di Dino Greco –
Lo sforzo che cercherò di rendere utile in questa introduzione è quello di individuare e mettere a fuoco quello che a mio avviso è il filo conduttore del pensiero e dell’ingaggio politico di Enrico Berlinguer, perché un filo rosso, nella sua biografia e nella sua eccezionalmente intensa vicenda politica c’è, ed è bene subito dichiararlo.
Perché esso rimarrà fermo e costante, pur nell’evolversi della situazione politica italiana e nel succedersi delle fasi e delle strategie, anche significativamente diverse, che egli impresse all’azione del Partito comunista italiano.
Ebbene, questo punto fermo è l’idea che vanno superati il modo capitalistico di produzione ed i rapporti sociali in cui esso è innervato, in sostanza, che si può e si deve costruire il socialismo in Italia. Per dirlo con le sue stesse parole, che si tratta di abolire “ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione sulle altre nazioni”. Ed affermare “la pace fra tutti i popoli; il progressivo avvicinamento fra governanti e governati affinché la democrazia sia piena ed effettiva, e affinché la libertà diventi anche liberazione, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura”.
Il grande tema con il quale Berlinguer si cimenta è – del tutto consapevolmente – quello della gramsciana “rivoluzione in Occidente”, questione storicamente irrisolta dal movimento comunista e che egli pone all’ordine del giorno nell’Italia che aveva fatto della Costituzione democratica e antifascista la propria legge fondamentale.
Quest’avvertenza preliminare è quanto mai necessaria perché assistiamo oggi ad una singolare e in qualche caso sospetta riesumazione politica di Berlinguer, seguita a trent’anni di ripudio prima e di oblio poi da parte della vulgata post-comunista. Una riesumazione che ha cercato di offrire una rappresentazione edulcorata e talvolta contraffatta della figura Berlinguer: una sorta di sterilizzazione del suo pensiero. Così di lui si ricorda volentieri che era “una brava ed onesta persona”, quasi un santo, contrapposto ad un presente che vede la politica-politicante infestata da corrotti, lestofanti, malversatori: insomma, una specie di icona da portare in giro come la Madonna pellegrina. Sicché la stessa “questione morale” (che ebbe un significato rilevante nella critica alla cosiddetta modernizzazione capitalistica di impronta craxiana), viene ridotta ad un puro impulso moralistico e viene spogliata di ogni portata politica.
L’intenzione, non proprio innocentemente perseguita, è quella di cancellare il Berlinguer “comunista e rivoluzionario”, che tale rimase sino all’ultimo. Ma, come dice il mio amico Aldo Tortorella, talvolta anche l’ipocrisia serve a dare risalto alla virtù, dunque, benché in forme non di rado sgangherate, ben venga questo ritorno d’attenzione.
Noi proveremo a farlo, tentando di restituire a Berlinguer e al partito che egli guidò per 12 anni il valore di una storia, di una ricerca, di una proposta da cui c’è – a giudizio di chi parla – ancora molto da imparare.
Cominciando con le parole (“rivoluzione”, “fuoriuscita dal capitalismo”, “classe operaia”, “lotta di classe”, “comunismo”) che Berlinguer usava sempre (e per lui le parole erano davvero pietre) senza alcuna ridondanza o concessione retorica, non – cioè – come ultimo, residuo feticcio identitario, ma per il loro intimo significato, come concetti vitali nella ricerca aperta, mai dogmatica, di ispirazione marxiana e gramsciana, di una via per una radicale trasformazione dei rapporti sociali: una via diversa tanto dal socialismo di matrice sovietica, quanto dalle socialdemocrazie.
Ci sono due date – entrambe assai note – e altrettanti passaggi fondamentali che scandiscono, anche sotto il profilo teorico, il percorso che porta alla piena autonomia del Partito comunista italiano dal Pcus: il 1969, a Mosca, nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti ed operai, quando Berlinguer respinge la teoria del “partito guida” e dell’uniformazione dei modelli di socialismo a quello sovietico, rivendicando l’originalità e la specificità della via italiana al socialismo, da realizzarsi nella democrazia, nel pluralismo, nel pluriparitismo.
“Noi ci battiamo – aveva detto a Mosca – per una società socialista che sia il momento più alto dello sviluppo di tutte le conquiste democratiche e garantisca il rispetto di tutte le libertà individuali e collettive, della libertà religiosa, della cultura, delle arti e delle scienze. Noi pensiamo che in Italia si possa e debba non solo avanzare verso il socialismo, ma anche costruire la società socialista, col contributo di forze politiche, di organizzazioni, di partiti diversi e che la classe operaia possa e debba affermare la sua funzione storica in un sistema pluralistico e democratico”.
