di Dino Greco –

Il concetto di egemonia è lo snodo “chiave”, il “centro di annodamento” del pensiero di Gramsci ed è il punto di approccio di Gramsci con Lenin.

Il termine egemonia deriva dal greco eghestai, che significa “condurre”, “essere guida”, “essere capo”, ma anche dal verbo eghemoneuo (“essere guida”, “precedere”, “condurre”): per egemonia, come si vede, l’antico greco intendeva la direzione suprema dell’esercito. Si tratta dunque di un termine militare.

In Gramsci l’accento sarà invece posto sull’importanza del consenso, dentro un processo rivoluzionario che scioglie la contraddizione presente nel pensiero idealistico fra teoria e pratica, che supera il carattere speculativo-astratto del rapporto fra soggetto e oggetto tipico dell’idealismo hegeliano e che rifonda il concetto di rivoluzione come “grande riforma intellettuale e morale”, come superamento del rapporto statico, immutabile, fra governanti e governati.

L’interesse che muove la ricerca di Gramsci è quello di un rivoluzionario che riflette sulla sconfitta del movimento operaio, sull’avvento del fascismo. Ma riflette su quella sconfitta come gap (deficit) di egemonia culturale delle classi subalterne. E lo farà attraverso un excursus sulla storia d’Italia, dal Rinascimento, al Risorgimento fino alla storia a lui contemporanea.

Il concetto di egemonia è da Gramsci presentato in tutta la sua ampiezza, cioè come qualcosa che opera non soltanto sulla struttura economica e sulla organizzazione politica della società, ma appunto sul modo di pensare, sugli orientamenti ideali e persino sul modo di conoscere.

Gramsci tiene presente il Marx della “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica” del 1859 dove egli scrive che “ gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie”, ed esse ideologie diventano forze propulsive della trasformazione.

Il contributo che Gramsci attribuisce a Lenin non è solo quello di avere teorizzato la dittatura del proletariato, ma quello di averla realizzata nei fatti. Si tratta cioè dell’affermazione del significato non solo pratico, ma anche filosofico dell’operare, del trasformare la società.
E’ la filosofia che non procede più semplicemente attraverso concetti, per una sorta di partenogenesi dei concetti medesimi, ma dalla struttura economica, dalla trasformazione avvenuta nei rapporti di produzione, in un continuo rapporto dialettico tra base economica, struttura sociale e coscienza degli uomini.

Vedere l’undicesima delle tesi su Feuerbach, due paginette di appunti vergate dal giovane Marx nel 1845 e trovate da Engels fra le carte di Marx soltanto dopo la morte di quest’ultimo: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo”.

Gramsci dedica la sua ricerca alla costruzione teorico-pratica di un nuovo apparato egemonico, capace di guidare le classi subalterne al loro riscatto.

Veniamo a Lenin.

La rivoluzione del 1905 appare alla socialdemocrazia russa come una rivoluzione di carattere democratico-borghese.

Sono in campo due posizioni: quella della “destra” menscevica e quella dei bolscevichi.
La destra ritiene che trattandosi di una rivoluzione democratico-borghese, la direzione ne spetti alla borghesia, che il proletariato debba sì appoggiarla, ma debba ben guardarsi dal farsene protagonista e dall’assumere responsabilità di direzione in una rivoluzione che non è la sua.

La posizione di Lenin è opposta.
Lenin osserva che la borghesia russa è una borghesia debole e il capitalismo russo molto legato ai ceti feudali e allo zarismo. Dunque la borghesia non ha la capacità di affermarsi in modo autonomo.
Insomma, la sua tesi è che, a seconda della forza politico-sociale che dirigerà la rivoluzione, la rivoluzione borghese avrà due possibili sbocchi: o avrà un carattere di compromesso con l’ancient regime, o avrà un carattere progressivo e democratico, a patto che il proletariato ne prenda la guida trascinando dietro di sé la grande massa dei contadini).
Lenin afferma:
“La rivoluzione borghese presenta per il proletariato i più grandi vantaggi; essa è assolutamente necessaria nell’interesse del proletariato. Quanto più sarà completa e decisiva, quanto più sarà conseguente, tanto più il successo del proletariato nella sua lotta contro la borghesia e per il socialismo sarà garantito”.
Ecco il rapporto democrazia-socialismo: lo sviluppo della democrazia, anche in limiti borghesi, come condizione di lotta e di passaggio al socialismo.

