di Ramon Mantovani –

1) la sinistra italiana, tutta, ha sempre avuto una connessione politico-sentimentale con le esperienze rivoluzionarie e più in generale con le lotte antimperialiste e popolari dell’America Latina.
Ai tempi della divisione del mondo in campi e della guerra fredda la politica statunitense nei confronti del “cortile di casa” si è caratterizzata in modo classicamente imperialista, sia attraverso un dominio politico-militare diretto, sia attraverso l’alleanza con le borghesie oligarchiche dei singoli paesi. Alle quali era garantita una relativa autonomia totalmente interna alle compatibilità imposte dagli interessi capitalistici e soprattutto dai vincoli geopolitici e militari derivanti dalle strategie USA nello scontro con l’URSS.
L’ordine imperialista è stato infranto dalla rivoluzione cubana. Il fallimento di ogni tentativo di distruggere la rivoluzione cubana da parte degli USA ha prodotto in tutto il mondo un’enorme simpatia e solidarietà verso una resistenza giustamente considerata eroica. E in America Latina in particolare l’esistenza stessa della Cuba indipendente e socialista ha permesso che si sviluppassero numerose esperienze politiche rivoluzionarie tutte contraddistinte dall’aspirazione ad una vera e completa indipendenza dal giogo imperialistico. Non tanto e non solo per la solidarietà attiva praticata dal governo cubano verso tutta la sinistra del continente, guerrigliera o parlamentare che fosse, quanto per l’evidenza che si poteva vincere e resistere contro la superpotenza nordamericana.
Come abbiamo detto, in Europa e in Italia in particolare, era vivissima la solidarietà verso Cuba e verso tutte le esperienze di lotta contro gli USA. Sia verso, per esempio, l’esperienza del governo Allende in Cile, sia verso tutte le sinistre politiche in ogni paese, sia verso le numerosissime guerriglie.
Bisogna concentrarsi, però, su due filoni politico-ideologici distinti che abitavano la sinistra, e spesso gli stessi partiti, come il PCI, nella pratica delle solidarietà internazionalista verso l’America Latina.
Descriviamoli. Anche se con enorme approssimazione. Evitando, cioè, di tirare in ballo le connessioni di ognuno con le divisioni fra URSS e Cina, e i gradi di vicinanza ideologica di ogni filone con questa o con quella formazione politica (o politico-militare) latino-americana.
a) vi era, senza dubbio, una concezione eurocentrica. L’idea, cioè, della solidarietà delle parti avanzate della sinistra e del movimento operaio verso la sinistra dei paesi poveri del terzo mondo. La solidarietà di chi aveva realizzato grandi conquiste sul piano del welfare, della democrazia politica, dei diritti civili, della distribuzione della ricchezza e della riforma agraria, verso chi non aveva nulla di tutto ciò dovendo pagare, per giunta, il prezzo della repressione più spietata da parte di regimi militari e da parte degli USA.
b) vi era una solidarietà ispirata dall’idea che la rivoluzione contro il capitalismo e l’imperialismo fosse possibile unicamente nei punti deboli dello sviluppo, dove più evidenti e selvagge erano le contraddizioni sociali e politiche e dove, quindi, minore era il grado di integrazione e compromissione delle forze della sinistra col sistema. Bisognava, cioè, solidarizzare con i rivoluzionari latino-americani perché erano l’avanguardia e la punta più avanzata nella lotta contro l’imperialismo.
Entrambe queste impostazioni, come le tante versioni intermedie, sebbene divise da una diversa analisi del capitale e da diverse strategie, avevano effettivamente una cosa in comune. La diversità di sviluppo capitalistico e la diversità di problemi e contraddizioni fra paesi imperialisti e paesi del terzo mondo, oltre che la divisone in campi geopoliticamente contrapposti, imponevano una solidarietà fra forze simili ma inserite in contesti completamente diversi.
Con l’affermarsi del nuovo capitalismo neoliberista e con la sparizione del campo socialista e del Patto di Varsavia le cose non stanno più così.
2) il nuovo capitalismo, implementato secondo le teorie neoliberiste, fondato sulla liberalizzazione del commercio, sulla finanziarizzazione dell’economia, sulla competizione assoluta e senza regole, sulle privatizzazioni, sulla concentrazione del capitale e della produzione in poche società multinazionali, sulla espropriazione delle funzioni politiche di governo negli stati da parte di organismi sovranazionali tecnocratici come l’OCSE, il WTO, il FMI e la Banca Mondiale, ha prodotto una situazione inedita. Sia l’America Latina sia l’Europa hanno subito le stesse conseguenze. In proporzioni diverse e anche in modo diverso fra continente e continente, e fra paese e paese in ogni continente, le conseguenze politiche e sociali sono state le stesse. Svalorizzazione del lavoro fino a farlo diventare variabile dipendente dalla competizione internazionale senza regole; delocalizzazioni e precarizzazione selvaggia; aumento della povertà e concentrazione della ricchezza; imposizione di trattati commerciali fondati sulla cancellazione di tutti i dazi e clausole tesi a riequilibrare, anche se molto parzialmente, le differenze strutturali fra paesi ricchi e paesi poveri; crescente esclusione sociale di parti rilevanti della popolazione. Nonostante le infinite differenze fra le diverse realtà si può dire che la globalizzazione capitalistica abbia messo all’ordine del giorno la necessità di lottare insieme contro lo stesso nemico. “Pensare insieme per agire insieme” contro lo stesso nemico è cosa ben diversa dal “lottare ognuno in casa propria per poi solidarizzare con altri”. Non nel senso che non si debba più solidarizzare, bensì avendo la consapevolezza che si deve solidarizzare fra uguali, nonostante tutte le differenze, perché uguali sono i problemi che si devono fronteggiare. Vale la pena di fare pochi esempi per spiegare meglio il concetto.
