di Dino Greco –

Per un tempo straordinariamente lungo il più grande sindacato italiano, la Cgil, non ha più svolto il proprio ruolo, delegando la rappresentanza del lavoro al Partito democratico. E lo ha fatto – senza colpo ferire – mentre nel paese si consumava il più devastante attacco demolitore di tutte le conquiste che il movimento operaio aveva realizzato dalla fine degli anni Sessanta: il contratto nazionale di lavoro, il diritto del lavoro, il welfare.

Anche quando la deriva in corso assumeva proporzioni inquietanti, anche mentre la crisi portava i colpi più duri alle condizioni dei lavoratori, anche mentre il loro stesso diritto di coalizione veniva profondamente leso, la Cgil si è limitata a commentare ciò che accadeva, con qualche rimbrotto a cui non è seguita nessuna azione di contrasto, nessuna mobilitazione.

Solo la brutalità con cui Matteo Renzi ha reso esplicita e portato sino alle estreme conseguenze la mutazione genetica di stampo liberista già da tempo in corso nel Pd, solo la sfacciata insolenza con cui egli ha dichiarato l’inutilità del sindacato e sposato interamente gli interessi, anche i più vieti, del grande capitale, solo la sprezzante supponenza con cui ha voluto cancellare ogni residua parvenza di diritto del lavoro, solo il combinato disposto di tutti questi elementi ha per un momento, ma per un momento solo, provocato nella più grande centrale sindacale, ormai abituata a gestire il rapporto fra capitale e lavoro in termini a-conflittuali, un sussulto e il risveglio da un torpore letargico che sembrava ormai definitivo.

Si è allora subito visto come la ripresa delle lotte, a partire dalla riesumazione dello sciopero generale confinato da tempo immemorabile nelle anticaglie, abbia cambiato d’incanto la situazione politica e distribuito nuove carte a tutti gli attori in campo.

Si è visto come gli stessi media, solitamente servili e genuflessi di fronte al potere, siano stati costretti – almeno in parte, a dare visibilità ad una reattività sociale che pareva scomparsa dalla scena politica.

Poi, tutto è tornato a ristagnare.

Eppure, lo stesso esito delle elezioni regionali, soprattutto quello in Emilia Romagna, segnala che nella coscienza popolare va facendosi strada una consapevolezza per molto tempo oscurata, e cioè che il Pd non rappresenta in alcun modo gli interessi e le ragioni del lavoro, ma che ad esse è irriducibilmente ostile.

Rimane del tutto aperto il problema della strategia o, per meglio dire, in termini più sindacali, la piattaforma con cui la Cgil intenda dare continuità al conflitto ingaggiato, giacché ciò che sino ad ora era stato da essa accettato e persino condiviso rende assai difficile il salto dell’asticella.

Ebbene, quella piattaforma, come ognuno può vedere, non esiste.

Cimentarsi sul serio con la crisi del sindacato comporterebbe una revisione molto seria dei comportamenti sin qui adottati. Solo la forza e la continuità del movimento potrebbe imporre alla Cgil una svolta di quelle proporzioni.

Se il movimento dello sciopero continua a restare un fuoco fatuo, la Cgil affonderà nel tradizionale tran tran, e il contraccolpo sarà molto pesante.

Anche per la Cgil questa è l’ultima chiamata.

Scopo della lezione odierna è quello di comprendere come sia stato possibile – attraverso quali tappe, snodi fondamentali, concatenazione di eventi – che si siano così radicalmente rovesciati i rapporti fra le classi, che uno dei più grandi movimenti sindacali d’Europa si sia ridotto all’irrilevanza, che di un’intera cultura operaia, classista, antagonista, portatrice di un punto di vista radicalmente opposto all’ordine di cose esistente, e resasi egemone per almeno un decennio nella società italiana sia quasi scomparsa ogni traccia.

Non potremo qui tirare tutti i fili di un argomento così complesso, già l’essenziale è ingombrante per svilupparlo in un solo incontro.

Tuttavia è bene avere piena contezza del processo storico, degli eventi politici e sociali, delle scelte compiute che nel loro insieme hanno prodotto lo stato di cose presente, per comprendere come e da dove sia possibile riprendere il cammino.

Ora, possiamo affermare senza allontanarci dal vero che il vero atto di nascita della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” coincide con la riscossa operaia del 1969, dopo circa trent’anni di latenza costituzionale, segnati più dall’anticomunismo che dall’antifascismo.

Chi non ha vissuto quel periodo faticherebbe non poco – alla luce del presente – a comprendere le dimensioni di quel poderoso sconquasso che fu tale da mettere in discussione rapporti di potere consolidati, a partire dalla fabbrica, e da investire l’intera società, la cultura, la politica e la produzione legislativa lungo quasi un decennio.

L’elemento di svolta fu il contratto nazionale dei metalmeccanici del 1969, conquistato dopo 300 ore di sciopero.

