MANIFESTAZIONE SCIOPERO DEGLI OPERAI PIRELLI BICOCCA ANNO 1969di Dino Greco –

E’ necessaria un’avvertenza preliminare sul titolo di questa conversazione che, allusivamente, lega insieme due eventi diversi, per epoca, per contesto e per durata, suggerendo tuttavia l’interesse per una comparazione, certo possibile, anzi necessaria, a patto che si tenga sempre presente la specificità di ogni fatto storico che deve essere interrogato senza ricorrere a tesi precostituite.

Due vicende traumatiche della storia d’Italia, separate da soli 50 anni, possono essere comparate nell’intento di vedere in quale misura l’una possa illuminare l’altra e come le due – prese insieme – contribuiscano alla storia d’Italia del XX secolo.

Intanto, le due esperienze sono effettivamente dei bienni?

Col fallimento dell’occupazione delle fabbriche nel settembre/ottobre 1920 divenne chiaro che il movimento di rivolta aveva definitivamente esaurito la propria spinta propulsiva.
Fissare invece una conclusione per la stagione che convenzionalmente individuiamo nel ’68-’69 è impresa più ardua.

In essa si possono individuare due cicli: un ’68 studentesco e un ’69 operaio che si staglia duraturamente sul decennio successivo segnando di sé l’intera vicenda politica e il carattere della società italiana.

In entrambe le vicende storiche l’elemento chiave è la ribellione della classe operaia.

Dichiaro preventivamente che questo – nella sua parzialità – sarà l’approccio fondamentale della mia relazione.

In entrambi i casi sono le condizioni di lavoro imposte dal capitalismo del primo e del tardo ventesimo secolo a dare luogo ad una lotta di grande intensità da cui sortiranno esperienze straordinariamente originali di democrazia operaia.

In entrambi i casi l’orizzonte culturale è il marxismo, che offre una chiaro riferimento teorico e una altrettanto chiara prospettiva politica alla sollevazione operaia.

Totalmente diversa (ma in entrambi i casi fortemente influente) la situazione internazionale: il “faro” ideale nel primo biennio è l’Ottobre rosso, la rivoluzione sovietica; nel secondo biennio è la sollevazione contro l’imperialismo nord-americano, è l’epopea del Vietnam, è la realtà di Cuba, è la guerra di guerriglia del Che, sono i preti latino-americani della teologia della liberazione.

Entrambi i periodi furono caratterizzati da una profonda sollevazione contro il sistema capitalistico, ma nella stagione apertasi con il ’68-’69 la rivolta non esplose al termine di una guerra mondiale, né in un’epoca di grande miseria proletaria, ma al culmine di un decennio testimone di un’espansione capitalistica senza precedenti: nel ’69 non c’è nell’aria un minimo sentore di catastrofe economica.

Insomma, è come se due Gramsci conversassero a distanza di 50 anni: quello dell’Ordine nuovo che lavora nel presupposto di un’insurrezione rivoluzionaria possibile e imminente (del resto ritenuta tale da parte di tutto il gruppo dirigente bolscevico) e il Gramsci dei Quaderni del carcere, che dopo la sconfitta e dopo l’avvento del fascismo individua la necessità di una lunga marcia nelle trincee della società civile come condizione per la rivoluzione in Occidente.

Infine diverso, nelle due vicende, come vedremo, il rapporto dei Consigli con il sindacato, con la Cgil e con il partito (quello socialista nel ‘19-‘20, il Pci nella lunga seconda stagione operaia).

Nel primo caso l’ostilità dei vertici della Confederazione generale del lavoro nei confronti del movimento dei consigli fu immediata e inestirpabile.

Nell’aprile del ’20 il sindacato non fece nulla per estendere lo sciopero generale piemontese alle altre zone del paese.
La diserzione del Partito socialista fu poi totale: durante l’occupazione delle fabbriche esso lasciò nelle mani dei vertici della Cgl la responsabilità politica della capitolazione.

Ben diverso e complesso fu il rapporto del movimento con il sindacato e con il Partito comunista nella più recente stagione consiliare.
Proveremo qui ad individuarne gli elementi e gli snodi più importanti.

Un’altra differenza occorre portare in luce: in Italia giovani studenti e intellettuali furono i protagonisti della propaganda interventista nell’anno della neutralità (1914-1915).
Parte non piccola della gioventù sbandò verso lo squadrismo, il combattentismo, il diciannovismo.
Nel secondo biennio rosso prese corpo un consistente e autonomo movimento studentesco e giovanile orientato, a differenza del 1919-20, a sinistra, deciso a uscire dalle università e dalle scuole per ricercare l’incontro con i lavoratori; e caratterizzato da un più marcato ed evidente conflitto generazionale che portava linfa e rivendicazioni nuove all’interno della classe operaia, intrecciandosi col fenomeno dell’immigrazione di giovani operai meridionali.

Ora, io credo si possa affermare senza allontanarci dal vero che l’autentico atto di nascita della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” coincide con la riscossa operaia del 1969, dopo circa vent’anni di latenza costituzionale, segnati più dall’anticomunismo che dall’antifascismo.

Chi non ha vissuto quel periodo, un giovane di oggi, faticherebbe non poco – alla luce del presente – a comprendere le dimensioni di quel poderoso sconquasso che fu tale da mettere in discussione rapporti di potere consolidati, a partire dalla fabbrica, e da investire l’intera società, la cultura, la politica e la produzione legislativa lungo quasi un decennio.

L’elemento di svolta fu il contratto nazionale dei metalmeccanici dell’autunno 1969, conquistato dopo uno vero e proprio scontro campale e 300 ore di sciopero.

Si trattò di un’autentica rivoluzione che investì tutti gli aspetti del rapporto di lavoro.