a) in Europa non c’è più da decenni il problema della riforma agraria. In moltissimi paesi latino-americani si. Questa differenza permane. Ma la liberalizzazione del commercio nel settore ha prodotto un’enorme ristrutturazione del comparto agricolo. Le multinazionali del settore, che per questo si sono ingigantite e concentrate, possono liberamente produrre negli USA e in Europa merci per venderle nei paesi poveri a prezzi competitivi, nonostante le spese di trasporto, sbaragliando le produzioni locali. Così come possono produrre nei paesi poveri merci per il mercato dei paesi ricchi per venderle a prezzi ultraconcorrenziali rispetto a quelle dei produttori locali. Questo fenomeno produce conseguenze devastanti per i contadini sia dei paesi poveri sia dei paesi ricchi. Produce un livellamento al ribasso della qualità delle merci e la tendenziale distruzione delle culture alimentari dei diversi popoli, sia perché si mettono fuori mercato centinaia di prodotti “locali” sia perché le biotecnologie (OGM) e le sementi sterili brevettate consegnano alle multinazionali il totale controllo della produzione cancellando i “saperi” dei produttori locali.
b) il fenomeno della delocalizzazione degli impianti industriali ha investito pesantemente sia gli USA sia l’Europa. In particolare in America Latina sono sorti impianti di assemblaggio di prodotti destinati prevalentemente al mercato dei paesi ricchi (maquilladoras), che non pagano tasse, inquinano in deroga alle pur ridicole leggi ambientali locali, riservano trattamenti salariali e condizioni di lavoro che rasentano la schiavitù. Producendo una competizione totale fra la classe operaia dei paesi ricchi e quella dei paesi poveri.
Come si vede la solidarietà dei contadini e degli operai dei paesi ricchi verso quelli dei paesi poveri che non hanno “ancora” raggiunto il loro livello di conquiste e condizioni di vita è completamente superata.
Per questi motivi concreti, e non tanto per motivi ideologici astratti, è necessaria una solidarietà fondata sulla coscienza e conoscenza delle comuni contraddizioni e problemi prodotte dal nuovo capitalismo.
3) si può dire che in America Latina l’implementazione delle politiche neoliberiste sia iniziata un minuto dopo la fine degli accordi di Bretton Woods. Il superamento di un sistema monetario fondato sulla convertibilità del dollaro in oro e su una politica di scambi monetari controllata e regolata al fine di impedire il crollo del sistema (come nel 29) non poteva che produrre un’esponenziale crescita della speculazione finanziaria, una competizione esasperata fra sistemi economici diseguali a scapito dei più deboli e soprattutto conseguenze sociali da “governare” con il pugno di ferro. Per questo il Cile di Pinochet ha inaugurato la stagione nella quale i regimi militari e fascisti latino americani cambiano in parte natura. Dallo statalismo parziale, o consistente, alla privatizzazione integrale di ogni comparto economico. Dal populismo del welfare straccione all’esclusione sociale di parti significative della popolazione (in diversi paesi coincidenti con le etnie indigene). Gli USA che dirigono questo processo attraverso la promozione dei golpe militari e il controllo diretto sul personale politico delle dittature, promuovono anche i nuovi indirizzi economici e sociali ispirati dall’ideologia neoliberista. Per questo i Chicago Boys (gli allievi della scuola madre del pensiero neoliberista) diventano i consulenti e i consiglieri economici dei governi latino-americani. Dall’inizio degli anni 70 fino alla caduta del muro di Berlino i paesi latino-americani sono governati da militari e/o da oligarchie politiche inamovibili (come quella messicana o quella venezuelana, per fare solo due esempi) che consolidano un’alleanza fra gli interessi capitalistici statunitensi e le oligarchie economiche locali. In tutto il continente le lotte, le rivolte, la rabbia, il risentimento contro il sistema e soprattutto contro gli effetti delle politiche economiche, incontrano la più spietata repressione o il muro di sistemi politici oligarchici impenetrabili per le rivendicazioni popolari. È in questo contesto che nascono (in alcuni casi continuano) le esperienze guerrigliere di sinistra (anche se con diversi progetti e riferimenti ideologici) in moltissimi paesi. Brasile, Argentina, Uruguay, Perù, Venezuela, Colombia, Bolivia, Salvador, Nicaragua, Guatemala, Messico, solo per fare gli esempi più conosciuti. Ma in tutta questa fase la sinistra politica come la sinistra armata è profondamente divisa. Non tanto per le diverse ispirazioni ideologiche che la animano. Basti pensare che il nemico è per tutti l’imperialismo USA e che un comune riferimento è Cuba. Quanto per la preminenza dell’idea della rivoluzione in ogni singolo stato, sulla base delle condizioni specifiche di ogni singolo stato. La solidarietà non diventerà mai progetto comune e condiviso, e spesso nemmeno collaborazione attiva, nonostante l’evocazione di molti del sogno della “grande patria” latino-americana.
Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, e fino ad oggi, molte cose cambiano. Gli USA scelgono di promuovere e accompagnare il passaggio dalle dittature fasciste a regimi politici “democratici”. Il capitalismo neoliberista e il mercato stesso in se, dopo la fine dell’URSS, devono essere identificati con la “democrazia”. Al fine di rendere legittime agli occhi dell’opinione pubblica mondiale le scelte economiche globali che si stanno preparando è meglio che a negoziare le stesse e a governarne le conseguenze siano, sul versante latino-americano, regimi per lo meno apparentemente democratici. In America Latina viene coniato il neologismo “democraduras” per identificare e criticare questo tipo di regimi. Comincia la politica dei trattati economici e commerciali sovranazionali. Accompagnata dalle “direttive” (che in realtà sono ricatti veri e propri) del FMI e della Banca Mondiale. Con le regole della libera competizione assolutizzata i paesi soccombenti per non crollare devono ricorrere ai prestiti del FMI, quasi interamente usati per pagare gli interessi sul debito estero. E il FMI per erogare i prestiti impone condizioni precise: privatizzazioni totali, ulteriore deregolamentazione commerciale, taglio draconiano del welfare. In un circolo vizioso i cui effetti sociali sono semplicemente disastrosi. Nei primi anni 90 si mettono in cantiere i trattati di libero commercio sovranazionali. Sia attraverso gli accordi globali del WTO sia attraverso specifici trattati tendenti a superare anche i limiti e le ormai scarse regole sopravvissute negli accordi globali. Il primo è il NAFTA. Che unifica i mercati di USA, Canada e Messico. Proprio il giorno (1° gennaio 94) dell’entrata in vigore del NAFTA, presentato al mondo con la grancassa della propaganda secondo la quale avrebbe risolto, con l’unificazione commerciale, gli squilibri storici e quelli prodotti dalla prima fase neoliberista, viene platealmente contestato di fronte a tutto il mondo dalla ormai famosa ribellione zapatista. Da quel momento ogni ulteriore tentativo di produrre accordi globali, sia che falliscano come quelli del WTO o come l’ALCA (l’accordo commerciale di tutto il continente americano), sia che riescano (come quello fra Unione Europea e Messico) diventano, in America Latina, sempre più impopolari.
4) dall’inizio degli anni 90 ad oggi, in America Latina, la contestazione delle politiche economiche neoliberiste è stata il collante di una crescente e forte unità della sinistra continentale. Sono venuti sempre più in luce i problemi e le contraddizioni comuni, al di là delle specificità nazionali, perché è a tutti apparso chiaro come fosse impossibile affrontarle senza avere un progetto comune per opporsi alla globalizzazione capitalistica. Negli anni 90 si producono enormi novità nella sinistra latino-americana. Novità che funzioneranno come presupposti indispensabili alle vittorie elettorali della sinistra antiliberista in numerosi paesi del continente nel decennio successivo. Vediamole sinteticamente.
a) Nel 1990, su iniziativa del PT brasiliano, nasce il “Foro de Sao Paulo”. Si tratta di un incontro annuale, che si svolge a turno in una città diversa e che prosegue fino ai giorni nostri, di tutti i partiti della sinistra continentale. Attualmente ne fanno parte 82 partiti. Il Foro è stato ed è sostanzialmente un luogo di incontro e dibattito. Non ha mai dato a luogo ad un vero coordinamento e tanto meno ad una direzione politica continentale. Ma è stato simbolicamente il sintomo delle necessità di produrre azione e iniziative comuni. Il dibattito nel foro è transitato da una mera discussione generica sulla necessità di unire la sinistra continentale e dalla prevalente ricerca di un’interlocuzione privilegiata con l’Internazionale Socialista e segnatamente con il Partito Socialista Europeo, motivata dalla necessità di un’interlocuzione del continente alternativa a quella con gli USA, ad una discussione negli anni 2000 più incentrata sui contenuti delle lotte sociali e politiche e sui problemi della costruzione del Socialismo del XXI secolo. E con una progressiva sconfitta dell’idea che in Europa l’interlocutore privilegiato fosse il PSE o che potessero essere messi sullo stesso piano socialisti, verdi e i partiti della famiglia del GUE e del Partito della Sinistra Europea. Possiamo ben dire che non è tanto il Foro ad aver contribuito alla nascita della “primavera” latino-americana, quanto quest’ultima ad averne influenzato il dibattito. Resta la portata storica dell’iniziativa della creazione del Foro all’indomani della caduta del muro di Berlino, che fra le altre cose ha permesso a Cuba e a tutti i partiti comunisti latino-americani di non rimanere isolati.