In quella fase della storia russa lo sviluppo del capitalismo è dunque un fatto progressivo, non un fatto reazionario; lo sviluppo capitalistico è necessario per infrangere i vincoli della società feudale, per sviluppare le forze produttive e, quindi, per sviluppare il proletariato, perché essa dà al proletariato le libertà politiche e gli consente di portare avanti più efficacemente la propria lotta.
E perché fa intendere alle grandi masse che la democrazia resta, per i lavoratori, limitata e formale fino a che persista la proprietà privata dei mezzi di produzione: è lo sviluppo stesso della democrazia che pone in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione, come ostacolo ad un reale e pieno affermarsi della democrazia (intesa come autogoverno dei produttori associati e non come puro esercizio formale che non intacca la strutturale disuguaglianza che il capitale instaura fra gli esseri umani).

Vi è un passaggio ne “Le due tattiche della socialdemocrazia” che è illuminante per comprendere la concezione leniniana dell’egemonia: la destra della socialdemocrazia esprime il timore che, se i contadini entreranno in massa nella lotta rivoluzionaria, la borghesia si spaventerà e quindi si ritirerà dalla lotta rivoluzionaria e perciò questa perderà di ampiezza; per la destra l’ampiezza della lotta rivoluzionaria è data dunque dalla presenza della borghesia.

Per Lenin le cose stanno diversamente: quanto più la classe operaia trascina con sé i contadini, tanto più si allargheranno – soprattutto in una società come quella russa – le basi sociali della rivoluzione.

Per Lenin è utile e necessaria la partecipazione dei socialdemocratici al governo con forze democratico-borghesi, a certe condizioni di progresso, di autonomia della socialdemocrazia, di controllo del partito sull’operato dei ministri socialdemocratici per consolidare i risultati della rivoluzione e meglio difenderli.

Operare non soltanto dal basso, ma anche dall’alto: dal basso sempre, dall’alto quando e in quanto è possibile: la tesi secondo la quale si deve operare solo dal basso è per Lenin una tesi anarchica.

La destra si appoggiava all’autorità di Plekhanov il quale citando Marx ricordava come nel’48, in Germania, Marx non sostenne mai che i socialdemocratici dovessero partecipare al governo con forze democratico-borghesi.

Lenin risponde che Marx si riferiva ad una situazione in cui la rivoluzione borghese era giunta al suo culmine e d era stata sconfitta, la classe operaia era debolmente organizzata e a rimorchio della borghesia, priva di autonomia politica e organizzativa. In quel contesto, per Marx, essenziale è conquistare l’autonomia politica del proletariato e dargli un’organizzazione indipendente. Ma la situazione russa è affatto diversa, perché la rivoluzione borghese è in ascesa e il proletariato è la parte più attiva della lotta rivoluzionaria.
Insomma, Lenin utilizza proprio l’insegnamento di Marx che non significa applicare uno schema fisso a tutte le condizioni, ma ricavare il comportamento politico dall’analisi della situazione reale: “l’analisi concreta della situazione concreta – scrive Lenin – è l’anima viva, l’essenza del marxismo”.

Lenin entra nel movimento operaio prima della costituzione del partito socialdemocratico russo (intorno al 1892-3), a poco più di vent’anni.

Immediatamente si palesa lo scontro con i populisti (narodniki), la cui posizione era la seguente: “Non c’è spazio in Russia per lo sviluppo vero e proprio del capitalismo”, perché vi prevale un’economia agricola retta su due pilastri: la grande proprietà terriera nobiliare e la comunità contadina, la proprietà comune dei contadini sulla terra, con una sorta di autarchia economica del villaggio (obsicina).
Dunque, secondo i narodniki, c’è un limite alla proprietà privata della terra che impedisce lo sviluppo del capitalismo e può diventare la base per il passaggio diretto dalla conduzione collettiva al socialismo. Per cui sarebbero i contadini i protagonisti della trasformazione e la funzione degli intellettuali (dell’intelligentsija) sarebbe quella di illuminarli circa la propria funzione storica.
Lenin risponde: “Il capitalismo in Russia si sviluppa”: la comunità rurale si sta disgregando;
i contadini più ricchi acquistano appezzamenti di terreno nella proprietà del signore feudale;
diverse famiglie contadine perdono la terra, non sono più proprietarie; si formano così i salariati e i braccianti che vengono compensati con salario in moneta; la stessa produzione contadina comincia a servire non solo per soddisfare i bisogni della famiglia o per lo scambio in natura fra contadini, ma per i mercanti che acquistano i prodotti per venderli; il mercato capitalistico si va dunque affermando nelle campagne.

