
Inflazione e retorica di governo: come il carrello della spesa racconta l’impoverimento
Pubblicato il 19 ago 2025
di Giovanni Barbera*
I dati pubblicati dall’Istat delineano una realtà molto più grave di quella propagandata dal Governo Meloni. L’inflazione generale resta stabile all’1,7% annuo a luglio, ma la vera emergenza riguarda il carrello della spesa, composto da alimentari e beni di prima necessità, che aumenta del 3,2% su base annua, in crescita rispetto al 2,8% di giugno. Un segnale chiaro di come le classi popolari e medie siano sempre più penalizzate da un’inflazione “selettiva”, che colpisce ciò che non si può evitare.
Contemporaneamente, i salari nominali registrano timidi segnali positivi: nel periodo gennaio–giugno 2025 la retribuzione oraria media è cresciuta del 3,5% rispetto allo stesso semestre del 2024. Tuttavia, questo aumento non si traduce in un effettivo miglioramento del tenore di vita. Al contrario, i salari reali restano circa il 9% inferiori rispetto ai livelli di gennaio 2021, complice una fiammata inflazionistica che ha eroso gran parte degli incrementi.
Nel solo mese di giugno, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie è cresciuto dello 0,5% su maggio e del 2,7% su base annua. L’aumento è stato del 2,3% nell’industria, del 2,7% nei servizi privati e del 2,9% nella pubblica amministrazione. Tuttavia, oltre il 40% dei lavoratori (circa 5,7 milioni) resta ancora in attesa del rinnovo del contratto collettivo, con conseguenze dirette sulla capacità di recupero del potere d’acquisto.
Si tratta di una forbice inaccettabile. Da un lato salari nominali che crescono troppo poco, dall’altro prezzi che aumentano soprattutto dove incidono le spese essenziali. Questo scarto ha determinato una perdita strutturale del potere d’acquisto, soprattutto per chi ha redditi fissi o bassi. Non è un problema contingente, ma una tendenza che dura da oltre un decennio. Già prima della pandemia, i salari italiani erano tra i più stagnanti in Europa, con una crescita addirittura negativa tra il 1990 e il 2020 (dati OCSE), a differenza di paesi come Germania e Francia.
Un altro elemento da segnalare è che l’inflazione non deriva solo da costi esterni (energia, importazioni), ma anche da dinamiche interne al sistema economico. Uno studio del Fondo Monetario Internazionale del giugno 2023 ha dimostrato che quasi il 45% dell’inflazione nella zona euro tra inizio 2022 e inizio 2023 era attribuibile all’espansione dei margini di profitto delle imprese, mentre meno del 25% derivava dalla crescita salariale. In altre parole, non è stato il “costo del lavoro” a spingere i prezzi, ma la strategia delle grandi imprese che hanno usato l’inflazione come scusa per gonfiare i profitti.
È dunque evidente che banche, compagnie energetiche e grande distribuzione hanno sfruttato l’inflazione per incrementare i propri guadagni, scaricando il costo sui consumatori. Il Governo Meloni ha scelto di non affrontare concretamente il problema degli extraprofitti, limitandosi a misure simboliche come il “patto anti-inflazione” o bonus temporanei, spesso più utili alla propaganda che a tutelare le famiglie. Con questa scelta, si è schierato apertamente dalla parte dei privilegiati, ignorando i bisogni reali dei cittadini e delle classi popolari.
Una crisi che accentua le disuguaglianze
La scelta politica attuale è netta. Si difendono i profitti dei potenti e si ignora il dramma delle famiglie. L’Italia è un paese sempre più diseguale. Le differenze tra Nord e Sud continuano a crescere. Secondo un rapporto di Banca D’Italia del 2024, il PIL pro capite nel Mezzogiorno resta inferiore di oltre il 40% rispetto al Nord. I giovani sono penalizzati da un mercato del lavoro precario e frammentato, mentre i pensionati vedono progressivamente eroso il valore delle loro entrate.
In questo quadro, l’assenza di una politica industriale pubblica e di investimenti strategici peggiora la situazione. Le privatizzazioni degli ultimi decenni hanno smantellato interi settori, lasciando la regolazione dei prezzi e dei servizi essenziali nelle mani del mercato. Un mercato che non garantisce equità, ma moltiplica le disuguaglianze.
Quali risposte servono davvero
Se si vuole contrastare il carovita non bastano pannicelli caldi. Servono politiche strutturali:
- Controllo pubblico sui prezzi dei beni essenziali, a partire da alimentari, affitti ed energia.
- Indicizzazione automatica di salari e pensioni al costo reale della vita, come avveniva con la scala mobile, abolita negli anni ’90 in nome dell’austerità.
- Salario minimo legale dignitoso, che impedisca contratti a condizioni da fame e stabilisca una soglia sotto cui non si può scendere.
- Tassazione straordinaria degli extraprofitti per finanziare misure redistributive concrete, non bonus una tantum.
- Rilancio del welfare universale, con più risorse per scuola, sanità e trasporti, oggi colpiti da tagli che obbligano le famiglie a sostenere spese sempre maggiori.
Un problema politico, non solo economico
Il carovita e la perdita del potere d’acquisto non sono una “fatalità” economica. Sono il risultato di precise scelte politiche: liberalizzazioni, smantellamento dei diritti dei lavoratori, politiche fiscali favorevoli ai ricchi e ai grandi gruppi. Oggi il Governo Meloni porta avanti questa linea con una determinazione ancora più netta, subordinando i bisogni popolari agli interessi di banche e multinazionali.
Non si può più accettare il silenzio delle istituzioni di fronte a questa emergenza. Serve una mobilitazione popolare, sociale e politica, che metta al centro il lavoro, la giustizia sociale e il diritto a una vita dignitosa. Solo così potremo rovesciare un modello economico che arricchisce pochi e impoverisce molti.
Perché non è solo una questione di numeri o percentuali. E’ in gioco la possibilità, per milioni di persone, di vivere con dignità.
* Segreteria nazionae PRC-SE, responsabile politiche sociali
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