Il pendolo dei rapporti di forza si sposta potentemente:

forti aumenti salariali dopo anni di stagnazione delle retribuzioni;
superamento delle “gabbie salariali”, in ragione delle quali ad eguale prestazione di lavoro nel medesimo settore corrispondevano, territorialmente, diversi livelli retributivi;
inquadramento unico operai-impiegati;
riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali;
diritto alle assemblee retribuite all’interno dei luoghi di lavoro;
elezione dei delegati e la conquista di un monte ore di permessi sindacali retribuiti dall’azienda.

Nel contratto nazionale dei metalmeccanici successivo, quello del ’73, entrerà anche – sotto il titolo “Diritto allo studio” – la previsione di 150 ore retribuite per il completamento degli studi da parte di lavoratori il cui accesso al lavoro sin da giovanissimi aveva impedito di completare la formazione scolastica.

La polemica si snodò lungo tutto l’arco della vertenza contrattuale.
Ci fu un episodio emblematico, quando Felice Mortillaro, direttore di Federmeccanica, nel tentativo di ridicolizzare le posizioni sindacali e dimostrarne l’inconsistenza domandò al tavolo delle trattative se le richieste comprendessero anche il diritto per i lavoratori di studiare il clavicembalo.

Bruno Trentin, allora segretario della Fiom-Cgil, rispose di sì, affermando per questa via il diritto alla piena autodeterminazione dei percorsi culturali e della domanda di apprendimento che ne discendeva.

Il clavicembalo divenne la rappresentazione simbolica dell’affermazione della libertà operaia di decidere della propria cultura, di scegliere e imporre le proprie priorità dentro e fuori la fabbrica, di rompere una soggezione anche culturale, psicologica nei confronti della classe possidente, di sottrarsi ad una condizione deprivata di ogni ambizione che andasse al di là della propria riproduzione sociale, come forza lavoro, consegnata al puro compito di valorizzazione del capitale.

La conquista delle 150 ore si inscrive, dunque, nella strategia di uguaglianza e di unità dei lavoratori che in quegli anni seppe collegare l’egualitarismo salariale alla battaglia per l’inquadramento unico fra operai e impiegati, nell’affermazione di un diritto permanente allo studio come rifiuto della divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, fra la produzione e la scienza.

Il mondo padronale esce tramortito da quell’impetuosa spinta al riscatto collettivo nata sotto l’impulso di una nuova e giovane classe operaia, in gran parte senza storia precedente, emigrata in massa dalle campagne meridionali ed entrata in forze nella fabbrica manifatturiera fordista.

Angelo Costa, storico presidente di Confindustria, dopo la firma del contratto del ’69, vissuta come un’oltraggiosa usurpazione, si dimetterà dal suo incarico sostenendo che il nuovo contratto espropriava gli imprenditori del loro “diritto naturale” a considerare la fabbrica loro proprietà esclusiva, mentre le nuove norme, subite con la forza, li costringevano a finanziare la lotta di classe che veniva portata in “casa loro”.

L’impatto delle lotte operaie investirà tutta la società italiana e condizionerà profondamente la politica e l’attività legislativa per tutta la prima parte degli anni Settanta.

Sono di quel periodo:
lo statuto dei diritti dei lavoratori (1970);
la legge sulle lavoratrici madri (1971);
la legge sul lavoro a domicilio (1973);
la legge sul collocamento degli invalidi (1968).

Nel 1975 viene stipulato l’accordo che fissa il valore della indennità di contingenza (la scala mobile) a 1389 lire a punto, uguali per tutte le categorie e per tutti i lavoratori.

Sono inoltre di quegli anni:
la riforma delle pensioni (il diritto al pensionamento matura a 35 anni con una rendita del 2% per anno calcolato sull’intero montante retributivo);
la riforma della sanità (con la concreta affermazione del diritto universalistico alle prestazioni sanitarie);
la riforma della psichiatria (la “riforma Basaglia”, con l’abolizione dei manicomi);
la riforma della casa (con la legge 167, che afferma il principio del diritto all’abitazione attraverso la costruzione e l’assegnazione di case di edilizia economico-popolare);
nasce il nuovo diritto di famiglia.

Nel 1974 la battaglia sul divorzio si conclude con la vittoria nel referendum abrogativo della legge promosso dai Comitati civici e sostenuto dalla Democrazia cristiana e dalle gerarchie vaticane.

Ma è lo Statuto dei lavoratori che rappresenta una vera cesura d’epoca, una vera e propria rottura di faglia nei rapporti economico-sociali.

Lo Statuto abbatte le barriere di quella “zona franca”, impermeabile alla Costituzione, che fino a quel momento era stata la fabbrica.

Il padrone incontra per la prima volta un limite cogente, di carattere giuridico, al proprio potere indiscriminato.

Con una formula secca: cambiano in Italia e radicalmente i rapporti di forza fra le classi.

Ma il sindacato stesso conosce una trasformazione originale che ne muta profondamente il carattere in senso democratico.

Lo Statuto dei lavoratori appena approvato dal parlamento prevedeva che i poteri di rappresentanza dei lavoratori fossero affidati alle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) nominate dai sindacati maggiormente rappresentativi (Cgil, Cisl, Uil).
L’investitura avveniva dunque dall’alto e dall’esterno.

Ma il movimento si spinge oltre.
L’esperienza dei Consigli di fabbrica muta radicalmente questa impostazione.
Perché sul campo nasce la figura del delegato di reparto o di gruppo omogeneo (una sorta di collegio uninominale), eletto da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati, attraverso un voto su scheda bianca, dove tutti sono dunque elettori ed eleggibili e dove vige la regola della revoca istantanea del mandato ove questa sia richiesta dal 50 per cento +1 dei lavoratori interessati.

Ebbene la novità sta nel fatto che il sindacato decide una cosa assolutamente senza precedenti e cioè di fare cadere su coloro che i lavoratori hanno scelto come propri rappresentanti la nomina di Rsa, munendoli dei poteri formali e sostanziali che la legge assegna alle Rsa.

I consigli dei delegati non sono più soltanto l’espressione diretta dei lavoratori, in una sorta di dualismo di potere: essi diventano il primo livello dell’organizzazione sindacale.