Da ciò deriva che, in questa situazione, il capitalismo in Russia è un fatto progressivo (anche se oppressivo per le masse lavoratrici, operaie e contadine) perché libera le forze produttive, rompe i vincoli feudali che ne impediscono lo sviluppo, forma il proletariato.

La lotta della classe operaia russa per la propria emancipazione è dunque una lotta politica ed il suo primo obiettivo è la conquista della libertà politica.

A questo punto occorre soffermarsi su un concetto teorico fondamentale in Lenin (che egli riprende da Marx) e che sarà fondamentale nell’elaborazione di Antonio Gramsci: il concetto di formazione economico-sociale.

Cosa intende Marx per formazione economico-sociale?
Marx intende una fase della società che si distingue dalle altre per la struttura economica predominante in questa fase, e cioè per i rapporti di produzione e di scambio che caratterizzano questa fase di sviluppo.
Si tratta della chiave fondamentale del suo pensiero che Marx illustrò compiutamente nella già citata, celebre “Prefazione” alla “Critica dell’economia politica” del ’59, dove egli enunciò il metodo di lavoro che sarà sviluppato nel Capitale.

Scrive Marx:
“la mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza (…) e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica (…). Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura (…). Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione (…)”.

Come si vede, l’elemento “dinamico” per eccellenza sta nelle forze produttive.

Tornando a Lenin e alla sua polemica contro i populisti: loro non capiscono che respingendo il capitalismo respingono insieme lo sviluppo delle forze produttive. Essi vagheggiano una società di tipo pre-capitalistico, cadono in una posizione romantica: la loro – dice Lenin – è in definitiva un’ideologia reazionaria.

Attenzione, questo è un passaggio essenziale!

Quando Marx parla di formazione economico-sociale non la identifica con il modo di produzione che di quella formazione è pure l’elemento caratterizzante, che ne spiega i rapporti e la natura, ma che non è l’identica cosa.

Per f.e.s. Marx intende la struttura e la sovrastruttura, dunque la base economica, i rapporti civili, politici, la vita culturale, ecc., che entrano reciprocamente in rapporto dialettico.

Il capitalismo non è dunque una struttura immobile, ma un processo, di cui Marx sottolinea il farsi, lo svilupparsi in modo dinamico.

Il merito scientifico di Marx è quello di averci dato una chiave per capire non tutta la storia sociale passata e futura, ma questa determinata formazione economico-sociale.

Questo non vuol dire che il metodo di Marx sia applicabile solo al capitalismo, ma che se vogliamo capire altre società non potremo trasferire ad esse, meccanicamente, le leggi individuate nel Capitale. Dovremo individuare nuove leggi, nuove categorie scientifiche.

Il marxismo non è una filosofia della storia.

Prima di Marx mancava un criterio di analisi della società e del suo sviluppo: la società appariva come un conglomerato inesplicabile, misterioso di fatti, di cui si potevano dare le più diverse interpretazioni, di carattere speculativo, metafisico. Non si distinguevano i fenomeni importanti da quelli secondari, quello che è essenziale e quello che è derivato, ciò che è causa e ciò che è effetto.

Il metodo di Marx è scientifico in quanto ad esso è applicabile il criterio della reiterabilità: solo allora si può ricavarne un modello.

L’astrazione (la “determinazione astratta”) è indispensabile, ma non è il punto d’arrivo, bensì il punto di partenza.

L’analisi della situazione concreta fornisce gli elementi per la determinazione astratta (il modello) necessaria per capire il concreto e riprodurre nella propria coscienza la molteplicità del concreto medesimo.

Per Marx “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro apparenza fenomenica direttamente coincidessero”. E si ha scienza quando si supera il dato immediato, l’apparenza, per scoprire il nocciolo razionale che vi è contenuto.

Si prenda l’esempio a noi più duramente vicino: quello della crisi economico-sociale nella fase attuale.

