1956pciviiicongresso_5_jpgdi Dino Greco –

Roma, intervento al convegno di Futura umanità del 16.12.2016 –

Diceva Togliatti nella sua relazione alla I sottocommissione della Costituente dedicata al tema cruciale dei Principii dei rapporti economico-sociali che “in un regime di pura libertà economica, cioè di pura competizione è inevitabile che masse ingenti di donne e di uomini siano privi degli indispensabili mezzi di sussistenza” perché “questa è infatti una delle condizioni affinché tutto il sistema economico capitalistico possa funzionare, ed è conseguenza di uno sviluppo che tende da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre dall’altro lato aumenta il numero dei diseredati”.
E aggiungeva che “anche se la massa dei diseredati in periodi di prosperità e in paesi particolarmente favoriti può tendere a diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando inesorabilmente sopravvengono i periodi di crisi”.
Togliatti proseguiva ricordando che “l’esperienza di tutti i paesi a capitalismo sviluppato mostra come per lo sviluppo stesso delle leggi interne dell’economia capitalistica la libera concorrenza genera il monopolio, cioè genera la fine della libertà. E si creano così ancora più rapidamente le condizioni in cui la proprietà dei mezzi di produzione e quindi la ricchezza tendono a concentrarsi nelle mani di pochi gruppi di plutocrati, che se ne servono per dominare la vita di tutto il paese, per dirigerne le sorti nel proprio interesse esclusivo, per appoggiare movimenti politici reazionari, per mantenere ed instaurare le tirannidi fasciste, per scatenare guerre imperialistiche di rapina, operando sistematicamente contro l’interesse del popolo, della Nazione”.
Poi arriva la stoccata decisiva: E’ per questo – affermava Togliatti – che occorre abbandonare “le concezioni utopistiche del vecchio liberalismo per dare corso ad un’opera ampia e radicale di riforma della struttura economica della società” perché “il prevalere nei principali paesi dell’Europa capitalistica di gruppi plutocratici reazionari ha portato in alcuni di essi alla totale liquidazione delle istituzioni democratiche, in altri ad una seria minaccia per la loro esistenza, in tutti o quasi tutti al tradimento dell’interesse nazionale da parte delle caste dirigenti reazionarie, e a quell’esasperato acutizzarsi di conflitti imperialistici che doveva metter capo alla catastrofe immane della seconda guerra mondiale”.
Quindi, ecco la trama essenziale su cui incardinare la nuova costituzione, il progetto di società di cui si doveva forgiare la strumentazione: centralità del lavoro, programmazione economica, ruolo decisivo della mano pubblica, cooperazione, forme di proprietà diverse da quella privata, controllo operaio sulla produzione, nazionalizzazione delle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico debbono essere sottratte all’iniziativa privata, libertà di impresa rigorosamente subordinata all’interesse sociale, sino all’esproprio della proprietà ove questo principio venga contraddetto.
E “democrazia progressiva”, come espansione della partecipazione popolare verso forme inedite di produzione e socializzazione della ricchezza prodotta dal lavoro sociale.
Insomma: un processo di transizione, verso una società non più capitalistica. Un processo nel quale la dialettica e il conflitto sociale venivano concepiti come elementi costitutivi del progresso del Paese.
E’ questo il telaio politico su cui si sviluppa, nel ’56, l’elaborazione dell’VIII congresso del Pci, nell’intento di dare corpo ad un progetto, ad un’architettura politica e sociale capace di rispondere al tema gramsciano della rivoluzione in Occidente, di una via italiana al socialismo, sganciata dalla forma storica in cui il socialismo si era realizzato nell’Urss, capace di coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà ed uguaglianza.

Certo, nella Costituzione non c’è scritto tutto questo, almeno non nei suoi presupposti teorici, ma c’è molto di tutto questo, nell’insieme e nelle parti, sia nei principii fondamentali che, in modo speciale, nei 13 articoli che compongono il titolo III.
Ed è per questa solida ragione che dal momento stesso della sua promulgazione la Costituzione è stata attaccata, con forza tanto maggiore quanto più essa metteva in forse l’egemonia delle classi dominanti e i rapporti sociali esistenti.
Non deve dunque sorprendere se fu l’irruzione sulla scena politica di un formidabile movimento operaio, fra la fine degli anni Sessanta e buona parte dei Settanta, a fare rivivere la Costituzione nel suo spirito originario e nei suoi contenuti più innovativi. Come non deve sorprendere se al declino prima e alla sconfitta poi di quel movimento, insieme alla dissoluzione del socialismo realizzato, sia corrisposto l’affermarsi del dominio assoluto del capitale e della sua ideologia in forme violentemente regressive in Italia come in larga parte del mondo.

Dalla fine degli anni Quaranta il mondo è profondamente cambiato.
Lo è, in primo luogo, il modello di accumulazione capitalistica conseguente al processo di finanziarizzazione dell’economia con i tratti di una vera e propria superfetazione usuraria che reagisce sull’economia reale distruggendo forze produttive e consumando irreversibilmente risorse naturali, con una rapidità che non ne consente il rinnovo.
E’ un modello che si fonda su una concentrazione inaudita della ricchezza e del potere, sull’esproprio della sovranità popolare e sull’ostilità alle democrazie come plasmate dalle costituzioni antifasciste che – certo non a caso – sono diventate in varie forme il bersaglio dichiarato dei gruppi dominanti che sempre più inclinano verso una torsione oligarchica e totalitaria del potere.

Ebbene, merita osservare come la Costituzione italiana e la discussione che nel lavoro costituente ne rappresentò l’incubazione, siano – nel tempo presente e per certi versi più di prima – di una stupefacente attualità e indichino la strada di un processo possibile di aggregazione di soggettività politiche, sociali, culturali che vivacchiano separate in una impotente diaspora autodistruttiva, confinate nell’irrilevanza o nella subalternità.