b) la rivolta zapatista, ed i suoi originali contenuti, immette nella discussione e nella coscienza della sinistra latino-americana almeno due grandi questioni. I popoli indigeni in ogni paese e in tutto il continente sono quelli che pagano il prezzo più alto nella ristrutturazione capitalistica. Le nuove forme di sfruttamento del territorio, con le privatizzazioni delle risorse naturali e dei beni comuni come acqua e biodiversità, non solo li fanno degradare dalla condizione di paria in cui già erano a quella della miseria ed esclusione assolute, ma ne minacciano la stessa esistenza in quanto popoli. Questa questione si impone nella discussione di tutto il continente e solo grazie ad essa si può dire che la sinistra continentale, pur fra tante contraddizioni, abbia finalmente maturato l’idea che i popoli indigeni sono un soggetto della trasformazione e non una “categoria sociale” definibile esclusivamente attraverso le relazioni economiche. In secondo luogo la rivolta zapatista è la prima lotta nel mondo ad individuare esplicitamente come nemico principale la globalizzazione, e non il proprio governo nazionale, e ad evocare l’unità di tutti i movimenti di lotta antagonisti. È l’anticamera del movimento “altermondista” o “no global”.
c) Cuba resiste alla più grande crisi conosciuta nella sua storia. È la guerra fredda e la barbara aggressione continua da parte degli USA ad averla costretta ad un rapporto di dipendenza economica e tecnologica dall’URSS. Sebbene sia riuscita a mantenere viva la “febbre rivoluzionaria”, che ispirerà tutta la sua politica estera e di solidarietà internazionalista, in autonomia e a volte in contrasto con l’URSS, il rapporto di dipendenza economica ed energetica, lo scarso sviluppo industriale e la produzione agricola non ispirata all’autosufficienza in favore di poche produzioni nella divisione internazionale del lavoro interna al campo socialista, la espongono al rischio del crollo quando viene sciolto il COMECON. Basti pensare che nel volgere di pochi giorni si passa da una “tonnellata di zucchero contro una tonnellata di petrolio” a “sette tonnellate di zucchero contro una tonnellata di petrolio”. E senza crediti. Il “periodo especial” nonostante il dramma della scarsità di risorse di tutti i tipi, e perfino di pezzi di ricambio elementari per i pochi macchinari agricoli ed industriali, è concepito e portato avanti con l’obiettivo dichiarato di salvaguardare le conquiste sociali della rivoluzione. Sanità e istruzione in primo luogo. E senza mettere in discussione la solidarietà attiva dello stato cubano verso tutti i paesi del terzo mondo. Di fronte ad un’inusitata recrudescenza dell’aggressione USA, come la legge Helms Burton, Cuba non cede esattamente su ciò che la differenzia ormai dal resto del mondo: i diritti sociali del popolo sono una variabile indipendente da qualsiasi traversia economica, da qualsiasi apertura al capitale straniero, e non sono sacrificabili per salvare lo stato e il potere politico. Contro ogni aspettativa “occidentale” il popolo cubano capisce bene i motivi delle ingiuste difficoltà e resiste, proprio perché avverte che esiste un legame indissolubile tra il potere politico e i contenuti sociali della rivoluzione. Cuba è la dimostrazione che “un altro mondo è possibile”. Non mancano problemi, limiti, errori, ma Cuba esiste e resiste per se stessa e per tutti coloro che nel mondo lottano contro il capitalismo. Ed infatti in tutto il mondo nasce e cresce una solidarietà di proporzioni gigantesche. E in America Latina cresce il prestigio della rivoluzione cubana presso tutti i popoli. Si può dire che senza la resistenza di Cuba nulla sarebbe stato uguale negli avvenimenti che hanno poi partorito la “primavera latino-americana”.
