appieno. Come tutti sanno, col metodo a ripartizione, i contributi versati da ciascun lavoratore non vengono affatto accantonati. Essi verrebbero accantonati solo in un sistema a capitalizzazione, nel quale i contributi costituirebbero una sorta di fondo assicurativo per la vecchiaia. Ma con la ripartizione le cose non stanno così. I contributi degli attivi vengono utilizzati per pagare le pensioni di coloro che sono andati in quiescenza. La ragione per la quale i sistemi a capitalizzazione sono stati a suo tempo accantonati è perché hanno fallito il loro compito. Al presentarsi delle crisi economiche, le somme accumulate si sono dissolte, e i lavoratori che le avevano destinate alla loro pensione hanno subito un drastico processo di impoverimento, al quale si è potuto porre rimedio solo introducendo il sistema a ripartizione. Con questo sistema si procede in forma più sensata. Poiché col loro lavoro passato i lavoratori in pensione hanno via via sviluppato una struttura produttiva incomparabilmente più potente di quella passata – da venti a trenta volte più produttiva – le nuove generazioni – che per produrre impiegano quelle forze – debbono riconoscere a chi le ha prodotte una partecipazione ai frutti della loro maggiore produttività. Non sono i soldi messi da parte a garantire il futuro – che, anzi, se non vengono spesi da un altro soggetto come le imprese o lo stato fanno impoverire la società – ma la struttura produttiva creata e il lavoro che la impiega.
Nell’ambito dei rapporti capitalistici, un principio del genere opera, quando opera, a favore del capitale. Il capitale infatti si appropria degli strumenti produttivi che vengono via via creati, anche perché, nelle sue fasi di ascesa, spinge per la loro realizzazione come espressione del suo bisogno di accumulare. Ma il problema col quale J. M. Keynes ci ha sollecitato a confrontarci, già da quasi un secolo, era che il capitale cominciava a non essere più in grado di garantire autonomamente il pieno uso delle risorse produttive. Puntando solo all’ulteriore accumulazione, invece che alla soddisfazione dei bisogni sociali su scala allargata, si bloccava quando la capacità produttiva diventava abbondante e il suo profitto spariva, sprecando una gran parte delle risorse produttive disponibili, in un risparmio che, al di là del suo orizzonte culturale, appariva insensato. Come sottolineò Keynes, le risorse – forza lavoro e impianti produttivi non impiegati nel processo riproduttivo – a differenza del denaro che li rappresenta non si conservano per usi futuri. Se non vengono usatti correntemente, vanno puramente e semplicemente sprecati. Per questo negli ultimi settant’anni la spesa pubblica è dovuta crescere enormemente fino a raddoppiare la sua incidenza sul PIL.
Le pensioni calcolate sulle ultime retribuzioni, proprio perché sono commisurate ai passi avanti compiuti nell’acquisizione di nuove forze produttive, evitano questa trappola, consentono di mantenere la domanda – per la parte che riguarda gli anziani – ad un livello che permette il pieno uso delle risorse produttive. Certo, ciò comporta un forte ridimensionamento del potere capitalistico, appunto perché l’impiego delle risorse viene ad essere mediato dalla spesa pubblica e punta a soddisfare direttamente bisogni, invece di subordinare quella soddisfazione ad un’ulteriore accumulazione. Ma, come dimostra la crisi che stiamo attraversando, questo ridimensionamento è condizione per un fisiologico funzionamento del sistema produttivo. Arriviamo così al terzo obiettivo della nostra azione.

C) Adeguamento automatico delle pensioni alle variazioni del costo della vita
Nel corso degli anni Settanta in alcuni paesi europei era stato conquistato un istituto – la scala mobile – grazie al quale i redditi da lavoro venivano adeguati automaticamente alle variazioni del costo della vita. Il senso di quel provvedimento era chiaro. Poiché i prezzi non esprimono più un rapporto concorrenziale con le dinamiche del mercato, ma costituiscono spesso l’espressione di un potere lobbystico o monopolistico delle imprese e della distribuzione, i percettori di reddito fisso debbono essere tutelati contro le arbitrarie redistribuzioni del reddito connesse a questo potere. Non molto tempo dopo, nel corso degli anni Ottanta, si cominciò a rappresentare il nesso tra inflazione e adeguamento dei salari e delle pensioni in modo capovolto. L’aumento delle retribuzioni derivante dalla scala mobile non sarebbe stato l’effetto dell’inflazione, bensì la causa di essa. Cominciò, così, un ridimensionamento della tutela, che coinvolse anche le pensioni, con la limitazione dell’adeguamento alle sole pensioni non superiori a tre volte il minimo. In tal modo però andava perso quel legame tra pensioni e retribuzioni introdotto con le norme pensionistiche degli anni Sessanta. Riservando l’adeguamento ai soli redditi più bassi, si tornava piuttosto all’idea, bismarckiana della pensione come istituto assistenziale, finalizzato unicamente ad affrontare le condizioni di grave povertà.
Tra l’altro, nello stesso periodo si è avuto il formarsi ricorrente di bolle speculative sui mercati finanziari. Le quotazioni dei titoli sono cresciute in misura abnorme, in un processo che ha reso il capitale monetario una variabile indipendente da qualsiasi contributo alla produzione materiale. Notoriamente lo sviluppo dei mercati finanziari ha reso la crescita del capitale monetario del tutto indipendente dalla produzione materiale. Ciò ha comportato una drastica redistribuzione del reddito a favore dei proprietari di quel capitale monetario. Certo, l’adeguamento delle pensioni alle variazioni del costo della vita non pone rimedio a questa distorsione del sistema; ma almeno previene un impoverimento aggiuntivo dei pensionati, che non ha alcuna giustificazione logica. Esso esprime la necessaria opposizione alla spasmodica spinta a “trovare i soldi”, anche sterilizzando l’adeguamento pensionistico, da parte di chi non sa cogliere i nessi del funzionamento del sistema economico moderno.
Da questo punto di vista, la sentenza n. 70 del 2015 della Corte Costituzionale ha ribadito la necessità del rispetto di questo principio elementare. Il governo, però, invece di dare attuazione integrale a quella sentenza, ha provveduto con un decreto-elemosina, basato su un anacronistico approccio assistenzialistico, invece che previdenziale. Poiché il decreto governativo corrisponde, sia sul piano procedurale che su quello dei contenuti, ad un inaccettabile arbitrio, organizzeremo e sosterremo tutte le iniziative tese a contrastarlo sia sul piano giudiziario che su quello delle lotte sociali.