Si trattò di una vera rivoluzione che investì tutti gli aspetti del rapporto di lavoro:

forti aumenti salariali dopo anni di stagnazione delle retribuzioni;
superamento delle “gabbie salariali”, per cui ad eguale prestazione di lavoro nel medesimo settore corrispondevano, territorialmente, diversi livelli salariali;
inquadramento unico operai-impiegati;
riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali;
diritto alle assemblee retribuite all’interno dei luoghi di lavoro;
elezione dei delegati e monte ore di permessi sindacali retribuiti.

Nel contratto nazionale dei metalmeccanici successivo, quello del ’73, entrerà anche – sotto il titolo “Diritto allo studio” – la previsione di 150 ore retribuite per il completamento degli studi da parte di lavoratori il cui accesso al lavoro sin da giovanissimi aveva impedito di completare la formazione scolastica.

Il mondo padronale esce tramortito da quell’impetuosa spinta al riscatto collettivo nata sotto la spinta di una nuova e giovane classe operaia, in gran parte senza storia precedente, emigrata in massa dalle campagne meridionali ed entrata in forze nella fabbrica manifatturiera fordista.

Angelo Costa, storico presidente di Confindustria, dopo la firma del contratto del ’69, vissuta come un’oltraggiosa usurpazione, si dimetterà dal suo incarico sostenendo che il nuovo contratto espropriava gli imprenditori del loro “diritto naturale” a considerare la fabbrica loro proprietà esclusiva, mentre le nuove norme, subite con la forza, li costringevano a finanziare la lotta di classe che veniva portata in “casa loro”.

L’impatto delle lotte operaie investe tutta la società italiana e condiziona profondamente la politica e l’attività legislativa per tutta la prima parte degli anni Settanta.

Sono di quel periodo:

lo statuto dei diritti dei lavoratori (1970);
la legge sulle lavoratrici madri (1971);
la legge sul lavoro a domicilio (1973);
la legge sul collocamento degli invalidi (1968);
Sono inoltre di quegli anni:

la riforma delle pensioni (a 35 anni con una rendita del 2% per anno calcolato sull’intero montante retributivo);
la riforma della sanità (con l’introduzione del sistema universalistico);
la riforma della psichiatria (la “riforma Basaglia”, con l’abolizione dei manicomi);
la riforma della casa (con la legge 167, che afferma il principio del diritto all’abitazione attraverso la costruzione e l’assegnazione di case di edilizia economico-popolare);
il nuovo diritto di famiglia.

Nel 1974 la battaglia sul divorzio si conclude con la vittoria nel referendum abrogativo della legge promosso dai Comitati civici e sostenuto dalla Democrazia cristiana e dalle gerarchie vaticane.

Lo Statuto dei lavoratori abbatte le barriere di quella “zona franca”, impermeabile alla Costituzione, che fino a quel momento era stata la fabbrica.

Il padrone incontra per la prima volta un limite cogente, di carattere giuridico, al proprio potere indiscriminato.

Il sindacato stesso conosce una trasformazione originale che ne cambia profondamente il carattere in senso democratico.

Lo Statuto dei lavoratori prevedeva infatti che i poteri di rappresentanza dei lavoratori fossero affidati alle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) nominate dai sindacati maggiormente rappresentativi (Cgil, Cisl, Uil).

L’investitura avveniva dunque dall’esterno.

L’esperienza dei Consigli di fabbrica muta radicalmente questa impostazione.

Perché sul campo nasce la figura del delegato di reparto o di gruppo omogeneo (una sorta di collegio uninominale), eletto da tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti ai sindacati, attraverso un voto su scheda bianca, dove tutti sono dunque elettori ed eleggibili e dove vige la regola della revoca istantanea del mandato ove questa sia richiesta dal 50 per cento +1 dei lavoratori interessati.
Ebbene la novità assoluta sta nel fatto che il sindacato fa cadere su coloro che i lavoratori hanno scelto come propri rappresentanti la nomina di Rsa, munendoli dei poteri formali e sostanziali che la legge assegna ad esse.

I consigli dei delegati diventano dunque il primo livello dell’organizzazione sindacale. Questo intreccio inedito fra organizzazione esterna e democrazia di base prelude alla stagione unitaria più feconda del sindacalismo italiano e all’esperienza di unità organica che da lì prenderà le mosse, realizzandosi in modo compiuto, per alcuni anni, con la federazione lavoratori metalmeccanici (FLM).

E’ interessante notare come questa fase di formidabile crescita della democrazia operaia richiami direttamente il biennio rosso 1919-1920 e l’esperienza del gruppo ordinovista di Gramsci, Togliatti e Terracini. E, ancora più indietro nel tempo, come la forma organizzativa dei Consigli si ispirasse, per tanti versi, alle regole fissate dai rivoluzionari della Comune di Parigi del 1871.

L’esperienza consiliare troverà un ulteriore sviluppo, tutto politico, nei Consigli di zona, rete dei consigli di fabbrica operanti in un determinato territorio. Questa evoluzione, tutta politica, della struttura consiliare, è il risultato della comprensione che la conquista di un potere negoziale dentro la fabbrica è fondamentale, ma non sufficiente e che ci sono contraddizioni e problemi che possono essere affrontati solo in una dimensione più vasta.