Si è in questi anni tentato, con recidivante testardaggine, di formare schieramenti politici a sinistra, contenitori di sigle, per lo più in vista di appuntamenti elettorali, con l’intenzione rivelatasi velleitaria di coagulare una massa critica sufficiente a riconquistare come che sia una qualche rappresentanza istituzionale, una sorta di certificato di esistenza in vita.
Quanto ai contenuti di questi variopinti rassemblement, la ricerca è stata sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così è accaduto, ogni volta, che il bambino affetto da strutturale gracilità, si è schiantato subito dopo il primo vagito, quando non addirittura durante la gestazione. Fuor di metafora, le operazioni politiciste, prive di base sociale e di vero progetto politico, hanno sempre prodotto improbabili accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si è anche cercato di aggirare la questione cruciale del programma con formule lessicali all’apparenza radicali, contrassegnate dal sigillo dell’antiliberismo.
Peccato che l’incerta semantica del termine non sia riuscita a spazzare via l’eterogenesi dei fini che si nascondeva dietro la formula solo in apparenza radicale e unificante.
Il fatto è che non si sfugge al tema di fondo: se non è chiaro dove si vuole andare è del tutto vano scapicollarsi nella ricerca di fantasiose ricette organizzativistiche.

Ora, come spesso accade, sono i fatti, la prassi sociale ad illuminare la strada, a far intravvedere possibilità nuove, semplici, ma rimaste inopinatamente inesplorate.

Per uno di quei paradossi che ogni tanto si verificano nella storia, dobbiamo questo a Matteo Renzi e ad essere sinceri dovremmo proprio ringraziarlo. Dovremmo ringraziarlo per la sua incontenibile brama di potere, per avere tentato di travolgere la democrazia costituzionale attraverso un plebiscito che se vinto avrebbe cancellato il parlamento e consegnato il potere, tutto il potere, nelle mani di una consorteria di lestofanti che in questi anni hanno dato plateale dimostrazione degli interessi a cui sono asserviti.
Dovremmo ringraziarlo per avere rimesso in moto la sovranità del popolo che è corso in massa alle urne non per incoronarlo, ma per mandarlo a casa.
Infine, cosa della massima importanza, dovremmo ringraziarlo per avere contribuito, sebbene a sua insaputa, e comunque contro ogni sua intenzione, a riaccendere i riflettori sulla Costituzione, non soltanto sui temi, certamente rilevantissimi, della forma di governo, dello Stato, dell’architettura istituzionale, ma anche sui fondamentali principi costituzionali, sulla nervatura sociale, sul progetto di società e di democrazia che vive nella Carta e che da oltre trent’anni è stato messo in sonno, dimenticato, scardinato.

Il voto, come tutti hanno potuto vedere, ha avuto diverse facce, ma fra queste c’è un tratto fondamentale e decisivo: il voto ha messo i ricchi e coloro che sentono di avere le terga al riparo da una parte e i poveri, i precari, i lavoratori, gli sfruttati dall’altra.
Una parte dei quali ha capito, per istinto, che la Costituzione sta dalla loro parte mentre quelli che la vogliono liquidare stanno dall’altra: si è trattato, per usare le parole giuste, di un voto socialmente connotato, sebbene non ancora di classe.
Chi sta pagando drammaticamente la crisi ha pronunciato un solenne “Basta!” al potere che ha somministrato potenti dosi di austerità a chi sta in basso e laute prebende a chi sta in alto e che ha fatto della disuguaglianza il proprio distintivo politico.

Certo, questa rivolta si è espressa nella sola forma oggi possibile.
Quella sorprendente corsa alle urne ha supplito al vuoto di un conflitto sociale organizzato e alla latitanza di un progetto politico che nessun soggetto politico ha sin qui saputo proporre con sufficiente chiarezza.

Per questo credo che l’esito del referendum parla un linguaggio chiarissimo e formula una domanda esplicita anche al frammentatissimo arcipelago della sinistra non addomesticata dalle sirene renziane, estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd e purtuttavia (sino ad ora) incapace di trovare un punto di incontro programmatico forte, durevole, tale da prefigurare un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa.

Ebbene, io credo che il messaggio che deve giungere a tutte le orecchie ricettive è questo: fare proprio, senza omissioni o riduzioni, il contenuto politico-sociale fondamentale della Carta del’48, declinarlo in obiettivi chiari e percepibili da tutti e da tutte, farlo divenire il comune denominatore, il patto vincolante di un progetto trasformativo della società italiana, e intorno ad esso coagulare una coalizione di soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di quel disegno.
Basta, dunque, con le fallimentari scorciatoie politiciste con cui sino ad oggi si è preteso di rifondare la sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore senza contenuti.
Il paradigma va rovesciato, perché per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.
Prima viene il progetto politico, e precisamente quello incardinato nella Legge fondamentale che abbiamo per così dire, “riconquistato” in uno scontro campale e che, a leggerla bene, non fa sconti a nessuno.

Per lungo tempo quel testo è stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni interpretato come una sorta di icona inerte, da celebrarsi a buon mercato negli esercizi retorici senza concrete conseguenze, da altri che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della rivoluzione, come un un tiepido compromesso di impronta borghese. Quando a me pare evidente che viva nella Costituzione un impianto di classe molto più robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
Mi fermo qui perché non è qui il luogo ove declinare, punto per punto, il progetto politico che nella Costituzione trova il proprio centro di annodamento e che può rappresentare l’incipit di una riscossa democratica.
Purché sia chiaro che è questo il lavoro che da oggi dobbiamo fare, senza perdere un solo momento.

 

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