Poi, otto anni dopo, nel 1977, sempre a Mosca, in occasione del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, quando afferma con grande forza il concetto del “valore storicamente universale della democrazia” come elemento consustanziale al socialismo, rendendo questa volta palese ed esplicita la critica severa alle forme di socialismo realizzate che non hanno saputo svilupparsi nel rispetto della libertà, del pluralismo politico, della democrazia. Perché – ecco la convinzione che va consolidandosi nel segretario del Pci – l’abolizione della democrazia politica col pretesto che è soltanto formale sbocca fatalmente nella resurrezione di uno stato autoritario, premoderno, addirittura poliziesco. Berlinguer comprende che un socialismo senza democrazia politica è un socialismo non soltanto elementare, ma anche difettoso in senso tecnico perché non riesce più a funzionare soddisfacentemente neppure sul piano produttivo. Si tratta, a ben vedere, della rivendicazione della rivoluzione non solo come mutamento dei rapporti di produzione, ma anche come grande riforma intellettuale e morale, come superamento della gerarchia fra governanti e governati.
C’è qui uno sforzo creativo di grande portata. Berlinguer vede un rapporto diretto fra i fini e i mezzi impiegati per raggiungerli. Anzi, si può affermare che per Berlinguer il fine è – sartrianamente – “l’unità sintetica dei mezzi impiegati”.
Ma la sua critica, perfettamente speculare, è rivolta alle socialdemocrazie, incapaci di superare l’universo dei rapporti sociali borghesi, cioè lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e di raggiungere un’idea non solo formalistica della democrazia, ma intesa come liberazione sostanziale, come autogoverno dei produttori associati.
Il tema della trasformazione socialista si articola dunque, per Berlinguer, in due grandi obiettivi che stanno fra loro in un rapporto di simbolizzazione reciproca, strettamente intercondizionati teoricamente e storicamente: la socializzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del potere. Berlinguer ha ben presente che lo scollamento di queste due imprese ha condotto ad una riduzione utopistica dei grandi ideali di universalizzazione: una socializzazione economica senza una democrazia politica è condannata a diventare pianificazione burocratica e autoritaria dell’economia e quindi spossessamento delle libertà politiche in nome delle libertà sociali.
Dall’altra parte, una democrazia formale senza trasformazione dei rapporti capitalistici si riduce a velleitaria immaginazione di una vita comunitaria in realtà impossibile dentro le diseguaglianze economico-sociali e le ingiustizie che la società capitalistica sistematicamente riproduce.
La stessa grande promessa della socialdemocrazia si è rivelata impraticabile perché la democrazia politica non ha potuto avere ragione del capitalismo; al contrario, è il capitalismo che ha largamente avuto ragione della democrazia, giungendo sino al punto di immiserirla e ridurla ad un simulacro.
Dunque, la società cui guarda Berlinguer non è la società appiattita sulla massificazione: è una società di liberi ed eguali ove – secondo la celebre espressione di Marx – il libero sviluppo di ognuno è la condizione del libero sviluppo di tutti.
Insomma, tanto il socialismo quanto le socialdemocrazie avevano dato, per Berlinguer, ciò che potevano dare: la critica del socialismo realizzato e, contemporaneamente, il rifiuto di una funzione puramente emendatrice dell’ordine di cose esistente, rappresentano lo sforzo creativo, la stella polare che guideranno Berlinguer lungo l’intera sua vita.
Il 1977 è – da questo punto di vista – un anno di fondamentale importanza. Il paese è attraversato da una crisi economica pesantissima. Ma il Pci ha alle spalle tre successi straordinari: la vittoria nel referendum sul divorzio, quello delle elezioni amministrative del ’75 (dove compie un balzo prodigioso, passando dal 27,9 al 33,5 per cento dei suffragi, ad un’incollatura dalla Dc) e quello delle elezioni politiche dell’anno successivo, quando va a votare il 93,4% degli aventi diritto e il Pci raccoglie il 34,4 per cento dei voti (oltre 12 milioni e 600 mila).
Ebbene, di fronte a risultati di questa portata, Berlinguer apre una riflessione di straordinaria portata culturale e politica e promuove, a 15 giorni di distanza l’una dall’altra, due iniziative: un convegno rivolto agli intellettuali italiani, presso il Teatro Eliseo di Roma, e la conferenza nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti, presso il Teatro Lirico di Milano. Agli uni e agli altri, agli intellettuali come agli operai, esattamente negli stessi termini, Berlinguer pone una questione cruciale che si può così riassumere: giunti a questo punto della nostra forza – dice – non possiamo soltanto preoccuparci della redistribuzione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale, che rimane per i comunisti un obiettivo irrinunciabile. Il tema che è maturo “sotto la pelle della storia” è “come, cosa produrre e per chi” e “lo svolgimento di questo tema è più che mai nelle mani dei produttori, della classe operaia e delle forze intellettuali riunite intorno ad essa”.