Si sentono qui gli echi di Lenin, che nel “Che fare” sottolineava come la coscienza politica di classe la si conquista oltre il rapporto fra padrone e operaio, perché lì si vedono i rapporti di tutte le classi fra loro, di tutte le classi con lo Stato, con il potere politico e si giunge ad una visione complessiva della società.

Perché ciò avvenga bisogna capire cosa c’è dietro al padrone, come egli organizza il proprio potere e la propria egemonia e comprendere come il padrone sia sostenuto da tutta una struttura sociale, da tutta un’organizzazione politica e statuale.

L’effetto di riverbero delle lotte operaie sull’insieme della società è di assoluta rilevanza.

Strati di intellettuali e di piccola borghesia si separano dalle classi dominanti e si uniscono ad una classe operaia e ad un movimento sindacale di cui si riconoscono autorevolezza e forza egemonica.

Ricordo un convegno che promuovemmo negli anni Ottanta come Camera del lavoro di Brescia, a cui invitammo Giovanni Palombarini, fondatore di Magistratura democratica, a parlare di lavoro e Costituzione. Il giurista ci rivelò che non si aveva ancora chiara percezione di quale impatto avesse avuto, su una nuova generazione di magistrati, l’irruzione sulla scena sociale e politica italiana del movimento operaio; e di quanto questa nuova leva di giuristi abbia imparato a rileggere la Costituzione con le lenti dello Statuto dei lavoratori, assimilandone non solo la lettera e la norma, ma anche la cultura, profondamente diversa da quella preesistente.

Nasce così il Nuovo processo del lavoro e le stesse aule di tribunale che ci vedevano sistematicamente sconfitti nelle cause di lavoro smettono di diventare per i lavoratori luoghi ostili: si comincia a vincere anche il contenzioso giudiziario.

Il comportamento antisindacale (punito dall’articolo 28 dello Statuto) viene prontamente applicato, come pure la reintegrazione nel posto di lavoro ove il licenziamento sia intervenuto senza “giusta causa o giustificato motivo” (articolo 18).

Di più. Nel giuslavorismo di nuovo conio, figlio di questa eccezionale stagione di sommovimento sociale, prende corpo un concetto giuridico di fondamentale importanza: quello in base al quale la legge deve compensare l’oggettiva asimmetria di forze che si stabilisce nel rapporto di lavoro fra datore di lavoro e prestatore d’opera.

E lo deve fare, precisamente, affermando l’indisponibilità individuale del contratto collettivo di lavoro, cioè la sua inderogabilità. Ciò in quanto “bisogna difendere la parte più debole (il lavoratore) dalla sua stessa debolezza che potrebbe indurla a rinunzie sostanziali perché subite in una condizione di oggettivo ricatto, di oggettiva soggezione”.

Già Bruno Trentin aveva insistito su questo punto sostenendo (a differenza di ciò che dirà e farà Luciano Lama più avanti negli anni) che il salario deve essere considerato una “variabile indipendente”, proprio come scritto a chiare lettere nell’articolo 36 della Costituzione italiana (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Faccio notare, di passaggio, che il Partito comunista italiano pronunciò un voto di astensione sulla legge 300/70, lo Statuto dei lavoratori, appunto. E ciò per due motivi, che bene illustrò al gruppo comunista della Camera il capogruppo Fernando Di Giulio: a) perché dal campo di applicazione della legge erano escluse le aziende con meno di 16 dipendenti e, b) perché le regole relative alla rappresentanza erano in via esclusiva attribuite ai sindacati maggiormente rappresentativi, vale a dire a Cgil, Cisl e Uil, configurando una sorta di monopolio della rappresentanza che ledeva (e ancora lede) il diritto delle minoranze.

Ora, detto tutto ciò, torna l’interrogativo iniziale, relativo a come sia stato possibile dilapidare un patrimonio sociale, politico, culturale, organizzativo di questa qualità e di queste dimensioni, sino al miserevole spettacolo dei giorni nostri.

Qui indichiamo solo le scansioni temporali e gli eventi di un processo inverso che ha preso le mosse sin dalla seconda metà degli anni Settanta, un processo che implica una specifica trattazione e di cui qui non possiamo occuparci:

la caduta del saggio di profitto e la controffensiva sul piano planetario del capitale e delle classi dominanti;

La fine della convertibilità del dollaro in oro e degli accordi di Bretton Woods con cui la finanza internazionale si propone di estendere i propri domini economici e grazie alla quale la strategia del meno Stato-più mercato, va a conseguire un decisivo passo avanti.

L’avvento di Ronald Reagan e Margareth Tatcher sulla scena mondiale;

il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica;

La ristrutturazione capitalistica in Italia e la particolare natura golpista della reazione del padronato italiano (lo stragismo fascista e di Stato, la riesumazione del “marcio di Salò”);

Lo scontro politico sempre più acuto nel gruppo dirigente del Partito comunista e fra Berlinguer e la Cgil;

Le vicende che segnano cesure e salti di fase fondamentali in italia:

la resa alla Fiat del 1980;

l’attacco alla scala mobile iniziato con il taglio di 4 punti di contingenza da parte del governo Craxi;

la liquidazione di un’intera architettura contrattuale e del sistema di relazioni industriali vigente in Italia ad opera del governo Amato nel 1992.