5) il “risveglio” latino-americano è cominciato negli anni 90. In Venezuela Hugo Chavez, dopo aver fallito, nel 92, un colpo di stato progressista contro un’odiosa oligarchia politica che gestiva le enormi ricchezze del paese nei puri interessi di un pugno di famiglie e che si apprestava a svendere tutto alle multinazionali, vince inusitatamente le elezioni nel dicembre del 98. Non è, come si vedrà negli anni 2000, un caso isolato. È il sintomo e il prodromo di qualcosa che sta crescendo in tutto il continente. In molti paesi, infatti, crescono fortissimi movimenti di massa (valga per tutti l’esempio del Movimento dei Sem Terra brasiliano) di indigeni, contadini, lavoratori, studenti, donne, che partono da condizioni e rivendicazioni specifiche e locali, prodotte dalla necessità di opporsi politiche neoliberiste. Ma che subito capiscono che le loro rivendicazioni ed aspirazioni incontrano una dimensione globale come terreno di scontro. Rapidamente cresce la consapevolezza della necessità di coordinarsi, di lottare insieme e soprattutto di produrre un’alternativa globale. È proprio la coscienza della necessità di una lotta contro il nuovo capitalismo globale a far assumere un ruolo avanzato a questi movimenti, molto più di quello che ancora negli anni 90 hanno i partiti politici della sinistra tradizionale che spesso si attardano sui problemi di politica interna come centro del loro lavoro politico, e che spesso non capiscono i tratti salienti della globalizzazione capitalistica. Per esempio, mentre i movimenti sociali incontrano come nemici diretti le multinazionali europee e i trattati commerciali con l’UE, nella sinistra politica tradizionale si continua a pensare che convenga cercare con l’Unione Europea un rapporto privilegiato per affrancarsi dal dominio statunitense, anche se il rapporto economico commerciale è identico e a volte anche più neoliberista di quello con gli USA. Senza nemmeno accorgersi, colpevolmente, che attraverso le clausole più neoliberiste dei trattati commerciali con l’UE, transitano investimenti e privatizzazioni direttamente gestite dalle filiali europee delle multinazionali statunitensi. Sostanzialmente per questo la nascita del movimento alter mondista a Porto Alegre nel 2001, è un evento storico da tutti i punti di vista. Gran parte della sinistra politica, anche se non tutta, lo capisce ed accorre a relazionarsi ed anche ad “imparare” dai movimenti sociali. Lo fanno certamente, per esempio, molti partiti e leader che dopo pochi anni, proprio applicando quegli insegnamenti, e concependo concretamente e programmaticamente la lotta nel proprio paese come parte di una lotta più generale, vinceranno le elezioni in Bolivia, Ecuador, Uruguay, Paraguay, Salvador ecc. Anche Chavez, nel corso dei primi anni 2000, attinge progressivamente a quella miniera e proprio nel Social Forum del 2005 annuncerà la svolta socialista ed anticapitalista della rivoluzione bolivariana. Anche il PT di Lula vince le elezioni nel più grande paese latino-americano esattamente sposando gran parte delle rivendicazioni del Social Forum Mondiale e stabilendo un’alleanza dialettica (che non mancherà poi di essere molto contrastata durante l’azione del suo governo) con movimenti imponenti come quello dei Sem Terra.
6) nel primo decennio del nuovo millennio in America Latina l’avanzata delle lotte produce un processo di vittorie elettorali inimmaginabili fino a qualche anno prima. In Venezuela Chavez è stato rieletto per ben tre volte Presidente (1998, 2000 e 2006), ha resistito ad un colpo di stato ed ha prodotto una nuova costituzione. In Brasile i candidati alla presidenza del PT Lula (2002 e 2006) e Dilma Rousseff (2010) vincono le elezioni. In Argentina gli esponenti peronisti di sinistra Nestor Kirchner (2003) e Cristina Fernandez Kirchner (2007) vincono le elezioni inaugurando e proseguendo una politica antinoeliberista e scontrandosi ripetutamente con il FMI. In Uruguay dopo più di trenta anni di sconfitte il Frente Amplio vince le elezioni (2004). In Bolivia il Movimento al Socialismo di Evo Morales vince le elezioni (2005). In Ecuador le vince, alla testa di un’alleanza di sinistra, Rafael Correa (2006). In Nicaragua torna ad essere Presidente, seppur con una spuria alleanza con una parte della destra, il sandinista Daniel Ortega (2006). In Paraguay è eletto Presidente Fernando Lugo (2008). In Salvador il FMLN vince le elezioni ed è eletto presidente Mauricio Funes (2009).
Tralasciando la vittoria di Michelle Bachelet del Partito Socialista Cileno (2006) che si contraddistinguerà per essere fedele alleata degli USA e dell’Unione Europea e per le politiche neoliberiste che riapriranno le porte alla vittoria della destra estrema (2010), la vittoria (2006) del candidato del Partito della Rivoluzione Democratica del Messico, scippata da palesi frodi elettorali, e la vicenda del liberale Manuel Zelaya in Honduras, che viene deposto da un colpo di stato militare dopo la sua svolta antiliberista, e gli ottimi risultati elettorali degli schieramenti antineoliberisti in tutti gli altri paesi dove continuano ad essere all’opposizione, si possono dire due cose, salienti e rintracciabili in tutte le esperienze, su questo complesso mosaico di vittorie elettorali che abbiamo appena elencato. Senza scendere, per brevità e per non fuoriuscire dai temi più importanti, nei particolari di ogni paese. La prima è che i movimenti sociali giocano un ruolo fondamentale per i contenuti che impongono nell’agenda politica e nei programmi di governo. Spesso in un rapporto di alleanza dialettica con i partiti politici e con la partecipazione diretta alle funzioni parlamentari e di governo. La seconda è che la politica ufficiale latino-americana viene completamente influenzata, molto più di quanto non appaia dalla mera elencazione dei risultati elettorali nei singoli paesi, da un vento che spira su tutto il continente. Un vento che travolge appartenenze consolidate e che trasforma liberali o peronisti in oppositori convinti del neoliberismo. Un vento che permette di costituire coalizioni larghissime ma radicali nel programma. Questi due dati sono importantissimi perché cambiano e travolgono la politica ufficiale e perché permettono di superare, in alcuni casi perfino agevolmente, l’ostacolo di sistemi presidenzialisti per loro natura impermeabili al cambiamento.