Facciamolo parlare direttamente, Berlinguer: “La questione della qualità dello sviluppo – afferma – si impone oggi con sempre maggiore forza. Si impone per l’ormai evidente assurdità di perseguire all’infinito i traguardi di uno sviluppo puramente quantitativo – l’accumulazione per l’accumulazione, che è una legge del capitalismo – e si impone perché, anche quando si vengono in qualche misura soddisfacendo bisogni elementari, sorge il problema di una compiutezza diversa e più alta dell’esistenza umana. Qui deve rivelarsi la nostra capacità. Non pensiamo certo di possedere noi la ricetta in cui siano indicati i contenuti di un nuovo incivilimento. Ma è nostro dovere saper cogliere ciò che viene via via maturando nella società, nelle coscienze, soprattutto dei giovani. Non condividiamo alcuna ipotesi di inevitabile catastrofismo. Tuttavia se non si affermerà la capacità di imboccare una strada nuova, i pericoli si annunciano vicini ed enormi. Perché “la tendenza che sta emergendo è alla chiusura, al ritorno all’indietro, a nostalgie, a recuperare o ripristinare vecchie costumanze e vecchie gerarchie: cioè vecchie discriminazioni e vecchie ingiustizie. Non c’è modo di resistere e di contrattaccare vittoriosamente se le forze di sinistra, e dunque innanzitutto i comunisti, non saranno capaci di farsi interpreti delle domande che oggi si pongono e di corrispondergli con nuovi programmi dai contenuti nuovi”.
In definitiva, la questione posta è che non si può rimanere imprigionati nel recinto dei rapporti sociali dati che ormai rappresentano – marxianamente – catene per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Per promuovere un nuovo incivilimento occorre intaccare il modello capitalistico di accumulazione. La questione del governo si pone sì, ma non come occupazione dello Stato da parte di un partito, bensì come profondo rinnovamento delle classi al potere e dei metodi di governo. Perché ciò avvenga – aggiunge Berlinguer – “è necessario un intervento innovativo dell’assetto proprietario nell’assetto delle imprese”.
Quella che Berlinguer chiama in causa è – precisamente – la questione proprietaria, di cui tracce ben visibili sono presenti nell’architettura della Costituzione repubblicana e, in modo strutturalmente definito, in quel titolo III che era rimasto in latenza per oltre un quarto di secolo.
Ma qui Berlinguer va oltre e prende per le corna il tema della transizione al socialismo. L’Italia – dice – è la nazione nella quale la crisi è più grave che in altre aree del mondo capitalistico e “nella quale, però, sono maggiori che in molti altri paesi le possibilità per lavorare dentro la crisi stessa, per farla diventare mezzo per un cambiamento generale della società”. Quello che egli pone dunque all’ordine del giorno è un nuovo livello dell’egemonia del proletariato. E’ cioè la necessità di abbandonare ogni dimensione corporativa e guadagnare la capacità di guardare al tutto da un punto di vista di classe.
Berlinguer lo fa affrontando la questione da due lati: dal lato dei consumi, contro il consumismo acefalo che rende il popolo succube di bisogni fittizi e di forze estranee, per affermare consumi “socialmente ricchi”; e dal lato della produzione, che nell’attuale sistema ha come unica bussola il profitto privato.
Berlinguer porta dunque la riflessione politica ad un livello, mai raggiunto prima, di comprensione del processo storico e del ruolo della classe operaia verso la costruzione di una società in cui i produttori associati, riuniti in libere e democratiche istituzioni, possano davvero promuovere il proprio autogoverno e divenire protagonisti del proprio destino.
Questa proposta politica sarà fortemente fraintesa e altrettanto osteggiata, fuori e dentro il partito, da destra e da sinistra. L’accusa che gli verrà mossa sarà quella di “pauperismo”, di “ascetismo”. Berlinguer replicherà seccamente, 15 giorni dopo, proprio nelle conclusioni della conferenza operaia, con queste parole: “La proposta politica di austerità qual è da noi intesa (che naturalmente non aveva nulla a che fare col mantra liberista a noi contemporaneo, ndr) può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. La politica di austerità deve essere diretta – precisamente – contro la politica restauratrice e reazionaria, e cioè sia contro l’insania consumistica, sia contro il tentativo di far sì che l’uscita della crisi sia pagata solo dalla classe operaia e dai lavoratori. Ecco dove sta oggi lo scontro di classe. Per così concludere: “Qualcuno, sentendoci parlare di austerità ha creduto di poter fare della facile ironia: forse voi comunisti – hanno detto – state diventando degli asceti, dei moralisti? Risponderò con le parole che pronunciò , mentre infuriava ancora la guerra nel Vietnam, il primo ministro di quel paese, compagno Pham Van Dong: ‘Il socialismo non significa ascetismo. Sostenere una simile argomentazione sarebbe ridicolo, reazionario. L’uomo è fatto per essere felice: solo che non è necessario, per essere felici, avere un’automobile… Oltre un certo limite materiale le cose materiali non contano poi gran che; e allora la vita si concentra nei suoi aspetti culturali e morali. Noi vogliamo che la nostra vita sia una vita completa, multilaterale, ricca e piena, una vita nella quale l’uomo esprime tutti i suoi valori ideali. E’ questo che da senso alla vita, che dà valore ad un popolo’”.
Nella storiografia comunista si è spesso parlato di “due Berlinguer.”, quello del ‘compromesso storico’ e quello che – giunta su un binario morto la fase della ‘solidarietà nazionale’ – rompe duramente con la Dc e imprime al Pci una netta svolta a sinistra.