La novità è straordinaria (una volta tanto questo termine non è abusato), perché rappresenta una sintesi originalissima di democrazia diretta e democrazia delegata, dove sono i lavoratori ad avere la prima e l’ultima parola.

Questo intreccio inedito ed unico al mondo fra organizzazione esterna e democrazia di base prelude alla stagione unitaria più feconda del sindacalismo italiano e all’esperienza di unità organica che da lì prenderà le mosse, realizzandosi in modo compiuto, per alcuni anni, con la federazione lavoratori metalmeccanici (Flm).

E’ interessante notare come questa fase di formidabile crescita della democrazia operaia richiami direttamente il biennio rosso 1919-1920 e l’esperienza del gruppo ordinovista di Gramsci, Togliatti e Terracini. E, ancora più indietro nel tempo, come la forma organizzativa dei Consigli si ispirasse, per tanti versi, all’architettura statuale costruita dai rivoluzionari della Comune di Parigi del 1871 ripresa dal Lenin di Stato e rivoluzione.

Ebbene, al punto più alto di questo gigantesco processo di soggettivazione operaia c’è, a mio avviso, la battaglia per la salute in fabbrica, non più delegata al sapere codificato degli “specialisti”, ma assunta in proprio dai lavoratori.

Si tratta della scoperta che l’organizzazione scientifica del lavoro portava, oltre alla fatica muscolare, un nuovo tipo di affaticamento di matrice psichica, la cosiddetta “fatica industriale”, i cui effetti incidevano pesantemente sulla sanità psicofisica dell’uomo, non misurabile con i tradizionali strumenti di rilevazione.

Sul piano scientifico, viene affermandosi il concetto che l’operaio non è soltanto un oggetto della ricerca, ma ne è soggetto, protagonista. Il suo parere diventa non già un’opinabile valutazione da inserire nell’anamnesi, ma un dato scientifico con il quale confrontare gli altri dati rilevabili con diverse metodologie.
Non era più solo il giudizio dell’esperto a stabilire cosa fosse nocivo e cosa no: l’esperienza operaia e il suo racconto diventano un vero e proprio strumento scientifico, un vero e proprio “caposaldo epistemologico”.

La tendenza a chiedere un risarcimento monetario in cambio dei danni subiti dalla salute scaturiva da una riverenza, da una soggezione nei confronti della presunta scientificità di cui il tecnico della salute era portatore.

Al movimento operaio italiano mancava un autonomo punto di vista sulla scienza e sulla tecnologia, ritenuta neutrale e perciò non suscettibile di alcuna modifica.

Ebbene, l’esperienza consiliare recupera interamente Gramsci per ricostruire una “coscienza del produttore” a partire dal gruppo operaio omogeneo e dalla sua capacità di controllare e modificare il processo produttivo: l’elaborazione del “modello sindacale di lotta per la salute” e il valore che in esso era assegnato alla soggettività operaia contribuirono allo sviluppo di un’autonoma capacità di critica e di proposta sull’organizzazione del lavoro.

Parimenti, una leva di medici del lavoro rompe la propria separatezza dal mondo del lavoro, si sente rivalutata nella propria professione e acquista nuova dignità sociale.

L’esperienza consiliare troverà un ulteriore sviluppo, tutto politico, nei Consigli di zona, rete dei consigli di fabbrica operanti in un determinato territorio.

Questa evoluzione, tutta politica, della struttura consiliare, è il risultato della comprensione, che via via si fa strada, che la conquista di un potere negoziale dentro la fabbrica è fondamentale, ma non sufficiente e che ci sono contraddizioni e problemi che possono essere affrontati solo in una dimensione più vasta.

Si sentono qui gli echi di Lenin, che nel “Che fare” sottolineava come la coscienza politica di classe la si conquista oltre il rapporto fra padrone e operaio, perché lì si vedono i rapporti di tutte le classi fra loro, di tutte le classi con lo Stato, con il potere politico e si giunge ad una visione complessiva della società.

Perché ciò avvenga bisogna appunto capire cosa c’è dietro al padrone, come egli organizza il proprio potere e la propria egemonia e comprendere come il padrone sia sostenuto da tutta una struttura sociale, da tutta un’organizzazione politica e statuale.

L’effetto di riverbero delle lotte operaie sull’insieme della società è di assoluta rilevanza.

Strati di intellettuali e di piccola borghesia si separano dalle classi dominanti e si uniscono ad una classe operaia e ad un movimento sindacale di cui si riconoscono autorevolezza e forza egemonica.

Persino la tradizionale fatuità e apoliticità della musica leggera italiana ne viene influenzata. La condizione operaia vi irrompe in un modo prima impensabile, persino al festival di San Remo dove i Giganti cantano Proposta (“Me ciami Brambilla e fu l’operari / lavori la ghisa per pochi denari”…).
Ricordo un convegno che promuovemmo negli anni Ottanta come Camera del lavoro di Brescia, a cui invitammo Giovanni Palombarini, fondatore di Magistratura democratica, a parlare di lavoro e Costituzione.

Palombarini ci disse che non si aveva ancora chiara percezione di quale impatto avesse avuto, su una nuova generazione di magistrati, l’irruzione sulla scena sociale e politica italiana del movimento operaio; e di quanto questa nuova leva di giuristi abbia imparato a rileggere la Costituzione con le lenti dello Statuto dei lavoratori, assimilandone non solo la lettera e la norma, ma anche la cultura, profondamente diversa da quella pre-esistente.

Nasce così il Nuovo processo del lavoro e le stesse aule di tribunale che ci vedevano sistematicamente sconfitti nelle cause di lavoro smettono di diventare per i lavoratori luoghi ostili: si comincia a vincere anche nel contenzioso giudiziario.

Il comportamento antisindacale (punito dall’articolo 28 dello Statuto) viene prontamente applicato, la violazione dell’ordine pretorile diventa un reato da codice penale che prevede (cosa inaudita) fino all’arresto.