Nell’arco di poco più di un ventennio si completa il totale rovesciamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro.

Vediamo ora, partitamente, come la situazione è cambiata sotto ogni aspetto della condizione lavorativa:

mercato del lavoro
modello contrattuale
ammortizzatori sociali
welfare

Mercato del lavoro

Ancora nel 1988 esistono in Italia 4 fattispecie di lavori atipici:

i contratti a termine, regolati da una legge del’68 che ne prevede l’applicazione soltanto in casi ben individuati: lavori stagionali, sostituzione di donne in maternità o di ragazzi impegnati nel servizio di leva;
i contratti di formazione e lavoro, formalmente previsti per le sole categorie a più elevato contenuto professionale;
i contratti di lavoro interinali, non utilizzabili nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura già strutturalmente segnati da forme di lavoro a termine;
l’apprendistato, che i principali contratti prevedono per un periodo massimo che va dai 6 ai 18 mesi per l’accesso alle categorie più elevate.

L’accordo interconfederale del 1988 fissava nel 10% la quantità complessiva di lavoratori che potevano essere assunti contemporaneamente con queste tipologie contrattuali nell’ambito dell’unità produttiva.

Tutti gli altri dovevano essere assunti con contratto a tempo indeterminato.

Attenzione: l’avviamento al lavoro avveniva per chiamata numerica, che l’azienda doveva inoltrare all’ufficio di collocamento che inviava al lavoro gli iscritti all’albo in base ad una precisa graduatoria.

Ancora: l’intermediazione di manodopera, ovvero il caporalato, continua ad essere vietato da una legge del lontano 1960, la 1369, che lo considera espressamente un reato.

Nel giro di 15 anni la situazione si presenta diametralmente rovesciata.

Il “pacchetto Treu” (1997), ad opera del centrosinistra, la “legge 30” (2003) ad opera del centrodestra, la “ legge Fornero” (2012) ad opera del governo a sostegno bipartisan di Monti, sono le misure che descrivono la traiettoria di progressiva trasformazione del mercato del lavoro in un “libero mercato delle braccia”.

Nel nome della flessibilità (vero mantra ideologico della modernità capitalistica) si procede all’amputazione dei cosiddetti “lacci e laccioli” che frenerebbero la competitività d’impresa.

Ciò che con gli stivali delle sette leghe si produce è una riduzione del costo del lavoro in ogni suo aspetto costitutivo.

Il tramonto (più immaginato che reale) del fordismo viene invocato per giustificare un colossale processo di riorganizzazione delle imprese che concentrano il potere mentre decentrano la produzione, esternalizzando reparti organici al ciclo produttivo (cessione di ramo d’azienda), scomponendo e frazionando gli assetti contrattuali nella medesima impresa e scomponendo il mercato del lavoro in una miriade di tipologie contrattuali, tutte contrassegnate da uno statuto di precarietà: si tratta di rapporti di lavoro a termine, usa e getta.

La fabbrica stessa diventa una sorta di caleidoscopio.

Progressivamente e per stratificazioni successive, si forma un ginepraio di tipologie contrattuali (intorno a 40 fattispecie) di cui rammentiamo le principali:

lavoro interinale, che trasforma l’intermediazione di manodopera da reato ad attività meritoria, appaltata a società private che lucrano un canone interpositorio (si chiama caporalato, ma ora ha tutte le coperture della legge) non soltanto all’azienda utilizzatrice ma, non di rado e fraudolentemente, anche al lavoratore stesso.
Va da sé che il collocamento pubblico è svuotato di ogni ruolo e nessuno più si iscrive alle liste di collocamento poiché la chiamata è diventata nominativa. Lo Stato, la mano pubblica non ha più voce nel regolamentare l’accesso al lavoro dei propri cittadini;

collaborazioni coordinate e continuative;
lavoro a chiamata (“Job on call”);
lavoro condiviso (“Job sharing”);
lavoro in somministrazione;
lavoro occasionale;
lavoro intermittente;
associazione in partecipazione;
lavoro a progetto;
uso fraudolento delle partite Iva;
liberalizzazione dei contratti a termine;
modifica estensiva del rapporto di apprendistato;
certificazione individuale delle deroghe alla contrattazione collettiva;
legislazione “lasca” sulla cooperazione;
cancellazione della legge 482 che disciplinava il collocamento obbligatorio degli invalidi.

Il mercato del lavoro diventa un vero e proprio “discount” delle braccia.

Torna in auge il lavoro servile: il precariato diventa la forma “canonica” di avviamento al lavoro.

La manomissione del diritto del lavoro e del processo del lavoro viene di conseguenza.

Si comincia a dire che il diritto del lavoro è il prodotto di una stagione sociale e politica ormai superata, un reperto archeologico da archiviare.

Per disciplinare i rapporti fra capitale e lavoro basta e avanza il diritto commerciale, quello in uso per normare la transazione fra cose.

Del resto, se il lavoro umano altro non è che una merce che produce altre merci non si vede perché debba essere assoggettato ad una specifica normativa.

La stesso articolo 18 dello Statuto viene dunque progressivamente aggirato, come una sorta di Linea Maginot.