D) La terza età, una realtà sociale da costruire
La nostra azione non si limita ad affrontare questi problemi immediati, ma punta ad acquisire una prospettiva radicalmente nuova di lungo periodo. Come abbiamo ricordato, quel mondo dell’infanzia, dell’adolescenza, e della giovinezza prelavorativa, di cui si gode nei paesi sviluppati, appena tre quarti di secolo fa non esisteva. Esso rappresenta una conquista storica. Certo, si tratta ancora di un tempo attraversato da numerose contraddizioni – basti pensare al dilagare della disoccupazione giovanile e a quel rilevante numero di soggetti che non lavora e non va a scuola. Ma l’elemento che lo caratterizza è il relativo superamento, per buona parte delle nuove generazioni, del problema di dover sottostare al bisogno immediato. Per questo, quel 15-20% di bambini che soffre ancora della povertà rappresenta oggi uno scandalo.
Un’evoluzione analoga a quella realizzata per i giovani dopo la Seconda guerra mondiale dovrebbe intervenire per quella nuova parte della vita che abbiamo conquistato nell’ultimo mezzo secolo, e che stiamo continuando a conquistare. Certo, un prolungamento della vita rappresenta anche in sé un valore positivo, ma ciò è vero solo sul piano della dimensione animale, mentre sul piano delle condizione umana è il contenuto concreto di questa vita che dà una misura del suo valore. Per questo le nostre lotte nel medio periodo si concentreranno sui seguenti punti:
1. La prima condizione di un mutamento positivo che raccolga le potenzialità date sta nel riconoscimento del fatto che un sistema previdenziale universale è una condizione imprescindibile dello sviluppo. Esso è poi qualificato dalle condizioni di vita che garantisce. Così, i trattamenti pensionistici minimi debbono essere innalzati, fino a prevedere che a tutti sia assicurato un reddito superiore a quella che viene considerata come la soglia di povertà.
2. Il sistema sanitario deve essere riorganizzato, privilegiando quanto più possibile il prender corpo di una struttura finalizzata alla prevenzione integrale. Da questo punto di vista, ci impegniamo a contrastare il Decreto Renzi/Lorenzin 2015 che procede in direzione opposta, rendendo la prevenzione quasi impossibile.
3. Bisogna mettere a disposizione degli anziani spazi ben diversi da quelli dei quali saltuariamente usufruiscono nei Centri Anziani. Poiché il numero dei giovani che studiano e di quelli che fanno il militare si è drasticamente ridotto, ci sono spazi (scuole e caserme) dismessi che possono essere utilizzati per organizzare centri di studio e di discussione, e di organizzazione sociale del territorio, delle quali le Università Popolari della Terza Età rappresentano solo una timida anticipazione. Queste strutture debbono poi esser dotate di fondi per gestire in autonomia il concreto sviluppo dei progetti che intraprendono.
Per definire il senso del nostro progetto, potremmo parafrasare il Keynes del 1929 che sosteneva:
“Negazioni, restrizioni, inattività, stabilità – queste sono sin qui state le parole d’ordine dei governi. Sotto la loro guida siamo stati costretti a stringere la cinghia e a trattenere il respiro. Paure e dubbi e precauzioni ipocondriache ci stanno trattenendo imbacuccati dentro casa. Ma noi non ci stiamo trascinando verso le nostre tombe. Siamo bambini in salute. Abbiamo bisogno del respiro della vita. Non c’è nulla di cui aver paura. Al contrario. Il futuro ha in grembo per noi molta più ricchezza e libertà economica e possibilità di vita di quante non ne offrisse il passato. Non c’è nessuna ragione per la quale non dovremmo sentirci liberi di essere audaci, aperti, di sperimentare, di agire per verificare le possibilità date. Là di fronte a noi, ad intralciare il cammino, non ci sono altro che vecchi gentiluomini o i loro inconsapevoli allievi che hanno solo bisogno di essere trattati con un po’ di amichevole mancanza di rispetto e buttati giù come birilli. Quasi certamente lo apprezzeranno, una volta che si saranno riavuti dallo spavento.”

In collaborazione con Centro Studi e Iniziative per la Redistribuzione del lavoro. (www. redistribuireillavoro.it)

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