La reintegrazione nel posto di lavoro ove il licenziamento del lavoratore sia intervenuto senza “giusta causa o giustificato motivo” (articolo 18) sancisce che il padrone non può ledere la dignità del suo prestatore d’opera perché il lavoro – come dice la Costituzione -non è solo il corrispettivo della retribuzione, ma è anche “elemento costitutivo della personalità umana”.

Di più. Nel giuslavorismo di nuovo conio, figlio di questa eccezionale stagione di sommovimento sociale, prende corpo un concetto giuridico di fondamentale importanza: quello in base al quale la legge deve compensare l’oggettiva asimmetria di forze che si stabilisce nel rapporto di lavoro fra datore di lavoro e prestatore d’opera.
E lo deve fare, precisamente, affermando l’indisponibilità individuale del contratto collettivo di lavoro, cioè la sua inderogabilità.
E ciò in quanto “bisogna difendere la parte più debole (il lavoratore) dalla sua stessa debolezza che potrebbe indurla a rinunzie sostanziali perché subite in una condizione di oggettivo ricatto, di oggettiva soggezione”.

Mai come in questo periodo il Paese viene a somigliare con i tratti, i principi, il dettato della sua carta costituzionale.
E ciò avviene proprio in forza di quella soggettività, di quel protagonismo sociale e politico del lavoro che incarna e invera il concetto di democrazia progressiva.

E’ noto che il Partito comunista italiano pronunciò un voto di astensione sulla legge 300/70, lo Statuto dei lavoratori.

E ciò per due motivi, che bene illustrò al gruppo comunista alla Camera Fernando Di Giulio: a) perché dal campo di applicazione della legge erano escluse le aziende con meno di 16 dipendenti e, b) perché le regole relative alla rappresentanza erano in via esclusiva attribuite ai sindacati maggiormente rappresentativi, vale a dire a Cgil, Cisl e Uil, configurando una sorta di monopolio della rappresentanza che ledeva (e ancora lede) il diritto delle minoranze.

Ora, il tema del rapporto fra il Pci e questo movimento è complesso e tutt’altro che univoco.

Il quadro comunista di fabbrica, l’operaio specializzato, membro di commissione interna, duro, sperimentato, disciplinato, capace di resistere negli anni alla più aspra repressione è una figura molto diversa dal giovane operaio manuale, con scarsa o nessuna professionalità catapultato nella fabbrica fordista, senza storia sindacale metabolizzata, insofferente alla disciplina sindacale e al lavoro ripetitivo della catena di montaggio, ostile verso la gerarchia aziendale e refrattario alle regole del conflitto negoziale tra sindacato e padroni.

Eppure sarà questa nuova classe operaia a segnare di sé la riscossa operaia dei primi anni Settanta e a garantire buona parte dello straordinario successo elettorale del Pci del 1975 e del 1976.

L’atteggiamento del Pci nei confronti di questa nuova classe operaia è all’inizio di diffidenza.

Ma c’è qualcosa di più profondo.

Una parte assai autorevole ed influente del partito era preoccupata di vedere invaso dal sindacato il suo campo d’azione.
E diffidava – in qualche caso era attivamente ostile – nei confronti dei nuovi esperimenti di democrazia operaia che apparivano venati di pansindacalismo, di assemblearismo, di primitivismo politico.

C’è – a questo riguardo – una eloquente testimonianza di Bruno Trentin (1999):

“Ricordo bene una riunione di partito tenutasi a Frattocchie nell’aprile del 1970, in buona sostanza per mettere sotto processo la decisione della Fiom di assumere i consigli come la struttura unitaria di base del sindacato nei luoghi di lavoro (…) l’attacco fu subito esplicito con gli interventi di Giorgio Amendola e, successivamente, di Agostino Novella, che aveva da poco lasciato la guida della Cgil.
Gli argomenti invocati (…) furono diversi: non si poteva buttare a mare l’esperienza gloriosa delle commissioni interne per sostituirla con forme effimere e improvvisate di rappresentanza dei lavoratori, che sarebbero certamente scomparse con l’esaurimento della “sbornia” dell’autunno caldo. Anche se già a quell’epoca il numero dei consigli eletti dai metalmeccanici superava e di molto, il numero delle commissioni interne nei momenti della loro massima espansione”.

Trentin proseguiva spiegando che il partito accusava i nuovi vertici sindacali di avere “una concezione del sindacato che finiva per mettere in questione la sacra divisione del lavoro fra l’azione politica e l’azione sociale, fra l’azione necessariamente corporativa, subalterna, del sindacato, e il monopolio dell’azione politica che doveva essere riconosciuto al partito”.

L’ostilità o la diffidenza non erano, tuttavia, di tutto il partito. Intanto perché gli stessi massimi dirigenti della Cgil erano quasi tutti comunisti, con un legame certo non tenue con la “casa madre”. E poi perché le posizioni erano nel Pci molto più articolate.

Già nel ’56 sulle pagine torinesi dell’Unità si era sviluppato un interessante dibattito sulla proposta di Adalberto Minucci di ridare vita ai “delegati di reparto” nelle grandi fabbriche, come via decisiva per uscire dalle gravissime difficoltà seguite alla sconfitta della Fiom nelle elezioni delle commissioni interne alla Fiat. Una discussione a cui prese parte un pezzo rilevante del gruppo dirigente comunista (Luciano Barca, Luciano Gruppi, Antonio Giolitti, Sergio Garavini, Aris Accornero, ecc.).

Del resto, al centro della storia e della nascita di delegati e consigli di fabbrica c’è un’ispirazione politica profonda: quella della riconquista dell’unità sindacale, della “rifondazione dal basso” dell’unità sindacale che nella storia della Cgil vide un suo convinto alfiere e assertore proprio in Giuseppe Di Vittorio.