Chi vi parla pensa che questa lettura soffra di schematismo manicheo. Certo vi fu una cesura – e assai netta – fra le due stagioni politiche. Ma al centro della riflessione politica e teorica di Berlinguer vi fu, nell’una come nell’altra, la scelta di quella che egli riteneva la strada migliore e la più produttiva per la trasformazione dell’ordine di cose esistente, in direzione del socialismo. E quando egli si accorse che la strategia del ‘compromesso storico’ portava in un cul de sac fu proprio lui il critico più severo di se stesso e di quella linea politica che, del resto, non ebbe modo di dispiegarsi dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.
L’errore, nella drammatica tensione di quegli anni (colpo di stato in Cile sotto la regia statunitense, regime dei colonnelli in Grecia, fascismo franchista in Spagna e salazarista in Portogallo, golpismo, poteri occulti, stragismo nero e di stato in Italia) fu quello di ritenere possibile, per così dire, una “costituzionalizzazione”, una democratizzazione della Dc, una riconduzione di essa ad un libero gioco democratico, sopravvalutando il ruolo che in quel partito potesse (volesse) svolgere Aldo Moro. Poco dopo la sua tragica scomparsa si sarebbe visto quanto quella di Moro fosse nella Dc una posizione minoritaria.
Errore ancor più serio fu quello di ritenere possibile un affrancamento della borghesia industriale italiana dal proprio tendenziale sovversivismo, dalla propria inclinazione tendenzialmente reazionaria, tante volte affiorata nella storia del paese e della stessa Italia repubblicana. L’illusione fu quella di poterla piegare ad un compromesso stabile, tale da rendere definitive e consolidate le conquiste sociali e di potere realizzate nel decennio precedente dalla classe operaia: conquiste che, al contrario, il grande padronato stava duramente mettendo in discussione, nel quadro di un pesante processo di ristrutturazione dei processi produttivi la cui portata fu del tutto sottovalutata.
Errori gravi, che Berlinguer riconobbe esplicitamente, assumendosene la responsabilità, con la consueta onestà intellettuale, senza sconti per se stesso. Così si esprimerà, nel 1981, in un’intervista ad Eugenio Scalfari: “Durante i governi di unità nazionale, anche per nostri errori di verticismo, di burocratismo e di opportunismo avevamo perso il rapporto continuo e diretto con le masse”. E qui vive un’esplicita allusione al modo distorto con cui una parte non piccola del gruppo dirigente comunista interpretò la linea del ‘compromesso storico’, depotenziandola del suo contenuto innovatore per riproporla come puro accordo di governo, in termini emendativi dei rapporti sociali esistenti. “Ce ne siamo resi conto in tempo – continuava Berlinguer – Posso assicurarle che un’esperienza del genere non la ripeteremo mai più (…). Posso aggiungerle che avevamo anche puntato sulla possibilità che la Dc potesse davvero rinnovarsi e modificarsi, cambiare metodi e politica, decidersi a porsi all’altezza dei veri problemi del paese. Non ho difficoltà a dire che su questo punto abbiamo sbagliato, o meglio che i mezzi usati non conseguivano lo scopo. Quando ce ne siamo resi conto abbiamo messo la Dc con le spalle al muro, cioè abbiamo detto che una simile Dc era incapace di dirigere l’opera di risanamento necessaria e che si facesse da parte”.
La svolta impressa da Berlinguer è molto netta e ne sono emblematica espressione due vicende, entrambe legate al rapporto con la classe operaia e alla questione che per Berlinguer rimane sempre decisiva della rappresentanza sociale e del rapporto stringente fra questa e ogni possibilità trasformativa della società italiana.
La prima risale al 1980, quando la Fiat decide di dare uno strappo netto e ingaggia una prova di forza, intimando 14 mila licenziamenti. Gli operai avevano reagito bloccando la produzione e presidiando i cancelli degli stabilimenti per 35 giorni. Berlinguer entra subito in campo e dal comizio conclusivo della festa nazionale de l’Unità invita governo azienda e sindacati a trasferirsi a Torino, per trattare davanti agli operai, perché la trattativa non si svolgesse lontano e “all’oscuro dei lavoratori”. Il richiamo, esplicitamente polemico, era alla trattativa in corso ai cantieri di Danzica, in Polonia, dove “gli altoparlanti trasmettevano le cose che gli attori della trattativa si dicevano”. Si trattava di uno strattone anche per il sindacato, e a Lama in particolare, con il quale l’area di dissenso era venuta via via allargandosi, in particolare da quando, nel gennaio del ’78, il segretario della Cgil aveva dichiarato, in un’intervista a La Repubblica che “se vogliamo essere coerenti con l’obiettivo di fare diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli occupati deve passare in seconda linea (…)”. E ancora: “Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive”. E infine: “Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti (…) e che la forza lavoro è divenuta pur essa una variabile indipendente (…). Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza”.
Lo strappo è fortissimo, la reazione di Berlinguer è gelida, come racconta lo stesso Lama in una lunga intervista a Giampaolo Pansa del 1987, dove l’ex segretario della Cgil raccontata senza veli la dimensione tutta politica di un dissenso radicale che assumerà i tratti di una vera rottura di faglia che coinvolgerà, in dimensioni e qualità crescenti, l’insieme del gruppo dirigente del Pci.
