scacchidi Dino Greco –

C’è una patologia che corrode dall’interno, come un tumore, le istituzioni, i partiti, i sindacati, le organizzazioni di massa: è la propensione all’obbedienza, è l’acritico istinto autoconservativo degli apparati che consiglia prudenza, sino all’autocensura, ogniqualvolta si tratta di esprimere delle opinioni che comportano un’assunzione di responsabilità.
All’obbedienza – atteggiamento moralmente peggiore del fideismo perché non richiede intima convinzione – si viene educati da chi detiene il potere.
Qui opera un patto talvolta implicito, talaltra esplicito, in ogni caso consapevole in entrambi i contraenti: “tu rinunci alla tua indipendenza, alla tua creatività e ti affidi a me; io ti ricompenserò assicurandoti protezione, garanzia di carriera…sotto il mio ombrello non avrai nulla da temere, purché il tuo appoggio mi sia sempre assicurato”.
Fatalmente, saranno i mediocri più ossequienti a superare di slancio questa selezione: mediocri, ma affidabili, perché proni al comando, quale che esso sia.
L’obbedienza non è pura cupidigia di servilismo. Essa si regge sulla paura: la paura della punizione, il timore di tornare ad occupare quel solo posto che le proprie modeste qualità consentirebbero.
Il potere è centripeto, guarda all’interno, non possiede velleità persuasive, la fascinazione che genera è perversa: esso costringe, blandisce, ricatta, premia o punisce, tiene in scacco.
La sua forza non viene (quasi mai) dal consenso che riscuote, ma dal timore che incute.
E’ così che proliferano stuoli di cortigiani, solerti nel sostenere le tesi del capo, anche quando queste si rivelano manifestamente infondate.
La clonazione, a cascata, di un funzionariato acefalo conferisce all’organizzazione una finta immagine di forza e di coesione interna, ne mimetizza la crisi latente ma – contemporaneamente – ne accentua la separatezza dal proprio corpo vivo. Allora, la distanza fra rappresentanti e rappresentati (fra governanti e governati) si allarga sino a diventare incolmabile.
E’ soprattutto nei momenti di stagnazione sociale che le organizzazioni si sclerotizzano, che i luoghi della rappresentanza si autonomizzano e degenerano nell’autoreferenzialità.
Organo e funzione si separano, i mezzi divorziano dai fini, la democrazia come partecipazione avvizzisce e lascia il posto ai riti plebiscitari.
Il leaderismo non è la variante di una democrazia venata di autoritarismo, ne è l’esatto contrario. E’ la rinunzia al proprio ruolo, al pensare in proprio.
C’è un Cesare che pensa ed opera per me. Egli non può sbagliare: se cade, tutto precipita.
Il dissenso diventa allora il peggiore dei delitti, la fenditura che incrina la diga. In esso, nella rivendicazione di criticità, si intravede il rischio della dissoluzione o di un indebolimento delle inossidabili certezze e, soprattutto, del potere costituito.
Il suo intrinseco monolitismo non sa (non può) riconoscere la ricchezza della dialettica. Che invece dovrebbe essere stimolata e accolta come una benedizione da parte di chi lavora per la democrazia.
Per mettere alla prova la realtà occorre vederla camminare sulla corda tesa, perché “solo quando le verità si fanno acrobati possiamo giudicarne il valore”.
Quando invece si rinuncia alla ricerca del vero, che sempre confligge con l’inerzia della realtà data, si impone la “verità rivelata”, appannaggio di una casta sacerdotale che custodisce l’ortodossia e la brandisce come una clava contro chiunque vi si opponga.
Chi dissente è un eretico, un seminatore di discordia, da eliminare o da neutralizzare. Saranno soltanto i tempi, le circostanze, i metodi in auge a stabilirne il modo.
Anche il potere rivoluzionario tende fatalmente ad autocelebrarsi, ad ossificarsi, a vedere nella dialettica che si produce al suo interno un imminente pericolo dissolutivo ed eversivo del nuovo ordine.
Ma negando il dissenso la rivoluzione nega se stessa: nata per abbattere il dispotismo diventa essa stessa dispotica, si converte nel suo opposto.
Ecco perché quando si insedia un potere, di qualsiasi natura, è indispensabile fare nascere degli anticorpi, perché è nella fisiologia del potere mantenersi ad ogni costo.
Quando il carattere democratico di un’organizzazione viene meno, quando la regola si dissolve nell’arbitrio, allora è necessario ribellarsi: “la disobbedienza, per chiunque conosca la Storia, è la virtù originale dell’uomo. Con la disobbedienza il progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e la rivolta”.
La disobbedienza, infatti, non è mai soltanto oppositiva. In essa c’è sempre, più o meno consapevolmente, un nucleo “costituente”. Occorre rendere esplicito e organico quel nucleo, far vivere fino in fondo, marxianamente, lo “spirito di scissione”.

Ciò significa gettare nella lotta tutte le proprie risorse intellettuali, politiche e morali.
Se ciò non avviene, si cade inesorabilmente nella subalternità, si apre una fase di “rivoluzione passiva”.

Sindacato e Partito democratico- ciascuno nel proprio ambito – condividono lo stesso processo regressivo: il primo rinunciando, in quanto ritenuta velleitaria e rétro, ad un’autonoma soggettività del lavoro e rinculando dentro la cultura d’impresa; il secondo riducendosi ad una variabile più potabile del pensiero liberale, lungo una traiettoria ormai del tutto estranea all’ispirazione costituzionale.
Il nostrano riformismo ne è un eloquente esempio: introdurre piccole dosi di nuovo per salvare il vecchio, per consolidare l’egemonia delle classi dominanti.

Senza una critica radicale e senza una conseguente lotta sociale la crisi del capitalismo, per quanto profonda, si risolverà in una ristrutturazione: il capitalismo si rinnoverà trovando in se stesso le risposte che ne consentano la perpetuazione.
In altri termini, se il governo senza (separato dalla) società genera privilegi castali, corruzione, degenerazione della democrazia, derive oligarchiche, la sinistra senza (separata dalla) società, o introietta questi vizi omologandosi e, dunque, disintegrandosi, oppure diventa proteiforme, paralizzata da un sincretismo culturale che la rende incapace di elaborare una visione unitaria della realtà.

Al contrario, essa deve rifondare se stessa riscoprendo le proprie radici sociali nella classe lavoratrice nella quale e per il riscatto della quale è nata, nella inestirpabile contraddizione fra capitale e lavoro, nella realtà non esorcizzabile dello sfruttamento, nella rivendicazione della libertà e dell’uguaglianza, nell’antagonismo fra il modo capitalistico di produzione e le condizioni di riproduzione della specie umana come ente naturale.

 

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