Pietro Ingrao, contro le tesi di Amendola, affrontava il tema spinoso in un lungo articolo apparso su Rinascita nel 1975, dove osservava, da un lato, che “nel ritorno di pansindacalismo convergevano (e a volte si intrecciavano) un operaismo palingenetico di ‘sinistra’ che, riscoprendo la fabbrica, riteneva di risolvere là dentro il problema della rivoluzione e del potere, e un interclassismo corporativo che, mischiando dottrine anglosassoni e sociologia cattolica, puntava ad una liquidazione della democrazia rappresentativa a favore di un rapporto ‘a tre’: sindacati, imprenditori, Stato”; ma dall’altro, sottolineava che “le esperienze della lotta di questi anni ci hanno mostrato che questo ruolo del sindacato oggi non può ricavarsi da una delimitazione dell’area di intervento (solo il salario, solo la fabbrica, ecc.), e cioè da una soglia oltre la quale il sindacato non va e al di là della quale comincia il partito politico”.

In sostanza, Ingrao sottolineava che “dove il partito politico operaio si dà un orizzonte che scavalca la generazione attuale, e assume la classe come agente di un rivolgimento storico, il sindacato afferma continuamente la necessità di non smarrire l’oggi.
Che il problema di una tale dialettica fra sindacato e partito sia reale lo conferma – continuava Ingrao – l’esperienza di quei paesi socialisti in cui la riduzione del sindacato ad organo meramente sussidiario del potere politico ha offuscato un momento necessario all’interno delle istituzioni e del movimento popolare, e in questo modo ha tolto qualche cosa di importante anche al potere politico; e di fatti lo ha privato dell’esistenza di un segnale autonomo che continuamente esprima il grado di tensione che si determina tra i bisogni attuali dei lavoratori e i fini storici della classe”.

E’ sorprendente ritornare ad alcune letture del Marx politico e vedere come la sua concezione del sindacato era molto più vicina alla concezione che si affermò in Italia nel movimento operaio degli anni Settanta piuttosto che a quella che è stata nella tradizione del movimento socialista della seconda e della terza internazionale.

“Mai – scriveva Marx – i sindacati devono essere collegati a qualsiasi associazione politica o posti sotto la sua dipendenza, se vogliono compiere il compito che è loro: farlo significherebbe portare un colpo mortale al socialismo. Tutti i partiti politici quali che siano entusiasmano le masse operaie per un certo tempo, i sindacati per contro organizzano tutte le masse in modo durevole, solo essi sono capaci di rappresentare un partito operaio che si oppone giorno per giorno alla potenza del capitale”.

Qui è evidente la polemica di Marx contro il lassallismo, tuttavia nella concezione di Marx è assolutamente estranea la scissione fra azione sindacale e azione politica.
C’è in lui la comprensione che il momento immediatamente salariale nell’azione di classe è una fase ancora del tutto primordiale e come tale non sfocia in azione politica; ma c’è la coscienza che, anche attraverso queste forme primordiali di lotta di classe, il movimento di classe non potrà non trasformarsi in un fatto politico, nella misura in cui pone un problema di potere di fronte al capitale.

Insomma, ogni volta che un movimento di classe si oppone in quanto classe alla classe dirigente, e cerca di piegarla con un’azione esterna, questa è un’azione politica.
In questo senso, per Marx, ogni lotta di classe è una lotta politica.

Ma, reciprocamente, è vero anche il contrario, perché in certi momenti noi abbiamo visto partiti socialisti o comunisti, o anche di interclassismo cattolico, assumersi compiti di surroga sindacale dove il sindacato era debole oppure mancava.
Oppure dove, come in Italia lungo il periodo che va dalla seconda metà degli anni Settanta ai primi anni Ottanta, si aprì un durissimo conflitto fra la Cgil di Luciano Lama e il Partito comunista guidato da Enrico Berlinguer.

All’opposto di ciò che si è affermato, questo scontro non aveva alla sua base l’urgenza di Berlinguer di ripristinare la cinghia di trasmissione, di tornare ad affermare la primazia del partito rispetto al sindacato, o di recuperare l’autorità del partito logoratasi negli anni della solidarietà nazionale.

Alla radice di quell’asprissimo conflitto vi era un profondissimo dissenso di merito intorno alla natura dello scontro di classe aperto nel paese.
Un dissenso che attraversava tanto il sindacato quanto il partito.

Ora, qui è indispensabile una digressione.
Nella storiografia comunista si è spesso parlato di “due Berlinguer”, quello del ‘compromesso storico’ e quello che – giunta su un binario morto la fase della ‘solidarietà nazionale’ – rompe duramente con la Dc e imprime al Pci una netta svolta a sinistra.

Chi vi parla pensa che questa lettura soffra di schematismo manicheo.
Certo vi fu una cesura – e assai netta – fra le due stagioni politiche. Ma al centro della riflessione politica e teorica di Berlinguer vi fu, nell’una come nell’altra, la scelta di quella che egli riteneva la strada migliore e la più produttiva per la trasformazione dell’ordine di cose esistente, in direzione del socialismo.
E quando egli si accorse che la strategia del ‘compromesso storico’ portava in un cul de sac fu proprio lui il critico più severo di se stesso e di quella linea politica.

L’errore fu quello di ritenere possibile, per così dire, una “costituzionalizzazione”, una democratizzazione della Dc, una riconduzione di essa ad un libero gioco democratico, sopravvalutando il ruolo che in quel partito potesse (volesse) svolgere Aldo Moro.
Poco dopo la sua tragica scomparsa si sarebbe visto quanto quella di Moro fosse nella Dc una posizione minoritaria.

Errore ancor più serio fu quello di ritenere possibile un affrancamento della borghesia industriale italiana dal proprio tendenziale sovversivismo, dalla propria inclinazione reazionaria, tante volte affiorata nella storia del paese e della stessa Italia repubblicana.
L’illusione fu quella di poterla piegare ad un compromesso stabile, tale da rendere definitive e consolidate le conquiste sociali e di potere realizzate nel decennio precedente dalla classe operaia: conquiste che, al contrario, il grande padronato stava duramente mettendo in discussione, nel quadro di un pesante processo di ristrutturazione dei processi produttivi la cui portata fu del tutto sottovalutata.