Berlinguer voleva che il Pci si riappropriasse pienamente della rappresentanza di classe, colmando lo iato che si era creato negli anni della solidarietà nazionale tra la politica istituzionale del partito e la realtà sociale che voleva rappresentare. Per questo, anche se gli operai rischiavano seriamente una sconfitta, il Pci doveva essere al loro fianco.
Così Berlinguer compie un gesto clamoroso: va davanti ai cancelli della Fiat, a Mirafiori, a Rivalta al Lingotto, alla Lancia di Chivasso accolto ovunque da una folla enorme di operai. E qui, interrogato da un lavoratore che gli rivolge l’esplicita domanda su cosa il Pci avrebbe fatto qualora gli operai avessero occupato gli stabilimenti, B. risponde che “se si dovrà giungere a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte”.
Ma il sindacato aveva già deciso e subito dopo la cosiddetta marcia dei 40 mila, la capitolazione fu senza condizioni, l’accordo che poneva in cassa integrazione a zero ore 24 mila lavoratori, una sorta di prelicenziamento, fu stilato sotto dettatura dell’amministratore delegato della Fiat, Cesare Romiti, malgrado l’aperto dissenso delle assemblee dei lavoratori, con un vulnus democratico che sarebbe stato gravido di conseguenze per il futuro.
Berlinguer fu molto criticato – da Lama e dalla destra del partito – per questo suo gesto, giudicato, per il merito e per il metodo, un’invasione di campo, un’esplicita revoca della delega che il partito aveva dato ai comunisti del sindacato. Tesi priva di realtà, perché Berlinguer credeva fermamente tanto nell’unità quanto nell’autonomia del sindacato, ma proprio per questo rivendicava anche l’autonomia del partito e il suo ruolo di rappresentanza politica della classe operaia. Altri sostennero a quel tempo che il capo del Pci fece male a sovraesporsi in uno scontro sociale a forte rischio di insuccesso. Ma – come ricordò più avanti nel tempo Mario Tronti – “la figura di un politico non si giudica soltanto dall’esito provvisorio delle sue battaglie, ma anche dalla scelta delle battaglie, dalle intenzioni, dall’etica della responsabilità, con cui arriva ad assumere in proprio un’occasione di lotta”. E poi – aggiungeva – “non sono giuste soltanto le battaglie che si vincono. Alcune di queste, anche se perdute, in quanto giuste, servono a mettere un germe per il futuro, ad impedire che la sconfitta si tramuti in una disfatta. Anche Marx sapeva che la Comune di Parigi, con il suo enorme carico di novità, poteva andare incontro ad una tragica sconfitta. E prima che la lotta iniziasse invitò alla prudenza. Ma quando la lotta ebbe inizio, allora non manifestò più esitazioni e fu dalla parte dei comunardi, che “vollero scalare il cielo”. Senza la follia di quel tentativo – concludeva Tronti – mancherebbe una pagina straordinaria nella nostra storia.
Ebbene, in Berlinguer agisce robustissima la convinzione che c’è una cosa che i comunisti non possono mai fare: dividersi dagli operai, dai lavoratori, senza i quali qualunque impresa diventa velleitaria, impossibile. Di questa convinzione egli diede prova sin dal ’56, quando il gruppo dirigente del Pci mise sotto accusa Giuseppe Di Vittorio che aveva condannato l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Urss e il solo Berlinguer, il più giovane membro della Direzione, si alzò a difendere il segretario della Cgil il quale aveva sostenuto che non è accettabile che un paese socialista mandi l’Armata rossa a sparare sugli operai in rivolta. Non si trattò, dunque, davanti ai cancelli della Fiat, di un’operazione di puro posizionamento, quasi disperato, in un momento di presunta afasia strategica e di ripiegamento del partito su se stesso dopo la sconfitta della ‘strada maestra’, quella del ‘compromesso storico’, ma di una convinzione profonda che in ogni stagione politica Berlinguer seppe sempre tenere ferma.
La seconda vicenda risale a due anni dopo, nel 1982, quando il governo presieduto da Bettino Craxi decise di tagliare quattro punti di scala mobile. Cisl e Uil avevano già firmato l’accordo e la Cgil era spaccata e molto incerta nella stessa leadership di Lama, ma Berlinguer metterà in campo tutta la forza del Pci per contrastare quella che riteneva non soltanto una plateale ingiustizia, ma anche un attacco politico alla classe operaia e allo stesso sindacato. Dirà Berlinguer: ”Non si può dimenticare che la difesa del potere d’acquisto dei salari, e soprattutto di quelli più bassi, per il sindacato costituisce un dovere istituzionale, mancando al quale esso sparirebbe; e per il nostro partito, per noi comunisti, costituisce un vincolo indispensabile per qualificare un nuovo modello di sviluppo generale dell’economia italiana (…). Occorre essere consapevoli che l’attacco alla scala mobile è un aspetto dell’offensiva che tende a scaricare sulla classe operaia tutto il peso della crisi, non solo riducendo la sua quota di reddito, ma colpendo il suo potere contrattuale, quindi il suo peso sociale, e perciò, in definitiva, la possibilità di esercitare la sua funzione politica dirigente nazionale. Ecco perché abbiamo detto che la posta dello scontro in atto è altissima: perché è anche politica”.