Non si può non citare come esempio significativo, di quanto detto fino a qui, il fatto che cinque Presidenti in carica (Lula, Chavez, Morales, Lugo e Correa) abbiano nel 2009 partecipato a diversi incontri e ad un’enorme assemblea di militanti dei movimenti sociali in occasione del Foro Sociale Mondiale di Belem, dichiarando esplicitamente la loro appartenenza al movimento alter mondista e il loro ispirarsi continuamente all’elaborazione dei forum sociali.
Certamente in questo quadro è necessario porsi il problema di come possano continuare ed espandersi tutte queste esperienze. Al di la di come resistere alla controffensiva capitalista e nordamericana e della costruzione di un’alternativa politico-economica sovranazionale, questioni sulle quali torneremo in seguito, è bene avere coscienza di un limite che può rivelarsi fatale in un futuro forse nemmeno lontanissimo. Abbiamo detto che il vento nuovo che spira sul continente ha travolto la politica tradizionale ed ha permesso vittorie inimmaginabili dati i sistemi politici oligarchici e presidenzialisti. Ma è evidente che se questi sistemi non vengono riformati, in senso pienamente democratico, possono prendersi la rivincita sia corrompendo (moralmente e dal punto di vista politico prima che altro) le forze che ora gestiscono il potere, sia offrendo l’occasione, alle forze ostili al cambiamento, per riprenderselo, magari approfittando di errori e limiti nell’azione dei governi in carica. Non basta il leader che diventa presidente, come non bastano partiti e coalizioni trascinate in parlamento dalle vittorie presidenziali. È necessario che si costruisca un potere dal basso, fondato sulla partecipazione attiva dei movimenti e dei soggetti sociali. Solo in tre paesi (Venezuela, Bolivia ed Ecuador) questo problema è stato affrontato pienamente con la promulgazione di tre nuove costituzioni, tutte e tre consolidate da referendum confermativi vinti, che hanno cambiato la forma dello stato con un’estensione della democrazia dal basso e con il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni. Senza però fuoriuscire da sistemi elettorali ed istituzionali presidenzialisti. In altre parole, il problema del potere, della forma dello stato, della rappresentanza, rimane in gran parte irrisolto. Questa è una questione che merita di essere approfondita specificamente sia con lo studio delle costituzioni nuove e del dibattito che le ha generate, sia alla luce delle critiche zapatiste del sistema politico messicano e del potere, e soprattutto individuando il nesso tra politiche anticapitalistiche, conquiste sociali e politiche e riforme istituzionali ed elettorali in grado di renderle irreversibili e di suscitare partecipazione e forme sempre più allargate di autogoverno.
7)i paesi nei quali si parla esplicitamente del Socialismo del XXI secolo sono, oltre a Cuba (che ovviamente costituisce un caso a parte), il Venezuela, la Bolivia e l’Ecuador. Gli altri governi di sinistra, a cominciare da quello del Brasile, con gradazioni diverse, sono sostanzialmente antineoliberisti ma senza mettere in discussione a fondo le strutture del potere economico e di accumulazione capitalistica. Una cosa è fare piani seri ed efficaci contro la povertà e di riforma agraria contro il latifondo improduttivo ed un’altra è costituire (e costituzionalizzare) forme di proprietà cooperativa e collettiva di imprese e legare i piani di lotta contro la povertà alla creazione dell’autosufficienza alimentare ed economica delle popolazioni povere al di fuori e contro il mercato capitalistico. Una cosa è rifiutare i diktat più insopportabili del FMI, mantenere o rimettere in mano pubblica alcuni assi portanti dell’economia con società che funzionano con il diritto privato, e al contempo accettare la logica degli accordi globali del WTO e negoziare e favorire gli investimenti delle multinazionali sui propri territori, ed un’altra è costruire un’alternativa al FMI e alla Banca Mondiale costituendo entità sovranazionali alternative, proclamare la pubblicità irreversibile dei beni comuni e degli assi portanti dell’economia e fondare società di diritto pubblico controllate dal basso e dal potere politico, opporsi alla stessa logica delle liberalizzazioni selvagge del WTO. Da una parte c’è il tentativo di contemperare gli effetti più disastrosi prodotti dalla globalizzazione neoliberista (e non è poco giacché nessun governo di centrosinistra lo ha fatto in Europa) senza porsi il problema di superare il capitalismo e dall’altra il tentativo di porre le basi per la crescita di relazioni economiche, fra più paesi, capaci di superare diseguaglianze e asimmetrie fra gli stessi e di un settore pubblico dell’economia prevalente e gestito al di fuori delle logiche del mercato capitalistico. In altre parole si tratta del primo tentativo, dopo la caduta del mondo di Berlino, di superare il capitalismo. Sia pur in modo sommario si può ben dire che i paesi governati dai progressisti che non si