Si entra al lavoro con contratti che hanno già incorporato il licenziamento.

Pietro Ichino, ideologo di una singolare teoria “idraulica” dei vasi comunicanti, applicata al mercato del lavoro (togliere diritti agli “insider” per darne qualcuno in più agli “outsider”) si rivela per quello che è: un tragico inganno che si risolve in un abbassamento delle tutele per tutti.

Si capisce ora, compiutamente, l’importanza della battaglia a suo tempo compiuta per l’estensione dello Statuto dei lavoratori: un diritto o diventa universale o, prima o poi, viene cancellato del tutto.

Sarà Elsa Fornero, ministro del lavoro del governo Monti, a depotenziare l’efficacia dell’articolo 18  sino a renderlo un simulacro: i licenziamenti per “motivi economici” (“giustificato motivo oggettivo”) non comportano più, neppure se illegittimi, la reintegrazione nel posto di lavoro.

Abbozzano tutti, in particolare Pd e sindacati, Cgil compresa che non muove foglia.

Modello contrattuale

Sino ai primi anni Ottanta il modello contrattuale vigente si articola in tre livelli, fra loro giustapposti:

il contratto nazionale di categoria
la contrattazione integrativa, per lo più aziendale, in qualche caso territoriale
l’indennità di contingenza con scatti trimestrali (scala mobile)

Quest’ultima, con un’intesa interconfederale del 1975 (l’accordo Lama-Agnelli) porta il valore dell’indennità di contingenza a 2389 lire al punto, uguali per tutti i lavoratori, indipendentemente dal livello dell’inquadramento professionale di ciascuno.

E’ la spinta del movimento che impone una soluzione “egualitaria”, sulla base dell’assunto che “tutti hanno una sola bocca e un solo stomaco”, che i prezzi aumentano per tutti in egual modo e che, dunque, la parte della retribuzione dovuta all’aumento del costo della vita non può che essere eguale.

Il primo serio colpo a questo modello contrattuale arriva nel 1983, qualche anno dopo la sconfitta alla Fiat, quando la Confindustria blocca i rinnovi contrattuali nazionali e chiede la revisione dell’intero impianto negoziale.

Ne seguì un accordo interconfederale, formalmente si trattò di una mediazione del ministro del lavoro (il cosiddetto “lodo Scotti”), fortemente contestato, soprattutto dai metalmeccanici, che prevedeva la decurtazione del 15% del valore del punto unico di contingenza, la sospensione della contrattazione integrativa per 18 mesi e la determinazione degli aumenti retributivi massimi per i rinnovi contrattuali dell’industria. In cambio il governo si impegnava a fiscalizzare gli oneri sociali per circa 8.500 miliardi, ad annullare il drenaggio fiscale (fiscal drag) per l’anno in corso, a mantenere (cosa mai avvenuta) entro il 13% l’incremento medio delle tariffe e dei prezzi amministrati e a produrre qualche intervento calmieratore su tickets sanitari e assegni familiari.

Nei fatti si produceva il primo episodio di concertazione a perdere che avrebbe nel tempo assunto il carattere di una totale espropriazione dell’autonomia contrattuale del sindacato.

La scala mobile, in particolare, sarà oggetto di progressive manomissioni (semestralizzata, riparametrata, depurata dall’inflazione esterna, programmata) sino alla totale abolizione (1992).

Elementi da approfondire:

La tesi secondo cui la scala era responsabile dell’inflazione
Lo scontro fra Lama e Berlinguer
Il ripudio dell’egualitarismo da parte del gruppo dirigente della Cgil
Le origini della resa: la strategia dell’Eur (1978) e la politica dei sacrifici.

Limpidamente rivelatrice l’intervista di luciano Lama ad Eugenio Scalfari:

“Il sindacato propone ai lavoratori una politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali. (…) Se vogliamo essere coerenti con l’obiettivo di fare diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea. Questo significa in concreto che la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere contenuta. (…) L’intero meccanismo della cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere nelle aziende un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive. (…) I lavoratori, e il loro sindacato, hanno sostenuto in questi anni che il salario è una variabile indipendente e che la forza lavoro è un’altra variabile indipendente… Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza”. Alla domanda di Scalfari: “Vuol dire che se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere?” Lama risponde: “E’ esattamente così”.

la progressiva autoeliminazione di tutti gli automatismi salariali conquistati attraverso la contrattazione (premi di produzione, quattordicesima mensilità, scatti di anzianità).

La tesi secondo la quale gli automatismi “atrofizzano il muscolo della contrattazione”.

Il referendum sulla scala mobile.

La debacle sindacale del 31 luglio ’92. Giuliano Amato impone il protocollo della resa:
convergenza con i parametri del trattato di Maastricht
cancellazione dell’intero sistema di relazioni industriali e del conseguente modello contrattuale
definitiva soppressione dell’indennità di contingenza
blocco delle retribuzioni pubbliche e private
prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari

– Il colpo immediatamente successivo:

svalutazione della lira
varo di una manovra da 93 mila mld di lire con pesanti interventi su pensioni e sanità

Con l’accordo del 23 luglio ’93 viene istituzionalizzata la concertazione triangolare Governo-Sindacati-Confindustria:

riduzione del debito e del deficit dello Stato e subordinanzione delle politiche salariali alla stabilità valutaria;
rafforzamento dell’efficienza e della competitività delle imprese;
sessioni di confronto sulla politica dei redditi in tempi coerenti con i processi decisionali in materia economica;
Il nuovo modello contrattuale:
– contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria di durata quadriennale per la materia normativa e biennale per la materia retributiva.