Errori che Berlinguer riconobbe esplicitamente, assumendosene la responsabilità, senza sconti per se stesso.
Così si esprimerà, nel 1981, in un’intervista ad Eugenio Scalfari:
“Durante i governi di unità nazionale, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo avevamo perso il rapporto continuo e diretto con le masse”.

E qui vive un’esplicita allusione al modo distorto con cui una parte non piccola del gruppo dirigente comunista interpretò la linea del ‘compromesso storico’, depotenziandola del suo contenuto innovatore per riproporla come puro accordo di governo, in termini emendativi dei rapporti sociali esistenti. Linea che nella versione sindacale fu tradotta nella ‘politica dei sacrifici’.

“Ce ne siamo resi conto in tempo – continuava Berlinguer in quell’intervista – Posso assicurarle che un’esperienza del genere non la ripeteremo mai più (…)”.

La svolta impressa da Berlinguer è nettissima, ma trova tanto nel partito quanto in parte rilevante del gruppo dirigente della Cgil un dissenso ed un’opposizione molto forti.

Si trattava di uno strattone anche per il sindacato, e a Lama in particolare, con il quale l’area di dissenso era venuta via via allargandosi, in particolare da quando, nel gennaio del ’78, il segretario della Cgil aveva dichiarato, in un’intervista a Eugenio Scalfari, apparsa su La Repubblica che
“se vogliamo essere coerenti con l’obiettivo di fare diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli occupati deve passare in seconda linea (…)”. E ancora: “Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive”.

E infine:
“Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti (…) e che la forza lavoro è divenuta pur essa una variabile indipendente (…). Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza”.

Lo strappo è fortissimo, la reazione di Berlinguer è gelida, come racconta lo stesso Lama in una lunga intervista a Giampaolo Pansa del 1987 (Intervista sul mio partito, Laterza), dove l’ex segretario della Cgil raccontata senza veli la dimensione tutta politica di un dissenso radicale che assumerà i tratti di una vera rottura che coinvolgerà, in dimensioni e qualità crescenti, l’insieme del gruppo dirigente del Pci.

Di questa rotta di collisione sono emblematica espressione due vicende, entrambe legate al rapporto con la classe operaia e alla questione che per Berlinguer rimane sempre decisiva della rappresentanza sociale e del rapporto stringente fra questa e ogni possibilità trasformativa della società italiana.

La prima risale al 1980, quando la Fiat decide di dare uno strappo netto e ingaggia una prova di forza, intimando 14 mila licenziamenti. Gli operai avevano reagito bloccando la produzione e presidiando i cancelli degli stabilimenti per 35 giorni.
Berlinguer entra subito in campo e dal comizio conclusivo della festa nazionale de l’Unità invita governo azienda e sindacati a trasferirsi a Torino, per trattare davanti agli operai, perché la trattativa non si svolgesse lontano e “all’oscuro dei lavoratori”.
Il richiamo, esplicitamente polemico nei confronti del sindacato, era alla trattativa in corso ai cantieri di Danzica, in Polonia, dove “gli altoparlanti trasmettevano le cose che gli attori della trattativa si dicevano”.

Così Berlinguer compie un gesto clamoroso: va davanti ai cancelli della Fiat, a Mirafiori, a Rivalta al Lingotto, alla Lancia di Chivasso accolto ovunque da una folla enorme di operai.
Qui, interrogato da un lavoratore che gli rivolge l’esplicita domanda su cosa il Pci avrebbe fatto qualora gli operai avessero occupato gli stabilimenti, Berlinguer risponde che “se si dovrà giungere a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”.

Berlinguer voleva che il Pci si riappropriasse pienamente della rappresentanza di classe, colmando lo iato che si era creato negli anni della solidarietà nazionale tra la politica istituzionale del partito e la realtà sociale che voleva rappresentare. Per questo, anche se gli operai rischiavano seriamente una sconfitta, il Pci doveva essere al loro fianco.

Ma il sindacato aveva già deciso e subito dopo la cosiddetta marcia dei 40 mila, la capitolazione fu senza condizioni, l’accordo che poneva in cassa integrazione a zero ore 24 mila lavoratori, una sorta di prelicenziamento, fu stilato sotto dettatura dell’amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, malgrado l’aperto dissenso delle assemblee dei lavoratori, con un vulnus democratico che sarebbe stato gravido di conseguenze per il futuro.

Berlinguer fu duramente criticato – da Lama e dalla destra del partito – per questo suo gesto, giudicato, per il merito e per il metodo, un’invasione di campo, un’esplicita revoca della delega che il partito aveva dato ai comunisti del sindacato.
Tesi priva di realtà, perché Berlinguer credeva fermamente tanto nell’unità quanto nell’autonomia del sindacato, ma proprio per questo rivendicava anche l’autonomia del partito e il suo ruolo di rappresentanza politica della classe operaia.

Altri sostennero a quel tempo che il capo del Pci fece male a sovraesporsi in uno scontro sociale a forte rischio di insuccesso. Ma – come ricordò più avanti nel tempo Mario Tronti – “la figura di un politico non si giudica soltanto dall’esito provvisorio delle sue battaglie, ma anche dalla scelta delle battaglie, dalle intenzioni, dall’etica della responsabilità, con cui arriva ad assumere in proprio un’occasione di lotta”. E poi – aggiungeva – “non sono giuste soltanto le battaglie che si vincono. Alcune di queste, anche se perdute, in quanto giuste, servono a mettere un germe per il futuro, ad impedire che la sconfitta si tramuti in una disfatta. Anche Marx sapeva che la Comune di Parigi, con il suo enorme carico di novità, poteva andare incontro ad una tragica sconfitta. E prima che la lotta iniziasse invitò alla prudenza. Ma quando la lotta ebbe inizio, allora non manifestò più esitazioni e fu dalla parte dei comunardi, che “vollero scalare il cielo”.
Senza la follia di quel tentativo – concludeva Tronti – mancherebbe una pagina straordinaria nella nostra storia.