Le crisi periodiche del sistema sono connaturate con il modo di produzione, ma si manifestano prima nella sfera del credito e della finanza e solo successivamente nell’economia reale.
In altre parole, le crisi nascono nell’economia reale, esplodono nella sfera finanziario-creditizia, ricadono poi sulla stessa economia reale con pesanti effetti distruttivi. Tuttavia, all’apparenza non è così, e ciò ne ostacola la comprensione e la terapia.

Già Marx aveva notato che la speculazione e il credito offrono alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, ma proprio per questo accelerano l’esplosione della crisi, e ne aumentano la distruttività e la violenza.

“La crisi stessa – afferma Marx – scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione: non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi”.
E ancora: “Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre la vera causa di tutte le malattie”.

La dura polemica di Marx contro il meccanicismo frutto di una concezione evoluzionistica dello sviluppo sociale.

Occorre avere sempre presente che Marx non è un pensatore deterministico, ma dialettico: egli pensa che date determinate condizioni si apre la possibilità di uno sbocco rivoluzionario: la possibiltà, appunto, non la necessità.

Del resto, Marx stesso ha dedicato la sua vita proprio alla costruzione delle condizioni “soggettive” che rendono possibile la rivoluzione: la formazione del partito comunista.

Neppure l’enorme campo teorico dissodato da Marx lungo quarant’anni di intensissimo lavoro dà interamente conto di ciò che il rivoluzionario di Treviri fu.
E’ questo che Federico Engels volle dire nel discorso pronunciato davanti alla tomba di Marx nel cimitero di Highgate a Londra, affermando, testualmente, che “lo scienziato non era neppure la metà di Marx…perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario”. Come a dire che l’impegno militante del movimento operaio è l’altro termine di riferimento essenziale per la comprensione del suo pensiero.

Lenin pone in rilievo come Marx astragga la struttura dalla formazione economico-sociale, la studi isolatamente per capirla e definirne le leggi, ma non per rimanere fermo alla struttura, bensì per risalire da questa al “concreto vivente” e capire tutta la società nella sua organicità.

Dice Lenin: “Questo è lo scheletro del capitale: tutto sta, però, nel fatto che Marx non si sia accontentato di questo scheletro, ma l’abbia rivestito di carne e di sangue.

Nel Capitale Marx mostrò tutta la formazione economico-sociale capitalistica come cosa viva, con i suoi rapporti nella vita quotidiana, con le manifestazioni concrete del conflitto fra le classi, con la sovrastruttura politica borghese, con le idee borghesi di libertà, con i rapporti familiari borghesi”.

Se la struttura restasse isolata e pretendesse di riassumere tutto in sé, ci troveremmo di fronte ad un procedimento tipicamente idealistico, hegeliano, secondo cui l’astrazione diventa una sostanza indipendente, un’ipostasi.

Nel materialismo meccanicistico succede proprio questo: lo schema si sovrappone alla realtà, riproduce se stesso, ma non scopre più niente e perde la forza euristica che invece ha il pensiero di Marx.
(leggere “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, come esempio di interpretazione materialistica della storia”).

Vedere anche Antonio Labriola: “Persino l’arte, la morale, la religione, le scienze sarebbero prodotti diretti delle condizioni economiche e del modo di produzione? Ovverossia: efflussi, irradiamenti, ornamenti e miraggi dei materiali interessi? I pigri si accomoderanno volentieri alla grossolana accettazione di simili enunciati”.

Vedi anche J.P. Sartre in Questioni di metodo: “Il marxismo contemporaneo (Sartre ha per bersaglio non il pensiero di Marx, ma la caricatura che ne fanno i suoi epigoni, ndr) mostra, per esempio che il realismo di Flaubert è in rapporto di simbolizzazione reciproca con l’evoluzione sociale e politica della piccola borghesia del Secondo Impero. Ma non mostra mai la genesi di tale reciprocità di prospettiva. Non sappiamo né perché Flaubert abbia preferito la letteratura a tutto, né perché sia vissuto come un anacoreta, né perché abbia scritto quei libri piuttosto che quelli di Duranty o dei Goncourt. Il marxismo situa, ma poi non fa scoprire più nulla: lascia che altre discipline senza principi stabiliscano le circostanze esatte della vita e della persona e interviene solo in seguito, per dimostrare che i suoi schemi si sono verificati una volta di più”.