– un secondo livello contrattuale, aziendale o, alternativamente territoriale

– dinamica salariale coerente con il tasso di inflazione programmata

– contrattazione aziendale (quadriennale) su materie diverse e non ripetitive rispetto a quelle previste per il primo livello

– aumenti legati alla produttività e all’andamento economico dell’impresa
– La proliferazione del salario collegato ad indici di bilancio.

– Un’intera leva di sindacalisti allevata nella pseudoscienza che rende il salario variabile e del tutto aleatorio.

– L’accordo quadro separato “Riforma degli assetti contrattuali” del 22 gennaio

2009, fra Governo, Cisl, Uil, Ugl e dalle Associazioni Imprenditoriali:

L’impianto dell’accordo quadro separato cancella il modello contrattuale universale. Infatti, nell’accordo sono indicati dei “principi”, da cui discenderanno poi accordi interconfederali specifici (per settore, per associazione d’impresa, ecc.);Gli aumenti salariali complessivi sono automaticamente derivati dall’indice previsionale di inflazione costruito sulla base dell’IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo). Questo Indice sarà poi depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati,
In sostanza, si programma la riduzione del salario;
Si spinge verso la progressiva estinzione del contratto nazionale in favore di quello aziendale,
Si rafforza il capitolo sul bilateralismo: più bilateralismo meno contrattazione;
All’azienda il governo del salario e della condizione di lavoro; al sindacato sottogoverno e prebende certe.

La Cgil fa fuoco e fiamme, a parole, ma il 28 giugno 2011 sottoscrive un protocollo d’intesa che è una sorta di “andata a Canossa”:

Si decide la possibilità che intese aziendali fra sindacati e imprese possano derogare in pejus ai contratti nazionali;
accettazione della sospensione del diritto di sciopero da parte dei soggetti firmatari di accordi aziendali, per le materie da questi regolate;

L’articolo 8 della legge di stabilità del settembre 2011, voluta dal ministro del lavoro Maurizio Sacconi va addirittura oltre e assesta il colpo finale, prevedendo che i contratti aziendali e territoriali possano operare «anche in deroga alle disposizioni di legge», quindi anche alle tutele dello Statuto dei lavoratori.

Maurizio Sacconi dichiara che si tratta di una misura «rivoluzionaria» grazie alla quale «l’Italia ha davvero la possibilità di uscire dal Novecento ideologico».

Intanto, nel giugno del 2010, Fim, Uilm e Fismic avevano condiviso e sottoscritto, sotto dettatura della Fiat di Marchionne, un incredibile accordo separato:

taglio delle pause
revoca quota a carico dell’azienda per malattia (per troppo assenteismo)
cancellazione di tutti gli accordi precedenti sugli orari
revoca di tutte le prerogative sindacali (permessi retribuiti, anche per membri di organismi dirigenti, contributi sindacali) in caso di mancato rispetto dell’accordo da parte di organizzazioni o di singoli lavoratori, con una evidente violazione del diritto costituzionale di sciopero
modifica (peggiorativa) di tutta la turnistica e abrogazione di tutte le intese precedenti in materia

Conseguente esclusione della Fiom dalla presenza in azienda, compiuta deliberatamente con il consenso dei sindacati “complici”, ormai divenuti la più classica espressione del sindacalismo “giallo”.

Meritevole di menzione la dichiarazione del segretario Pd, Bersani, che non ha capito nulla di ciò che sta accadendo: “Adesso bisogna fare in modo, e lo dico in particolare al governo, che questa vicenda eccezionale non prenda il carattere di esemplarità”.

Invece, come ognuno sa e come era del tutto prevedibile l’accordo viene prima esteso a tutte le fabbriche Fiat e poi adottato da Federmeccanica come faro delle “nuove relazioni sindacali”.

Ammortizzatori sociali

La legge 223/’91 che disciplinava:

l’intera procedura relativa al ricorso alla cassa integrazione ordinaria (per crisi momentanea di ordinativi); straordinaria (per crisi aziendale o per ristrutturazione) tutte destinate a prevedere il rientro in azienda dei lavoratori sospesi;
il ricorso alla collocazione in mobilità per i lavoratori divenuti strutturalmente eccedentari;
i criteri per l’individuazione nominativa dei lavoratori interessati
le procedure di consultazione sindacale;
viene sostituita dalla legge Fornero che limita il ricorso alla cassaintegrazione e trasforma la mobilità in una indennità di disoccupazione (Aspi) limitata nella durata e nella tutela economica.

Così, alla flessibilità in entrata e in uscita, si somma un abbassamento del sistema di protezione sociale, ridotto ai minimi termini.