Gli anni Ottanta sono gli anni dell’avvento al potere di Reagan e della Tatcher, della rivincita antioperaia delle classi dominanti su scala planetaria e, in Italia, sono gli anni di Craxi, segnati dalla volontà di imporre una “modernizzazione” capitalistica che in realtà trascina con sé un rapido imbarbarimento della politica, sino a limiti estremi di corruzione, di degenerazione della vita pubblica e della democrazia.
Berlinguer, invero molto solitariamente, avverte la portata devastante del processo in corso e ne denuncia il carattere eversivo. E il 28 luglio del 1981 affida ad Eugenio Scalfari un’intervista che malgrado la sua ampia notorietà vale la pena richiamare in due passi di eccezionale durezza, lucidità e preveggenza, a maggior ragione se poniamo mente a quali profondità la degenerazione sia ruzzolata nel tempo presente. “ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su quel modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sottoboss’”.
Questa drammatica descrizione dello stato in cui versa il paese lascia poi il posto all’analisi e all’indicazione della rotta da seguire per reagire: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte fasce della politica, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano”.
Ebbene, questa cruda ma non meno veritiera rappresentazione della realtà incontra, nello stesso gruppo dirigente del Pci, forti dissensi da parte di tutti gli orfani della solidarietà nazionale e – massimamente – da quanti non condividono il giudizio di Berlinguer nei confronti di Craxi e del Psi, accusato di essersi separato dall’alveo del socialismo per approdare ad una concezione e ad una linea di netta rottura della sinistra e di avere in definitiva sposato una concezione che fa del potere fine a se stesso lo scopo a cui subordinare tutto il resto.
La linea dell’alternativa democratica diventa, in questo quadro, la sola praticabile, per tenere fermo l’obiettivo e il fine di una profonda trasformazione della società.
Il progetto dell’alternativa non è però riducibile all’unità delle sinistre. Ecco la relativa continuità che esiste nella figura di Berlinguer fra le due strategie dell’alternativa e del ‘compromesso storico’. La prospettiva dell’unità fra le grandi forze culturali e popolari del paese viene tenuta ferma, superata e al tempo stesso inglobata nel carattere democratico del processo di alternativa. Solo che queste forze e culture non vengono più iscritte ai rispettivi partiti, come aveva tentato di fare, sbagliando, l’esperimento della solidarietà nazionale. Si apre invece la ricerca delle forme politiche nuove attraverso cui fare esprimere quel processo: l’attenzione al rapporto con i movimenti, dei giovani, delle donne, per la pace, in una dimensione non solo nazionale ma planetaria, diventano il glutine di nuove alleanze il leit motiv del pensiero e di una straordinaria attività del segretario comunista. Si trattava cioè di dare “il giusto peso” anche a quei “movimenti che non sono definibili e organizzabili secondo lo schema economico-sindacale” ed agire per organizzare su di essi e con essi un nuovo movimento di massa.
Sono anni in cui Berlinguer sconta – come ho già sottolineato – una contestazione sempre più forte nel gruppo dirigente centrale, preoccupato di quella politica così esplicitamente antagonistica che deve sembrargli votata all’isolamento, ma alla quale fa da contrappunto un prestigio enorme, nella base del suo partito e nella considerazione internazionale, in Europa, in Asia, in America latina, in Africa, nei movimenti di liberazione del terzo mondo. Temi sui quali meriterà fare uno specifico approfondimento, essendo assai riduttivo “spacchettare” il pensiero di Berlinguer separandolo dalla dimensione internazionale, perché fu sempre questo il riferimento dei suoi “pensieri lunghi”.
Questi sono anche gli anni, in Italia, in cui viene richiesto al Pci, in modo sempre più pressante – e non solo dagli avversari – di cambiare natura, di pervenire ad una nostrana Bad Godesberg. Già nel 1981, Berlinguer, sulla rivista teorica del partito, su Critica marxista, aveva ostinatamente spiegato e ribadito in cosa consistesse la persistente diversità del Pci, la sua irriducibile volontà di “lottare per un mutamento radicale della società” e “prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale”. “Noi comunisti – aveva detto citando un’antica espressione di Marx – non rinunciamo a costruire una società di liberi ed eguali, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la produzione delle condizioni della loro vita”.