Ebbene, in Berlinguer agisce robustissima la convinzione che c’è una cosa che i comunisti non possono mai fare: dividersi dagli operai, dai lavoratori, senza i quali qualunque impresa diventa velleitaria, impossibile.

Di questa convinzione egli diede prova sin dal ’56, quando il gruppo dirigente del Pci mise sotto accusa Giuseppe Di Vittorio che aveva condannato l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss e il solo Berlinguer, il più giovane membro della Direzione, si alzò a difendere il segretario della Cgil il quale aveva sostenuto che non è accettabile che un paese socialista mandi l’esercito a sparare sugli operai in rivolta.

Non si trattò, dunque, davanti ai cancelli della Fiat, di un’operazione di puro posizionamento, quasi disperato, in un momento di presunta afasia strategica e di ripiegamento del partito su se stesso dopo la sconfitta della ‘strada maestra’, quella del ‘compromesso storico’, ma di una convinzione profonda che in ogni stagione politica Berlinguer seppe sempre tenere ferma.

La seconda vicenda risale a due anni dopo, nel 1982, quando il governo presieduto da Bettino Craxi decise di tagliare quattro punti di scala mobile.
Cisl e Uil avevano già firmato l’accordo e la Cgil era spaccata e molto incerta (a volersi esprimere con un eufemismo) nella stessa leadership di Lama, ma Berlinguer metterà in campo tutta la forza del Pci per contrastare quella che riteneva non soltanto una plateale ingiustizia, ma anche un attacco politico alla classe operaia e allo stesso sindacato.

Dirà Berlinguer:
”Non si può dimenticare che la difesa del potere d’acquisto dei salari, e soprattutto di quelli più bassi, per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe; e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo modello di sviluppo generale dell’economia italiana (…). Occorre essere consapevoli che l’attacco alla scala mobile è un aspetto dell’offensiva che tende a scaricare sulla classe operaia tutto il peso della crisi, non solo riducendo la sua quota di reddito, ma colpendo il suo potere contrattuale, quindi il suo peso sociale, e perciò, in definitiva, la possibilità di esercitare la sua funzione politica dirigente nazionale. Ecco perché abbiamo detto che la posta dello scontro in atto è altissima: perché è anche politica”.

E’ a tutti noto come andò a finire: il referendum voluto da Berlinguer e tenutosi dopo la sua morte si svolse nell’ostilità di una parte dei gruppi dirigenti della Cgil e dello stesso Pci. Si può dire che lo si volle perdere. Malgrado ciò i “Sì” all’abrogazione del taglio raggiunsero il 46 per cento dei voti.

Ancora più complesso il rapporto del Pci col movimento studentesco.
Movimento che alla sua origine si caratterizza come critica al funzionamento del sistema universitario che preclude il “diritto allo studio” (irrazionale distribuzione delle sedi sul territorio, carenze nelle strutture e nelle attrezzature didattiche, insufficienza degli alloggi per gli studenti) per spostarsi poi sugli aspetti qualitativi legati alla funzione dell’istruzione secondaria e universitaria nella società: riproduzione classista dei ruoli sociali, strumento di manipolazione ideologica e politica teso ad instillare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere in genere e a cancellare in ciascun individuo la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere con il prossimo dei rapporti che non siano puramente di carattere competitivo.

Sarà Luigi Longo a rovesciare la diffidenza iniziale del Pci verso un movimento di cui si fatica a cogliere la novità culturale, politica e generazionale, letto come un’insorgenza piccolo borghese, del tutto estranea alla lotta di classe e a rivalutarne il carattere di forte e autentica contestazione dell’ordine di cose esistente, di forza potenzialmente alleata della classe operaia.

Nel 1969 fu eletto vice-segretario del Pci Enrico Berlinguer, e da subito fu chiara – come ricorda Guido Liguori – la sua formulazione della rivoluzione come processo, con la concezione della conquista del potere in termini di egemonia.

Così Berlinguer:

“Abbiamo detto più volte che, nella nostra concezione, non è il partito che conquista il potere, ma un blocco di forze politiche e sociali diverse, di cui il partito è parte, e che bisogna procedere, già d’ora, passo a passo, alla costruzione di questo blocco storico, affermando nel suo seno l’egemonia della classe operaia. La strategia delle riforme è quindi essenzialmente una strategia delle alleanze, che in definitiva è stato sempre e resta il problema centrale di ogni processo rivoluzionario. Ciò che importa (…) è il processo complessivo reale, è il concepire la lotta per il socialismo come avanzata non lineare, ma assai complessa, aspra e articolata, dei gruppi sociali progressivi e della loro unità (…) e di uno sviluppo conseguente della democrazia. La cornice, il quadro in cui collochiamo tutto questo, è quella che chiamiamo una via democratica, cioè una via di grandi lotte sociali e politiche e di una conseguente difesa ed attuazione dei principi e del sistema politico delineato nella Costituzione repubblicana”.

Come osserva ancora Liguori, “Berlinguer si inseriva nella tradizione teorico-politica del comunismo italiano, cercando di coniugarla con i soggetti che portavano avanti lotte di cui veniva enfatizzata la valenza anticapitalistica e la capacità di mettere in crisi gli assetti politico-sociali (“La lotta sociale tende a radicalizzarsi e questo è l’elemento dominante, e il più positivo, di tutta l’attuale situazione”), ma anche il punto di novità qualitativa che rappresentavano e che portava Berlinguer a sostenere che “momenti di coscienza socialista fra le masse nascono oggi non solo perché portati dall’esterno, dal partito, in seguito a movimenti nati per rivendicazioni immediate”.

Come si vede, una posizione profondamente diversa da quella della destra che si risolveva in una sorta di condanna del movimento per “ipostasia”.

Negli anni Settanta, progressivamente, il carattere del movimento cambia, conosce un’estrema politicizzazione e si frammenta nei gruppi della “Nuova sinistra”.

Il giudizio sull’ordine di cose esistente è molto netto: nulla, tanto nella scuola quanto nella società, è riformabile, per cui ogni azione innovativa si infrange fatalmente contro un mondo ormai chiuso, nel quale i giochi sono già fatti”.