propongono riforme strutturali tali da mettere in discussione il sistema capitalistico presto o tardi dovranno sciogliere questa ambiguità. Non ci sono i margini (qui ci limitiamo ad enunciare un assunto che meriterebbe un proprio approfondimento) per costruire o ricostruire esperienze keynesiane classiche. Non ci sono le condizioni minime dal punto di vista del sistema finanziario e monetario internazionale, come non ci sono dal punto di vista del funzionamento del mercato nell’epoca delle liberalizzazioni e privatizzazioni globali. Per proseguire e difendere le stesse minime misure sociali adottate da diversi governi prima o poi sarà necessario scontrarsi duramente con il sistema. Del resto, i diritti sociali acquisiti e la crescita di consapevolezza e coscienza di enormi masse di popolazione, fino a ieri totalmente emarginata e passivizzata, già pongono con chiarezza le basi per rivendicazioni più avanzate e radicali. Che non possono essere soddisfatte nell’ambito delle compatibilità del sistema. Ovviamente è possibile, se non probabile in alcuni paesi, che l’ambiguità sia risolta nel senso peggiore. E cioè che i governi progressisti incapaci (o impossibilitati per svariati motivi) di porsi questo problema non riescano a mantenere il consenso a causa delle risposte mancate alle maggiori rivendicazioni e/o della mancata prosecuzione delle riforme e dei programmi sociali. Anche questa partita, come quella della forma dello stato e della democrazia, è aperta. Ma, oltre ai fattori interni di ogni paese, vi è la dimensione internazionale a giocare un ruolo decisivo. Se è vero l’assunto di cui sopra, la fuoriuscita dal sistema capitalistico globale è impossibile nei singoli paesi. È necessaria una dimensione minima, per lo meno regionale, che permetta di costruire relazioni economiche reciprocamente vantaggiose fra i paesi, che abbia un’autonomia finanziaria e monetaria, che immetta negli scambi il valore d’uso delle merci invece che il valore di mercato e così via. Senza questa dimensione minima nessun paese, neppure grande, può resistere ai meccanismi imposti dal WTO, dal sistema dei mercati finanziari e dalle multinazionali. È per questo che nasce l’ALBA (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Nasce esattamente in contrapposizione all’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) proposta dagli USA e fino ad ora irrealizzata. Nasce per iniziativa bilaterale di Cuba e Venezuela, proprio per istituzionalizzare lo scambio di petrolio con assistenza medica e formativa, e si sviluppa con l’ingresso di altri paesi (Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Dominica, Antigua e Barbuda, Saint Vincent e Grenadine) e costruendo una zona commerciale retta dal Trattato di Commercio dei Popoli (TCO). Si è dotata di una moneta (Sucre) per il commercio fra i paesi membri (con l’ambizione di farla diventare la moneta unica) e di una Banca allo scopo di costruire un’architettura finanziaria indipendente dal dollaro. L’ALBA e i paesi membri dichiarano esplicitamente che l’obiettivo è quello di combattere le ingiustizie sociali, di promuovere lo sviluppo umano, di superare gli squilibri fra i diversi paesi, e di subordinare l’economia e le relazioni commerciali a questi obiettivi. L’ALBA è embrionalmente un progetto per tutta l’America Latina. Ed è su queste basi che si relaziona con altre aree sub regionali nel continente e con diversi paesi di tutti gli altri continenti. In particolare è importante la relazione con il Mercosur. Fondato da Brasile, Uruguay, Paraguay e Argentina nel 1991 come mercato comune del Sud America (sul modello del mercato comune europeo) negli anni 2000 il Mercosur, soprattutto grazie al governo Argentino, ha fatto fallire i negoziati per avviare la liberalizzazione commerciale sia con gli USA sia con l’Unione Europea ed ha accettato l’ingresso del Venezuela. Lo sviluppo del progetto dell’ALBA, l’ingresso del Venezuela nel Mercosur, e le relazioni fra Mercosur e ALBA possono essere tutte cose essenziali al fine costruire un’integrazione continentale che permetta di sciogliere l’ambiguità, che più sopra abbiamo detto, delle politiche di diversi paesi governati dalla sinistra, in senso positivo. Tutto il processo di integrazione e collaborazione fra i diversi paesi dell’America Latina, mentre avviene all’insegna della resistenza alle pressioni di USA e Unione Europea di implementare politiche commerciali neoliberiste e nella prospettiva di relazioni fondate sulla lotta alle diseguaglianze sociali e fra paesi, è indispensabile affinché dal mondo unipolare si transiti ad un mondo multipolare. Non può, infatti, esistere una dialettica fra aree geopolitiche diverse che non sia fondata su modelli sociali e politici alternativi fra loro. Resta, sullo sfondo, la grande sfida dell’integrazione politica ed istituzionale latino-americana. La Grande Patria sognata dagli eroi della lotta per l’indipendenza contro gli spagnoli e dai rivoluzionari del XX secolo.