Se gli elementi non economici che compongono la storia, la lotta politica che pure deriva dai rapporti di produzione, la lotta ideologica che pure ha la base nei rapporti economici, vengono ridotti immediatamente, in modo meccanico, alla struttura abbiamo appunto la riduzione della storia a sociologia.

Proprio questo approccio consentirà a Lenin e poi a Gramsci di fondare il concetto di egemonia.

Del resto, se tutta la società fosse ridotta alla sua base economica non ci sarebbe più posto per l’iniziativa politica, per l’egemonia e, soprattutto, non sarebbe possibile un’egemonia del proletariato in una fase nella quale il capitalismo non sia ancora sviluppato, in una fase di rivoluzione democratico-borghese, come era quella del 1905 in Russia.

Lenin riesce a fare saltare la schematica simmetria: capitalismo=rivoluzione borghese; crisi del capitalismo=rivoluzione proletaria. E riesce a fare vedere l’intreccio dialettico per cui, in una determinata situazione storica, il proletariato può essere egemone anche in una rivoluzione democratico-borghese, proprio perché ha recuperato il concetto marxiano di formazione economico-sociale.

Siamo ora alle soglie di un altro passaggio teorico-pratico fondamentale: l’iniziativa del soggetto rivoluzionario, il partito.

Tornando a Lenin, tra l’indagine dello specifico russo e la formulazione della teoria dell’egemonia, della funzione dirigente del proletariato nella rivoluzione democratico-borghese, c’è di mezzo un anello concettuale, oltre che pratico, del tutto essenziale. Questo anello essenziale è il partito rivoluzionario come avanguardia politica del proletariato: il partito come il momento di classe, il momento della direzione.

Lenin fissa questo tema cruciale nel Che fare (1902): “La storia di tutti i paesi – scrive Lenin – attesta che la classe operaia, con le sole sue forze, è in grado di elaborare soltanto una politica tradeunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai”.
Ma perché la classe operaia possa andare oltre il livello sindacale della rivendicazione immediata, occorre precisamente la teoria rivoluzionaria.

Dice Lenin:
“La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche ed economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”.
Lenin parte cioè da una constatazione storica: la teoria rivoluzionaria (non il conflitto di classe) non è nata dagli operai, ma è stata portata nel proletariato dall’esterno.

Qui c’è un’osservazione preliminare da fare: per Lenin la cultura rivoluzionaria non nasce dal nulla, ma dal possesso di tutte le acquisizioni della cultura borghese: la dialettica hegeliana, l’economia classica inglese, le teorie socialiste francesi, naturalmente sottoposte a vaglio critico e a superamento dialettico, superamento, cioè, come negazione e assunzione.

Per inciso, ricordo un famoso passo, che si trova in un articolo scritto per Il grido del popolo in cui il giovane Gramsci afferma il medesimo concetto:
“Se la storia è una catena degli sforzi che l’uomo ha fatto per liberarsi dai privilegi, dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si vede perché la classe operaia, che un altro anello vorrebbe aggiungere a quella catena, non debba sapere come, perché e da chi sia stata preceduta e quale giovamento possa trarre da questo sapere”.

Attenzione! Quando Lenin dice che la coscienza politica di classe può essere portata al proletariato solo dall’esterno, egli vuole dire dall’esterno della lotta economica, dall’esterno dei rapporti tra operai e padroni.

Il concetto di “esterno” diventa qui più ricco, nel senso che solo al di là del rapporto fra operaio e padrone si vedono i rapporti di tutte le classi fra loro, di tutte le classi sociali con lo Stato, con il potere politico, con il governo e si ha una visione complessiva della società: per arrivare alla lotta rivoluzionaria è necessario vedere cosa c’è dietro al padrone e come egli organizza il proprio potere e la propria egemonia; bisogna individuare le classi sociali, i partiti politici e la loro funzione; bisogna comprendere come il padrone sia sostenuto da tutta una struttura sociale, da tutta un’organizzazione politica e statuale.

Ebbene, a questo non si arriva per un processo spontaneo: serve uno sforzo di pensiero ed una capacità di organizzazione concettuale che presuppone la presenza e l’assimilazione di una serie di categorie scientifiche che si possono raggiungere solo ad un altissimo livello di cultura, a quel livello cui appunto pervenne Marx.