I referenti culturali saranno nel tempo i più disparati: dall’Herbert Marcuse de L’uomo a una dimensione a Malcom X, da Lenin a Mao Tse Tung, fino alla contaminazione col filone contestativo di aree cattoliche influenzate da un libro come Lettera ad una professoressa di don Milani.

Anche l’icona di Stalin, persecutore duro ed inflessibile di ogni nemico di classe, ovunque esso si annidi, entra nella cifra culturale, la più dogmatica, di una parte dei movimenti.

E, prima di tutto, Marx.
Il Marx che piaceva agli attivisti dei movimenti era il Marx critico intransigente della società borghese e apologeta della necessità di trasformarla ab imis fondamentis, contro la cultura marxista ufficiale, vista come una mistica dei fini, che si traduceva nella pratica in una catena di compromessi e di tradimenti.

La rivoluzione era senz’altro un forte elemento di identità ideologica, aveva la forza di suggestione di un grande mito, ma non era affatto intesa nel senso leninista del termine, cioè come evento risolutore di una crisi politico-istituzionale, come conquista del “potere”.

La politicizzazione estrema dei movimenti, per cui tutto era politico e tutto andava letto in termini di rapporti di potere, spiega anche la difficoltà a mettere capo a una concezione organica di rivoluzione.

Negata la via della “presa” del potere, non restava che declinare il tema della rivoluzione come destrutturazione permanente dei rapporti sociali di cui il potere era espressione.

L’idea di rivoluzione, che stava al centro del loro discorso politico, finiva inevitabilmente per risolversi in un’apologia del movimento perenne, della “lotta continua”, di una sorta di “azionismo” di massa, incapace di indicare tappe e obiettivi concreti della prassi rivoluzionaria.

Sicché, a ben vedere, movimenti sociali e rivoluzione diventavano una coppia concettuale inscindibile: se c’erano i primi, in qualche modo era in atto la seconda.
Come e quando si sarebbe conclusa, a quale forma delle relazioni sociali avrebbe messo capo, e via dicendo, restava del tutto misterioso, lasciando quasi intendere che ciò che veramente contava erano il movimento e le lotte, non gli obiettivi finali: una sorta di revisionismo bernsteiniano, rovesciato di segno.

La radicalità assoluta, intesa come rifiuto di ogni mediazione istituzionale, l’irrisione del valore del lavoro quale fondamento della società e dell’emancipazione umana, l’attacco alla democrazia politica in quanto truffa o mistificazione non potevano che apparire al Pci, nella migliore delle ipotesi, come manifestazioni di infantilismo, se non addirittura come una nuova versione dell’avanguardismo e dell’irrazionalismo che cinquant’anni prima avevano prodotto i fascismi europei.

La strategia del “compromesso storico” verrà vista dal movimento del ’77 come la prova-provata della irriformabilità del sistema e il Pci indicato come il nemico da colpire perché responsabile dell’irretimento ideologico e della capitolazione del movimento operaio.

Un pezzo di quel movimento confluirà non a caso nella lotta armata.

Berlinguer, soprattutto nell’ultima sua stagione politica, fa segnare un’altra innovazione profonda, in seguito smarritasi, nella concezione comunista della questione di genere e nel rapporto con il movimento femminista, a cui Berlinguer riconosce un merito straordinario: quello di avere insegnato che “nella società capitalistica, insieme con l’oppressione di classe, si prolunga in nuove forme la più antica soggezione imposta alle donne: quella nei confronti dell’uomo”.

Berlinguer liquida cioè la concezione – che fu anche sua durante la battaglia per il divorzio – secondo cui la liberazione della donna era questione sovrastrutturale, cioè “minore”, secondaria e subordinata alla rivoluzione sociale.

Nell’evoluzione del suo pensiero si coglie un aspetto particolarmente significativo: il superamento del concetto di emancipazione inteso come conquista dell’uguaglianza con l’uomo, un tema che in un certo senso – sosteneva Berlinguer – ha come termine di riferimento le conquiste maschili, mentre “il tema della liberazione comprende, certo, ma anche supera quello dell’emancipazione”.

“I comunisti conseguenti,– disse alla VII conferenza delle donne comuniste – in quanto rivoluzionari e perciò fautori della fine di ogni forma di oppressione, devono superare quegli orientamenti culturali, quegli atteggiamenti mentali e pratici, quelle abitudini che sono proprie di una società e di una cultura e quindi anche di un modo di fare politica, costruiti secondo l’impronta maschilista, in nome di una pretesa supremazia dell’uomo sulla donna e delle concezioni che ne sono derivate”.

Insomma, “non soltanto il proletariato, ma anche la donna, liberando se stessa contribuisce a liberare tutta l’umanità”. E dunque anche l’universo maschile.

E’ noto come la vicenda sociale e politica del Paese si sviluppò negli anni seguenti. E come la morte di Berlinguer segnò per rapide fasi successive la trasformazione prima e la cancellazione poi del Partito comunista e di un’intera cultura politica, sino alla miserabile deriva del tempo presente.

Non è tuttavia compito di questa trattazione indagare attraverso quali tappe, snodi fondamentali, concatenazione di eventi successivi si siano così radicalmente rovesciati i rapporti fra le classi, come il più grande e originale movimento operaio europeo si sia ridotto all’irrilevanza, come di un’intera cultura operaia, classista, antagonista, portatrice di un punto di vista radicalmente opposto all’ordine di cose esistente, e resasi egemone per almeno un decennio nella società italiana sia quasi scomparsa ogni traccia.

Non potevamo qui tirare tutti i fili di un argomento così complesso, basti qui avere ricostruito alcune tracce per capire dentro quale scontro politico, dentro quali scelte si produssero gli eventi, politici e sociali, che
nel loro insieme hanno prodotto lo stato di cose presente.
E, forse, anche per comprendere come e da dove sia possibile riprendere il cammino.

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