8) quanto detto fin qui dimostra che in America Latina sta avvenendo per davvero qualcosa di molto grande che ben si può definire storico e di portata mondiale. Ovviamente non manca una controffensiva. Ovviamente l’attore principale della controffensiva sono gli USA. Anche se va detto che l’Unione Europea gioca un ruolo nefasto sia perché attualmente è la punta di diamante dell’offensiva sul piano della penetrazione delle multinazionali e dell’insistenza per la stipula di trattati commerciali ultraneoliberisti, sia per il suo allineamento alla politica USA di aggressione verso Cuba e verso i paesi dell’ALBA. Gli USA, non essendo riusciti, prima dell’esplodere della recente crisi, ad uniformare tutto il continente alle politiche neoliberiste con l’ALCA, hanno provato e continuano a provare a praticare l’obiettivo attraverso trattati con singoli paesi. Messico, Colombia, Perù, per fare solo l’esempio di tre grandi paesi governati dalla destra li hanno firmati. Ma anche il Cile che ha sempre mantenuto una posizione ostile al Mercosur (sia governato dalla “Concertacion”, sia governato dal Partito Socialista), ha firmato gli accordi commerciali con gli USA e con l’Unione Europea, rifiutati dal Mercosur. Con il Brasile governato da Lula, poi, il governo USA ha mantenuto una politica molto duttile, allo scopo palese di sollecitarlo a diventare una potenza economica emergente di caratura mondiale, inducendolo ad avere una posizione dominante in America Latina e a separare il proprio destino da quello degli altri paesi. Contemporaneamente il governo Bush, seguito pedissequamente dal governo Obama, ha sviluppato una politica ben precisa per produrre il massimo di instabilità nell’area geografica dell’ALBA. Non ha esitato a promuovere il colpo di stato in Venezuela e più recentemente in Honduras (proprio per la decisione del Presidente Zelaya di far aderire il proprio paese all’ALBA) e a implementare la guerra civile in Colombia, facendo di Bogotà la centrale di mille operazioni rivolte contro il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia. Militarmente, oltre ad installare numerose nuove basi militari in Colombia, gli USA hanno deciso di schierare la IV Flotta, che era stata ritirata negli anni 50, al largo delle coste del Venezuela. È presumibile che in un futuro prossimo si debba assistere ad altre iniziative statunitensi in questa direzione. Il sostegno alle lotte dei popoli latino-americani e ai tentativi di costruzione del Socialismo del XXI secolo non può prescindere dalla massima mobilitazione possibile contro la recrudescenza dell’imperialismo USA e contro ogni sua manovra.
9) per concludere, è necessario ora parlare, anche se brevemente giacché nel primo punto relativamente alla solidarietà internazionalista molte cose sono già state dette, dei compiti politici immediati che si pongono per le forze della sinistra anticapitalista in Europa e in Italia. Tutte le esperienze di lotta e di governo latino-americane hanno numerosi collegamenti con le nostre. Dagli interessi delle multinazionali che agiscono in entrambi i continenti alla natura liberista degli scambi commerciali. Dalla subalternità agli USA del continente americano all’alleanza strategica dell’UE con gli USA sul piano mondiale. Dalla difesa delle culture e dei diritti umani dalla dittatura del mercato alla contestazione degli organismi sovranazionali come il FMI, il WTO ecc. E’ importante, anzi è fondamentale, proprio alla luce di quanto detto nel primo punto, che la solidarietà sia organizzata e mobilitata con il massimo di consapevolezza dei problemi comuni e degli effetti delle lotte in ogni paese sulle lotte di tutti gli altri paesi. Come è decisivo che i tentativi di costruzione del socialismo in America Latina siano considerati un’impresa comune e non qualcosa da giudicare con i parametri e gli occhi di chi vive in un mondo diverso, migliore o peggiore che sia. Oltre all’intensificazione della partecipazione ai Social Forum Mondiali, che sono e restano il luogo di interlocazione dei movimenti di lotta di tutto il mondo con le stesse esperienze di governo latino-americane, è necessario interloquire direttamente con i governi, i partiti e i movimenti sociali latino-americani. Sul piano della più assoluta parità. Cuba, Venezuela, Bolivia, Ecuador e tutti gli altri paesi non hanno bisogno di tifosi in Europa. Non hanno bisogno di apologeti incapaci di dare un contributo critico alla soluzione dei mille problemi e limiti che hanno quelle esperienze. Come non hanno bisogno di una solidarietà invadente e presuntuosa di chi ha capito tutto, anche meglio di loro. La stessa cooperazione delle ONG necessità di un vaglio critico perché sono troppi i progetti ispirati da una concezione unilaterale delle relazioni e spesso addirittura dagli interessi degli apparati delle ONG. È bene che i militanti del PRC imparino a studiare e conoscere le esperienze latino-americane, superando la superficialità, i luoghi comuni, l’assenza di spirito critico, le mitizzazioni, che spesso contraddistinguono l’approccio di molti con le questioni della politica internazionale. È bene che i militanti del PRC sappiano, conoscano e seguano, magari per criticarla costruttivamente, l’attività del dipartimento esteri e della direzione del partito volta alla solidarietà e alla collaborazione con le esperienze della primavera latino-americana. Non si tratta solo di relazioni diplomatiche fra partiti. Si tratta soprattutto di azioni concrete. Di contributi fattivi, teorici, politici e anche militanti. Si tratta di fatti politici rilevanti. Come il blocco per tre anni, nel parlamento italiano, del trattato fra L’Unione Europea e il Messico e un’interlocuzione che ha portato il PRD messicano a passare dal voto favorevole a quello contrario. O come la partecipazione diretta del PRC nei negoziati di pace in Colombia. Per fare solo due esempi. Insomma, azioni e non solo parole.

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