di Dino Greco –

Gramsci (nel ’18 aveva 27 anni) capisce che la Rivoluzione d’Ottobre manda per aria gli schemi evoluzionistici della Seconda Internazionale, autodistruttasi dopo il voto sui crediti di guerra.

Gramsci comprende cioè che la Rivoluzione russa dà un rilievo cruciale al momento soggettivo, all’iniziativa politica, contrariamente alle attese “crolliste” e al meccanicismo delle socialdemocrazie occidentali.

Scrive sul Grido del popolo, il 12 gennaio 1918:
“I fatti hanno superato le ideologie; i fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici secondo i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico”.

Gramsci si riferisce in realtà al marxismo irrigidito, schematizzato, dogmatizzato delle Seconda internazionale.

Così prosegue Gramsci:
“I Bolscevichi rinnegano Karl Marx. Affermano, con la testimonianza dell’azione esplicita e delle conquiste realizzate che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato”.

Gramsci ha a quel tempo una conoscenza molto relativa del pensiero di Marx ed anche della rivoluzione russa e del pensiero di Lenin. Più avanti Gramsci dirà di sé che a quel tempo era ancora incrostato di crocianesimo: la posizione soggettivistica è qui evidente, i giudizi sono acerbi, ma la sostanza è che Gramsci ha capito come la rivoluzione russa sia la critica vivente di una falsa interpretazione del pensiero di Marx e che sia necessario riaffermare la funzione del soggetto rivoluzionario contro una concezione deterministica ed economicistica.

Bisogna soprattutto tenere presente che il bersaglio polemico contro cui Gramsci si rivolge è l’opportunismo del Partito socialista italiano.

Dal Grido del popolo:
“Il nullismo opportunista e riformista che ha dominato il Partito socialista italiano per decine e decine di anni, e oggi irride con lo scetticismo beffardo della senilità agli sforzi della nuova generazione e al tumulto di passioni suscitate dalla rivoluzione bolscevica, dovrebbe fare un piccolo esame di coscienza sulle sue responsabilità e sulla sua incapacità a studiare, a comprendere, a svolgere un’azione educativa. Noi giovani dobbiamo rinnegare questi uomini del passato: quale legame esiste tra noi e loro? Quale ricordo di amore e di gratitudine per averci aperto e illuminato la via della ricerca e dello studio, per aver creato le condizioni di un nostro progresso, di un nostro balzo in avanti? Tutto abbiamo dovuto creare da noi, con le nostre forze e con la nostra pazienza: la generazione attuale italiana è figlia di se stessa; non ha il diritto di irridere ai suoi errori e ai suoi sforzi chi non ha lavorato, chi non ha prodotto, chi non le può lasciare nessun’altra eredità che non sia una mediocre raccolta di mediocri articolucci da giornale quotidiano”.

Sulla base di questa riflessione Gramsci si orienta nella crisi italiana del dopo-guerra: egli si persuade che la classe operaia si trova in una condizione di ribellione verso il potere capitalistico, ma manca il partito rivoluzionario capace di cogliere le opportunità che la situazione oggettiva offre.

“Esiste in Italia qualcosa – si chiede – che possa essere paragonato ai soviet? Qualcosa che autorizzi ad affermare che il soviet è una forma universale e non un istituto solamente russo? Esiste un germe, un embrione di soviet in Italia?”
La risposta di Gramsci è “Sì, esiste, A Torino, è la commissione interna”.

Le commissioni interne erano nate come strumenti di collaborazione fra padroni e operai e solo successivamente diverranno strumenti di organizzazione e di lotta.

Dice Gramsci:
“Studiamo questa istituzione operaia, studiamo la fabbrica capitalistica come forma necessaria della classe operaia, come territorio nazionale dell’autogoverno operaio”.

Avviene qui la rottura, nell’Ordine nuovo, fra Gramsci, Togliatti, Terracini e Angelo Tasca (“Ordimmo – scriverà Gramsci – un vero colpo di stato redazionale).
Tasca vedeva nel giornale uno strumento per organizzare una corrente di sinistra nel Psi, quindi un organo che si muoveva nell’ambito del partito, senza stabilire un rapporto reale, profondo, con il movimento operaio.
Per Gramsci, l’Ordine nuovo deve diventare l’organo dei Consigli di fabbrica, deve cioè portare a chiarezza teorica e culturale l’esperienza di lotta degli operai.
Scriverà più tardi:
“L’Ordine nuovo divenne per noi e per quanti ci seguivano ‘il giornale dei consigli di fabbrica’. Gli operai amarono l’Ordine nuovo (questo possiamo affermarlo con intima soddisfazione). E perché gli operai amarono l’Ordine nuovo? Perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli de l’Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore. ‘Come possiamo diventare liberi? Come possiamo diventare noi stessi?’ Perché gli articoli de l’Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali della classe operaia torinese, che erano state da noi saggiate e provocate, perché gli articoli de l’Ordine nuovo erano quasi un ‘prendere atto’ di avvenimenti reali, visti come momenti di un processo di intima liberazione e espressione di se stessa da parte della classe operaia. Ecco perché gli operai amarono l’Ordine nuovo ed ecco come si ‘formò’ l’idea de l’Ordine nuovo”.