Nel dicembre dello stesso anno tornerà sull’argomento con un testo ancora più esplicito apparso sul settimanale del partito “Rinascita”, dal titolo: “Rinnovamento della politica, rinnovamento del Pci”, attraverso il quale egli si rivolge – contemporaneamente – all’esterno e all’interno del suo partito: “Deve fare riflettere il fatto che anche in Italia (…) ha cominciato a manifestarsi un distacco fra notevoli strati della popolazione e i partiti. Lo si è potuto constatare anche nell’aumento delle astensioni dal voto e dalle schede bianche o nulle; e lo si vede nell’atrofizzarsi della vita interna e della militanza attiva in quasi tutti i partiti. Non si può dire, tuttavia, che sia in atto una generale caduta dell’impegno politico che anzi, per molti aspetti, tende a crescere, manifestandosi però anche fuori e indipendentemente dai partiti. Così è avvenuto, in parte, nel referendum sull’aborto, e così avviene oggi nel movimento per la pace. Vi è qui la prova della necessità di un rinnovamento dei partiti e dei loro modi di fare politica, se si vuole evitare la crescita di un divario che può diventare assai pericoloso per le sorti della democrazia. Non si tratta solo di seguire, di assecondare di non ostacolare, ma di comprendere, di fare proprie, di interpretare politicamente e di fare pesare nelle scelte politiche le insoddisfazioni, le ribellioni, le rivendicazioni che esprimono le masse contro la corsa agli armamenti, le spese militari, le minacce di guerra, contro i meccanismi capitalistici che tendono a emarginarle e contro i partiti che mirano a strumentalizzarle (…). Questa sensibilità, in qualche misura il nostro partito l’ha avuta (…). Ma su tale direzione bisogna progredire con più slancio di prima e, per farlo, ciò che siamo stati capaci di fare non basta più (…). Se si acquisisce fino in fondo questa concezione aggiornata della lotta politica e dei suoi contenuti, questa visione per tanti aspetti diversa da quella tradizionalistica, ma ancora largamente corrente, mi pare dovrebbe risultare evidente in quale direzione va promosso e concretamente attuato il rinnovamento del nostro partito. Ma – attacca Berlinguer – va chiarito subito che non si tratta di quel presunto rinnovamento al quale ci sollecitano troppi nostri critici e mentori. Secondo costoro, infatti, il rinnovamento del Pci si avrebbe effettivamente solo in presenza della seguente novità: il nostro partito dovrebbe cessare di essere comunista, dovrebbe finirla di essere diverso, dovrebbe cioè – come si ama dire oggi – ‘omologarsi’ agli altri partiti, ossia diventare ‘più democratico’, ‘più occidentale’, ‘più europeo’, ma nel senso di diventare, in ultima analisi, una formazione politica come ce n’è tante, inserita nel sistema vigente e protesa, tutt’al più, a parziali e settoriali aggiustamenti al suo interno. Insomma, per tutti costoro daremmo la vera prova della nostra capacità di rinnovarci solo se rinunciassimo a rimanere un partito che, per i suoi caratteri, per lo stile della sua vita interna, per la sua condotta, per i suoi ideali resta assimilabile ai metodi di lotta politica, di governo, di gestione della cosa pubblica, ai modi di esercizio (e di abuso) del potere che caratterizzano gli attuali partiti non comunisti e anticomunisti italiani (…)”. E poi, la stoccata finale: “Allora veti e sospetti cadrebbero, riceveremmo anzi consensi e plausi strepitosi dai nostri sollecitatori, se ci rinnovassimo nel senso apparente e fasullo da essi suggerito e auspicato, ossia se cambiassimo la nostra natura e divenissimo ‘uguali agli altri’, se abdicassimo alla nostra funzione trasformatrice, dirigente, nazionale, se decidessimo di ‘recidere le nostre radici pensando di fiorire meglio’ ciò che sarebbe, come ha scritto di recente Francois Mitterand, il gesto suicida di un idiota. Non ci può essere inventiva, fantasia, creazione del nuovo, se si comincia dal seppellire se stessi, la propria storia e realtà”.
Questa irriducibile combattività, questo ostinato ed intelligente rifiuto di ripiegare i propri orizzonti nel conformistico ottundimento del presente spiega anche le ragioni del profondo rapporto che Berlinguer instaurò con gli esponenti delle sinistre socialdemocratiche europee, Olof Palme e Willy Brandt, entrambi intereressati a questo partito comunista che non rifluiva nella cultura riformistica, che cercava strade nuove, che non si rassegnava e che perciò parlava anche a loro. Di Brandt Berlinguer conservava un brano del discorso tenuto in occasione della laurea ad honorem riconosciutagli nell’ottobre dell’81 dall’università di Firenze. Lì Brandt affermava, testualmente, che “il progresso consiste nel mettere in discussione le certezze di mete e di verità presunte e nel cercare vie nuove non ancora intraprese. Quando le vecchie convinzioni mostrano i propri limiti, allora bisogna spalancare porte nuove. Allora agisce il dubbio. Soltanto dalla forza della negazione nasce il nuovo”.
La tesi di un Berlinguer che dentro il bozzolo ideologico e dentro il lessico del vecchio comunismo mette in gestazione la ‘farfalla’ socialdemocratica; di un Berlinguer che è già un protoriformista impegnato a traghettare il Pci verso il campo delle correnti riformistiche occidentali e verso l’Internazionale socialista; di un Berlinguer a cui mancò solo il tempo di cambiare nome al suo partito, ma che era già approdato alla convinzione che non si trattasse di lavorare per un cambiamento ‘del’ sistema, ma ‘nel’ sistema, non ha fondamento. Questo fu, semmai, proprio l’oggetto dello scontro aspramente aperto con una parte del gruppo dirigente del Pci. Quello che negli anni a venire saltò – di metamorfosi in metamorfosi – tutti i fossi possibili, persino oltre, ben oltre, la stessa cultura socialdemocratica.