Il cosiddetto passaggio dal welfare al blairiano workfare, che avrebbe dovuto garantire le persone dai periodi di disoccupazione involontaria e facilitarne il reimpiego, si rivela un inganno totale.

Welfare

Amato inaugura l’attacco al sistema pensionistico italiano.

Col decreto legislativo del dicembre ’92 l’età pensionabile che per i lavoratori iscritti all’Inps era fissata a 60 e 55 anni anni rispettivamente per uomini e donne è di 65 anni per gli uomini e 60 per le donne.

Viene inoltre indebolito il tasso di sostituzione, vale a dire il coefficiente con cui si rivaluta la retribuzione pensionabile.

Viene portato a 10 anni il periodo di riferimento per la ricerca della retribuzione media utile per il calcolo della pensione.

Ma è il governo Dini, con la legge 8 agosto 1995, a gettare le basi della riforma del sistema pensionistico futuro, con il passaggio dal calcolo della pensione col metodo retributivo a quello col metodo contributivo.

In sostanza, il modello solidaristico e a ripartizione viene cancellato e sostituito dal meccanismo a capitalizzazione individuale: – riscuoterai quanto avrai versato in termini di contributi.

– Solo ai lavoratori che possono contare su almeno 18 anni di contributi (compresi i contributi figurativi, da riscatto e ricongiunzione) all’atto di entrata in vigore della legge, si continua ad applicare il criterio retributivo.

– Viene stabilita La graduale abolizione delle pensioni di anzianità, entro il 2008.

Siamo nel 2004, sulle pensioni rimette le mani Maroni, ministro del lavoro del governo Berlusconi.

Anche lui si dedica allo sport preferito, l’innalzamento dell’età pensionabile. Nel dettaglio, la legge delega 243/04, lasciando invariato il requisito contributivo di 35 anni, modifica l’età minima per accedere alla pensione di anzianità, spostandola da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010 e a 62 dal 2014. Invariati rispetto a quanto già stabilito dalla riforma Dini, invece, rimangono i parametri per l’accesso al pensionamento indipendentemente dall’età anagrafica, ossia 40 anni di contribuzione.

Non era né equa, né logica l’introduzione di una differenza di tre anni lavorativi – il cosiddetto “scalone” – tra chi avrebbe maturato il diritto alla pensione il 31 dicembre del 2007 e chi lo avrebbe fatto il primo gennaio del 2008.

La legge “concesse” inoltre a ciascun lavoratore dipendente la possibilità di scegliere se destinare il proprio Trattamento di Fine Rapporto (TFR) maturato a partire dal 1° gennaio 2007 alle forme pensionistiche complementari (fondi negoziali collettivi, fondi aperti collettivi o individuali, forme individuali assicurative) o mantenerlo presso il datore di lavoro.

Nelle intenzioni, questa apertura alle forme di pensione integrativa rappresentò una spinta decisa a compiere un passo ritenuto quasi necessario: con il sistema contributivo, infatti, è possibile stimare che le pensioni dei lavoratori ammontino (ad essere ottimisti) a meno del il 50 per cento dell’ultimo stipendio e che, dunque, il ricorso a qualche forma pensionistica complementare diventi fondamentale per la sopravvivenza nell’età anziana. Peccato che con i livelli di disoccupazione esistenti, con il dilagare del precariato e con i livelli salariali correnti è solo una fascia limitata di lavoratori che può con continuità alimentare la pensione integrativa.

Proprio sulle pensioni, dopo una fase di grande mobilitazione sindacale, cade il governo-Berlusconi.

Su tale nodo interviene, nel luglio 2007, il protocollo sul welfare firmato dalle organizzazioni sindacali e il governo Prodi: lo scalone di Maroni non viene abbattuto, ma sostituito da un meccanismo di aumento graduale dell’età pensionabile nell’arco di 4 anni destinato a produrre il medesimo effetto: il conseguimento della pensione di anzianità avverrà al possesso di 35 anni di contribuzione e un’età di almeno 57 anni oppure al possesso di 40 anni di contribuzione indipendentemente dall’età anagrafica con l’esclusione da tale “accelerazione” per alcune categorie di lavoratori (operai ed equivalenti, i cosiddetti lavoratori “precoci”, i lavoratori in mobilità e in cassa integrazione, i prosecutori volontari).

Nel 2012 arriva il governo Monti che applica alla lettera il diktat della Bce a firma Draghi e Trichet.

Esecutrice testamentaria il ministro del lavoro Elsa Fornero che vara il colpo di maglio finale (almeno per ora) col voto favorevole della coalizione di partiti che sostenevano il governo Monti, composta da Pd, Pdl, Unione di Centro, Futuro e libertà per l’Italia e altre liste minori.

Fornero decide sostanzialmente di superare ogni fase transitoria, abolire le pensioni di anzianità e di aumentare l’età necessaria per la pensione di vecchiaia.

La clamorosa vicenda degli “esodati”.