Oggi le commissioni interne limitano il potere del capitalista nella fabbrica e svolgono una funzione di arbitrato e di disciplina: “sviluppate ed arricchite dovranno essere domani gli organi del potere proletario, che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni di direzione e di amministrazione”.

Vedere Gramsci e la ‘dialettica servo-signore’ (Hegel ne La filosofia dello spirito, ripresa da Marx nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico).

Il consiglio di fabbrica come momento di rigenerazione del sindacato e del partito stesso, dominato dalla destra socialista.

Lo scontro con Bordiga: questi pensa che non si può parlare di potere aziendale, perché non ha senso parlare di potere al di fuori del potere statale. Questa sembra una posizione più ortodossa, più rigorosamente marxiana, ma a Bordiga sfugge ciò che per Marx è essenziale: egli non vede che la conquista del potere non può essere altro che il risultato della lotta, dell’unificazione della classe operaia e di forze sociali attorno al proletariato. La conquista del potere deve cioè maturarsi e cominciare dentro la fabbrica, perché lì avviene il processo di gestazione e di incubazione della coscienza politica di classe.
Quello che Gramsci possiede è appunto il senso del processo.

E’ aperta la discussione se a quel tempo non fosse presente in Gramsci un certo abbandono allo spontaneismo del movimento o, per lo meno, una certa sottovalutazione del ruolo del partito.

Certo, nel ’19-’20 Gramsci non possiede ancora la lezione leninista del partito. L’acquisirà pienamente più avanti, durante il lungo soggiorno in Russia, fra il ’22 e il ’23, quando il II congresso del PCdI deciderà di inviarlo a Mosca come rappresentante del partito nell’Internazionale comunista.
Qui avrà modo di parlare con tutti i maggiori dirigenti del partito bolscevico, soprattutto con Lenin, parteciperà al IV congresso dell’Internazionale e al terzo esecutivo allargato che condannerà la linea di Bordiga.

Tuttavia, la critica al Psi contiene, in nuce, i compiti di un partito della classe.
Egli scrive:
“In verità, il partito socialista italiano, per le sue tradizioni, per l’origine storica delle varie correnti che lo costituiscono, per il patto di alleanza con la Confederazione generale del lavoro, non differisce per nulla dal Labour party inglese ed è rivoluzionario solo per le affermazioni generali del suo programma. Esso è un conglomerato di partiti. Si muove, e non può non muoversi, pigramente e tardamente; è esposto a divenire continuamente il facile paese di conquista di avventurieri, di carrieristi, di ambiziosi. Per la sua eterogeneità, per gli attriti innumerevoli dei suoi ingranaggi, non è mai in grado di assumersi il peso e la responsabilità delle iniziative e delle azioni rivoluzionarie che gli avvenimenti incalzanti incessantemente gli impongono. Ciò spiega il paradosso storico per cui in Italia sono le masse che spingono ed educano il partito della classe operaia e non è il partito che guida ed educa le masse(…). In verità, questo partito socialista, che si proclama guida e maestro delle masse altro non è che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse. Questo povero partito socialista, che si proclama capo della classe operaia, altro non è che gli ‘impedimenta’ dell’esercito proletario”.

Questa critica è mossa dalla consapevolezza che il partito è il momento della direzione, che il partito non può limitarsi a registrare la spontaneità del movimento, ma deve superarla. Gramsci non conosce il Che fare di Lenin, ma la sua concezione già allora gli si avvicina.

Quando l’attenzione di Gramsci sul partito diventa centrale? Questa diventa preminente dopo la conclusione del “biennio rosso”, dopo la sconfitta dell’occupazione delle fabbriche che indica il limite di quella pur straordinaria esperienza che non riuscì, tuttavia, ad assumere un carattere nazionale.
Gli anni che vanno dal ’21 al ’26, al terzo congresso svoltosi a Lione sono gli anni in cui l’impegno di Gramsci è rivolto al partito.

Proprio l’esperienza russa gli consente di vedere più lucidamente i vizi della direzione bordighiana e di rompere gli indugi nella lotta contro di essa.

Gramsci nel ’25 afferma:
“L’elemento della situazione nazionale era preponderante nella formazione politica del compagno Bordiga e aveva cristallizzato in lui uno stato permanente di pessimismo sulla possibilità che il proletariato e il suo partito potessero rimanere immuni da infiltrazioni piccolo-borghesi, senza l’applicazione di una tattica politica estremamente settaria, che rendeva impossibile l’applicazione e la realizzazione dei princìpi politici che caratterizzano il bolscevismo: l’alleanza tra operai e contadini e l’egemonia del proletariato nel movimento rivoluzionario anticapitalista”.

L’Ordine nuovo diventa il centro del movimento operaio torinese che guida e sostiene nel grande sciopero dell’aprile del ’20, durante l’occupazione delle fabbriche del settembre ’20 e nel fallito sciopero dell’aprile ’21.