La scienza va al di là dell’apparenza, coglie nessi che non appaiono nell’immediato e che hanno bisogno dell’elaborazione critica: questo momento dell’elaborazione critica è la teoria rivoluzionaria.

Tenere presente che la concezione della teoria che viene dall’esterno è riferibile alle origini, alla genesi del partito operaio e non è applicabile alla fase in cui il partito operaio è ormai costituito e ha le sue basi nella classe operaia. Da quel momento la teoria non viene più dall’esterno, ma la elabora il partito del proletariato all’interno della classe operaia stessa.

Ne “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” (1920), Lenin chiarirà che la teoria non è un dogma, ma si costruisce in stretta connessione con la pratica di un movimento veramente di massa e veramente rivoluzionario.

Lo sviluppo definitivo della teoria e la prova della sua validità si ha nel contatto col movimento di massa e con l’esperienza di lotta di tale movimento.

Vedere la seconda delle “Tesi su Feuerbach”:
“ La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”.

Vedere anche Sartre in Questioni di metodo:
“In quell’epoca lessi ‘Il capitale’ e ‘L’ideologia tedesca’: capivo tutto luminosamente e non capivo proprio niente. Capire è mutare se stessi, andare oltre se stessi: quella lettura non mi mutava affatto. Ma quello che cominciava a mutarmi, invece, era la realtà del marxismo, la pesante presenza, al mio orizzonte, delle masse operaie, corpo enorme e cupo che viveva il marxismo, che lo praticava e che esercitava a distanza un’irresistibile attrazione sugli intellettuali piccolo borghesi”.

Scrive Lenin: “Non c’è rivoluzione senza teoria rivoluzionaria, ma non c’è rivoluzione senza un partito che incarni la teoria nel movimento delle masse, diriga le masse, le organizzi, elabori una strategia e conduca una tattica”.

L’azione del partito rivoluzionario deve investire tutta la società:
“I socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione, devono inviare in tutte le direzioni i distaccamenti del loro esercito”.
Il proletariato non conquista una coscienza di classe solo operando su se stesso, ma intervenendo su ogni momento della vita sociale e politica.

Lenin sulla funzione della stampa comunista e su cosa deve essere il giornale rivoluzionario: “Dev’essere un giornale che – senza dimenticare per un solo momento il suo carattere di classe e l’autonomia politica del proletariato – fa sue tutte le esigenze e tutte le rivendicazioni democratiche della società…e non si limita mai ad un orizzonte angustamente proletario”.

Per Lenin, nella situazione storica della Russia del 1905 si può avere l’egemonia del proletariato nella rivoluzione borghese perché il proletariato vede l’incapacità della borghesia di condurre conseguentemente a termine la propria rivoluzione.

Il partito è il soggetto rivoluzionario che non si limita a seguire e registrare il processo oggettivo ma interviene a modificarlo.

La destra socialdemocratica non capisce la concezione materialistica di Marx perché non capisce la funzione del soggetto, cioè non vede che l’attività umana è essa stessa oggettiva, cioè attività che si oggettivizza, che diventa elemento dell’ambiente.

Si badi, Lenin parla del partito che ha capito le condizioni materiali della rivoluzione; quindi non del partito come astratta volontà soggettiva, come puro volontarismo, come pura immaginazione rivoluzionaria.

Questa è la posizione di Lenin nel 1905. Ora vediamo come il concetto di egemonia torni quando il proletariato russo non si trova più di fronte ad una rivoluzione democratico-borghese che deve battere il feudalesimo e i suoi residui, ma quando lotta ormai in una fase di capitalismo sviluppato, quando sono ormai eliminati i residui del mondo feudale.

Nel 1915-6 Lenin si trova di fronte ad una tesi che suona così: nella fase imperialistica il capitalismo si è talmente internazionalizzato che le rivendicazioni nazionali non trovano più spazio, per cui bisognerebbe sostituire alla rivendicazione dell’autodecisione dei popoli la lotta rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo.

La risposta di Lenin è questa:
“L’imperialismo comporta il superamento dei limiti degli Stati nazionali da parte del capitale, significa estensione ed aggravamento dell’oppressione nazionale su una nuova base storica. Di qui deriva precisamente che noi dobbiamo legare la lotta rivoluzionaria per il socialismo al programma rivoluzionario nella questione nazionale”.