Sentite come Berlinguer tornerà sulla questione: “Qui interviene qualcuno a dirci (e sembra che non manchino coloro che lo vanno sostenendo anche nelle nostre file) che tra i cambiamenti intervenuti tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta ce n’è uno dal quale noi dovremmo trarre certe conseguenze circa il carattere del partito (…). Se – si dice – riuscissimo a far divenire il Pci un grande partito di opinione che arriva a toccare i sentimenti, le coscienze, gli interessi della gente attraverso la comunicazione di massa, non solo non perderemmo voti ma, forse, addirittura li aumenteremmo. Dunque – si conclude – avere 1milione e 700mila tesserati o averne la metà sposterebbe poco o nulla ai fini di conseguire il massimo peso elettorale (…); a tener dietro a quei ragionamenti si finirebbe non col divenire un grande partito di massa moderno, ma un partito elettoralistico, un partito all’americana, cioè un partito che penserebbe solo a prender voti, che svaluterebbe il lavoro a diretto contatto con la gente per aiutarla a ragionare, a organizzarsi e a lottare, che svuoterebbe di ogni contenuto la militanza politica, che penserebbe solo ad avere più deputati, più senatori, più consiglieri, più assessori, più posti di potere (…). Ma un partito rinnovato a questo modo sarebbe ancora il Pci? Non sono forse l’elettoralismo e la caccia al potere per il potere i vizi degli altri partiti ai quali si vorrebbe che noi ci omologassimo?(…). Ebbene, questo è il momento di fare più iscritti, e al tempo stesso di formare militanti, più consapevoli e attivi, di avere cioè più compagne e compagni impegnati in un lavoro preciso, con compiti ben definiti, con una carica politica, ideale e umana, armati della quale si va e si sa stare fra le masse, con i loro problemi, le loro aspirazioni, con le loro rabbie, con le loro lotte…”.
Parole, come si vede, nettissime che rendono chiaro il livello cui era giunto lo scontro nel gruppo dirigente del Pci, scontro che andrà accentuandosi sino agli ultimi giorni di Berlinguer.
Come ognuno sa, Berlinguer terminò la sua battaglia da combattente, su quel palco di Padova, tenendo fede a quell’affermazione di sé che consegnò tempo prima al giornalista Giovanni Minoli, il quale nel corso di un’intervista gli chiese come fosse maturata in lui la scelta della politica e al quale Berlinguer rispose: “Io non ho fatto la scelta della politica, io ho fatto la scelta della lotta per la realizzazione degli ideali comunisti”.
Alla sua morte, alla vigilia del voto per le elezioni europee del giugno 1984, il Pci sospese la campagna elettorale. Pochi giorni dopo, il responso delle urne fu che il Pci era divenuto il primo partito d’Italia. Allora ci fu chi parlò di un risultato condizionato dall’emozione. Tesi bizzarra, perché un’emozione così grande può essere solo il frutto di una condivisione politica e di una “connessione sentimentale”, per usare un’espressione cara ad Antonio Gramsci, perché il tragico, e la catarsi collettiva, intervengono nella politica solo quando questa si fa grande politica e lì, in quel voto, come in quella impressionante manifestazione di popolo, “di dolore e di orgoglio comunista”, come l’hanno definita Paolo Ciofi e Guido Liguori, c’era qualcosa che – parafrasando Jean Jacques Rousseau – solo le anime grandi sanno suscitare.
Questa tensione della politica verso l’etica – due dimensioni – ci ricorda ancora Tronti – che non si raggiungono ma si inseguono – ha un segno inequivocabilmente gramsciano. Perché compito della politica è anche quello di parlare direttamente all’uomo. E’ così che, per dirlo ancora una volta con Berlinguer, “si allarga l’orizzonte della politica e la si arricchisce di contenuti mai prima pensati. E’ proprio in questo impegno che la politica diventa militanza animata da una forte tensione ideale e morale”. Ecco, dimenticare Berlinguer (titolo eloquente anche di un reclamizzato libretto che la giornalista Miriam Mafai pubblicò nel 1987 interpretando umori e convinzioni della vulgata post-comunista) vuol dire dimenticare questo. Ma dimenticare questo vuol dire rinunciare a cambiare questo mondo.
Sappiamo quale “ruzzola” hanno preso gli eventi dopo la sua morte, fino alla deriva del tempo presente. La vicenda del Pci giunse al suo epilogo alcuni anni dopo. Ma questa è un’altra storia della quale qui non ci occupiamo. Basti qui solo riferire di come un vecchio e autorevole liberale, Norberto Bobbio, commentò la svolta: “Mi domando – scrisse sulla Stampa di Torino – se ciò che avviene nel Pci non sia una vera inversione di rotta. Si ha l’impressione che ci sia molta confusione. La precipitazione con cui si sta buttando a mare il vecchio carico mi pare sospetta. Si resta a galla sì, ma è vuota la stiva. Ci si illude se si crede che si possano trovare facilmente nuove mercanzie a ogni porto. Attenzione, c’è molta merce avariata in giro, molto materiale fuori uso che passa per nuovo”.
Francamente, non si poteva dir meglio.