Gramsci intravvede nella questione meridionale lo snodo delle alleanze di classe e la condizione dell’egemonia – sino ad allora mancata – del proletariato.

Scrive Gramsci:
“Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice, ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classe esistenti in Italia, , nella misura in cui riesce ad ottenere il consenso delle larghe masse contadine”.
“Ma la questione contadina in Italia è storicamente determinata; non è la questione contadina e agraria in generale; in Italia la questione contadina ha, per le determinate condizioni italiane, per il determinato sviluppo della storia italiana, due forme tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana”.

Quanto alla questione meridionale, è essenziale cambiare radicalmente l’approccio sin qui avuto:
capovolgere la vecchia visione del problema meridionale che era propria del partito socialista, del meridione come “palla al piede” che impediva lo sviluppo democratico dell’Italia;
cogliere l’enorme potenziale rivoluzionario presente nei contadini del Mezzogiorno;
comprendere che il blocco di potere dominante è fondato sulla divisione tra la classe operaia del nord e i contadini del Sud, perché è tale divisione che consente l’alleanza della classe capitalista con i grandi proprietari terrieri del Sud.

Dice Gramsci:
“Perché la classe operaia assuma una funzione egemone, occorre che l’operaio superi non solo la mentalità corporativa, per cui il metallurgico si sente prima di tutto metallurgico, l’edile edile, ecc. (…); bisogna che egli acquisti la mentalità di classe, per cui l’operaio si sente prima di tutto operaio, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, ma bisogna che l’operaio si senta parte di una classe che interpreta interessi più generali, di forze lavoratrici che non sono propriamente proletarie”.

Gramsci e la politica di Giolitti, ovvero, il blocco storico capitalistico-agrario.

La borghesia italiana aveva di fronte, almeno teoricamente, due possibilità: o dare luogo ad una democrazia rurale, che si appoggiasse sulla grande massa contadina, oppure poteva seguire la via del blocco capitalistico-operaio, acconsentendo a determinate rivendicazioni della classe operaia del nord sul piano delle libertà politiche e delle conquiste sindacali, facendone pagare il prezzo alle masse meridionali. A questa seconda politica si prestò il partito socialista che non pose mai la questione meridionale come questione essenziale, nazionale, della lotta rivoluzionaria in Italia.

Nota bene: Gramsci legge la storia d’Italia come storia di rivoluzioni passive.
Cos’è una rivoluzione passiva? E’ la risposta che le classi dominanti danno ad istanze che vengono dalle classi subalterne senza modificare i rapporti sociali esistenti, dunque mantenendo il proprio potere e la propria egemonia.

Scrive Gramsci:
“Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale. I contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra di loro…la società meridionale è un grande blocco agrario costituito da tre strati sociali: la grande massa contadina, amorfa e disgregata, gli intellettuali della piccola e media borghesia rurale, i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini meridionali sono in perpetuo fermento ma, come massa, essi sono incapaci di dare un’espressione centralizzata alle loro aspirazioni e ai loro bisogni. Lo stato medio degli intellettuali riceve dalla base contadina le impulsioni per la sua attività politica ed ideologica. I grandi proprietari nel campo politico ed i grandi intellettuali nel campo ideologico centralizzano e dominano in ultima analisi tutto questo complesso di manifestazioni. Come è naturale, è nel campo ideologico che la centralizzazione si verifica con maggiore efficacia e decisione. Giustino Fortunato e Benedetto Croce rappresentano perciò le chiavi di svolta del sistema meridionale ed in un certo senso sono le due più operose figure della reazione italiana”.

Il Croce, ponendo la cultura italiana a contatto con quella europea, sprovincializzandola, riesce a staccare il piccolo e medio intellettuale dal suo punto di riferimento, dalla base contadina da cui proviene. Lo immette in un tipo di cultura da cui è assente la voce dei contadini, la vita concreta dell’Italia, e particolarmente dell’Italia meridionale.
Il Croce compie una grande operazione di egemonia in senso conservatore e reazionario, e impedisce alle spinte contadine di attirare dalla propria parte gli intellettuali, i propri quadri, quei quadri che soli possono dare omogeneità, direzione, coerenza all’azione contadina.
Privata dei suoi intellettuali, la massa contadina resta inerte, disaggregata, sobbalza in ribellioni improvvise e poi ricade nella passività.

Come si vede, qui la critica al Croce non si svolge sul terreno speculativo, ma parte dall’analisi della funzione reale della filosofia del Croce. E ne mostra il carattere di calsse, la funzione politica.

Il blocco agrario del Mezzogiorno funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale. Il suo unico scopo è quello di conservare lo status quo. Esso non è autonomo, ma gregario e parassitario, tenuto insieme da un’egemonia nazionale che è quella del blocco industriale del Nord, che si avvale come strumento del blocco agrario.

Si annuncia qui l’analisi che sarà compiutamente sviluppata nei Quaderni del carcere.

 

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