Anzi, il capitalismo, accentuando il proprio carattere oppressivo, esalta le rivendicazioni democratiche e al tempo stesso le congiunge al socialismo in un modo qualitativamente diverso da come ciò si verificava in una società feudale.
Dunque il proletariato non può vincere se non attraverso la democrazia, realizzando pienamente la democrazia.

Dice Lenin:
“La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere”.

Facciamo ancora un balzo nel tempo per arrivare al 1917, alle “tesi di Aprile”, la tappa proletaria della rivoluzione.

Nel febbraio, al suo esplodere, la rivoluzione ha un carattere democratico-borghese.
Si formano i soviet, diretti da una maggioranza di socialisti rivoluzionari e di menscevichi; i bolscevichi sono il 10% del soviet di Pietrogrado; il Governo provvisorio è a direzione liberale, presieduto dal principe Lvov.
Quel governo si impegna a continuare la guerra a fianco di Francia e Inghilterra: i soviet appoggiano il governo e dunque legittimano la guerra imperialista.
Fino a quel momento Lenin aveva appoggiato la rivoluzione democratico-borghese e il suo programma: assemblea costituente, 8 ore di lavoro per gli operai, distribuzione della terra ai contadini.
Ma dopo il febbraio cambia posizione, perché si rende conto che non è possibile guidare la rivoluzione ai suoi sbocchi, in quanto socialrivoluzionari e menscevichi sono ormai schierati dalla parte dell’imperialismo e non si possono realizzare nemmeno gli obiettivi “democratici” della rivoluzione.
Si tratta ora di puntare non più alla dittatura democratica degli operai e dei contadini, ma alla dittatura del proletariato, alleato alla grande massa dei contadini poveri.

Lo scontro fra i bolscevichi: la contrarietà di Zinov’ev e di Kamenev i quali temono che la rivoluzione si trasformi in una ecatombe simile a quella che portò allo sterminio dei comunardi sulle barricate di Parigi del 1871.

Prima Lenin pensava che lo sviluppo delle forze produttive in Russia non fosse tale da consentire la rivoluzione proletaria, tanto meno la costruzione del socialismo.

Cosa muta, allora?
Determinante è il giudizio politico sullo schieramento delle forze politiche in campo, la loro collocazione internazionale.
Si tratta cioè di una valutazione che tiene conto non soltanto dello sviluppo dei rapporti di produzione, ma che coglie, nella lotta, soprattutto il momento politico: la dittatura del proletariato diventa la sola forma di potere attraverso cui può attuarsi l’egemonia del proletariato.
Si tratta di volontarismo?
No, perché Lenin non prospetta immediati obiettivi socialisti, ma obiettivi democratici: nazionalizzazione della terra e dei trust industriali, delle banche; controllo operaio sulla gestione delle aziende: una riforma “dentro” il sistema e tuttavia “contro” il sistema. Dopo queste misure – sostiene Lenin – l’avanzata verso il socialismo sarà del tutto possibile.

C’è qui un’innovazione rispetto a Marx che nella prefazione al primo libro del Capitale aveva scritto:
“Anche quando una società è riuscita ad intravvedere la legge di natura del proprio movimento, non può né saltare né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento, ma può abbreviare e attenuare le doglie del parto”.

Si ricorderà che nella “Prefazione” a “Per la critica dell’economia politica” del’59 Marx aveva affermato che “una formazione economico-sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui essa può dare corso” e che “nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni della loro esistenza”.
Marx aveva qui separato, a fini scientifici, attraverso l’astrazione, lo sviluppo dell’economia dal momento politico. Aveva però aggiunto che il “parto” può essere abbreviato e facilitato dalla coscienza dello sviluppo oggettivo.
Ebbene, per Lenin la coscienza, l’iniziativa politica, diventa decisiva: siamo di fronte alla rottura netta, condotta non attraverso un’esercitazione libresca, ma nella realtà, con le interpretazioni evoluzionistiche del pensiero di Marx.

Vedremo come Antonio Gramsci si rapporterà alla rivoluzione d’Ottobre, come essa influenzerà lo sviluppo del movimento ordinovista dei Consigli di fabbrica nella Torino operaia.

 

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