Per andare in pensione di vecchiaia ci vorranno come minimo 66 anni e 3 mesi per i dipendenti pubblici e privati e per gli autonomi (contro i 66 anni del 2012). Stessa cosa per le dipendenti pubbliche. Potranno invece lasciare il lavoro a 62 anni e tre mesi le dipendenti privati: un “vantaggio” che cesserà di esistere nel 2018, quando il limite minimo sarà, per tutti i lavoratori, di 66 anni e 7 mesi. Da gennaio salirà anche la soglia per accedere alla pensione d’anzianità, che la riforma chiama “anticipata”: 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne. Ma chi si tirerà fuori dal mondo del lavoro prima di aver compiuto i 62 anni d’età, subirà un taglio dell’assegno: dell’1% per ogni anno fino ai primi due, poi del 2%. Salirà di tre mesi, infine, il tetto per la pensione degli stakanovisti: da 70 anni nel 2012 a 70,3, appunto.

Ma c’è un’altra novità: come si combineranno insieme la riforma Fornero e tutte quelle novità introdotte sotto il governo Berlusconi, che prevedono l’adeguamento delle età pensionabili alla speranza di vita? L’età necessaria per lasciare il lavoro aumenterà senza precedenti, provocando non poche conseguenze su aziende e giovani in cerca di lavoro. Quanto previsto dalla riforma e dagli adeguamenti alla speranza di vita fa sì che il lavoratore, dal 2013, possa scegliere di restare in attività fino a 70 anni e 3 mesi senza essere licenziato (70 anni nel 2012), cioè 4 anni in più della soglia normale di accesso alla pensione di vecchiaia. Questo tetto salirà, per effetto degli adeguamenti automatici fino a 75 anni e 3 mesi nel 2065, applicando le stime contenute nell’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato sugli scatti in relazione alle previsioni di allungamento della vita elaborate dall’Istat.

Il combinato disposto fra elevazione dell’età pensionabile, passaggio al regime contributivo, lavoro precario sottocontribuito, alleggerimento del tasso di sostituzione (criterio di calcolo per la rivalutazione del montante pensionistico) ha già incenerito il futuro di due generazioni di lavoratori e lavoratrici che la pensione non la vedranno neppure o consisterà di un importo risibile.

Matteo Renzi, il Pd e la “soluzione finale” del diritto del lavoro

L’attacco a ciò che resta dell’articolo 18 dopo la cura Fornero;
Significato politico e simbolico della crociata: “E’ assurdo che un giudice, cioè una persona estranea si intrometta nel rapporto fra datore di lavoro e dipendente ed imponga al primo di tenersi un lavoratore di cui egli intenda disfarsi”; “Libero padrone in libera impresa”, come “libera volpe in libero pollaio”;

L’evoluzione del Jobs act:

Prima, un decreto nel quale si rende “a-causale”, per 3 anni, l’assunzione con contratto a termine (ripetibile fino a 5 anni); si modifica la legge sull’apprendistato, consentendo alle imprese di assumere apprendisti fino al 20% dell’organico anche senza avere confermato almeno il 50% degli apprendisti precedentemente assunti (tenere presente che l’apprendistato, se professionale, può durare sino a 5 anni e la contribuzione è risibile);

Poi, un disegno di legge che avrebbe dovuto introdurre:
un contratto a T.I. a “tutele crescenti”
la sospensione dell’articolo 18 per tutti i nuovi assunti per 3 anni, per poi tornare alla legge Fornero (niente reintegra per “licenziamenti economici”;
reintegra solo per “licenziamenti discriminatori” (dove vige l’inversione dell’onere della prova a carico del lavoratore).
Ma Renzi ci ripensa e sub-emenda il suo Jobs act:

l’abolizione dell’articolo 18 deve riguardare anche i licenziamenti discriminatori e la “tutela crescente” significa soltanto che l’entità del risarcimento crescerà in ragione dell’anzianità di servizio.
L’ipocrisia della sinistra Pd che finge di dare battaglia sull’articolo 18 come se l’oggetto fosse la forma che l’articolo aveva nel 1970 e non invece quella, già digerita, del modello Fornero.

La “mediazione” raggiunta nel parlamentino del Pd è che la reintegra potrà intervenire per i “licenziamenti disciplinari”, quando questi siano “manifestamente infondati”, cioè frutto di una dichiarazione falsa e solo se il falso ha per oggetto fattispecie configurabili come reato: ipotesi talmente rare ed improbabili  da aver persuaso persino il Ncd e il falco Sacconi che il problema è inesistente.

La manomissione operata da Renzi non riguarda, tuttavia, soltanto l’articolo 18, ma – aderendo ai “desiderata” di Confindustria – altri articoli di primaria importanza dello Statuto dei lavoratori:

la possibilità di demansionamento (vietata dall’articolo 13);
il controllo a distanza (articolo 4);
il lavoro accessorio, quello che si paga con i vaucher acquistati dal tabaccaio (concepito, all’origine, per i lavori saltuari degli studenti in attività marginali) esteso ad imprese di ogni tipo e grandezza, manufatturiero compreso.
Resta immacolato l’articolo 8 varato con la manovra finanziaria dell’ultimo governo Berlusconi, quello che consente deroghe aziendali all’applicazione dei contratti nazionali e delle stesse leggi dello Stato.

Siamo cioè di fronte ad una devastazione sociale senza precedenti, che riporta indietro di un secolo le lancette della storia.

 

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