di Domenico Moro –
Trump: populismo o alternanza nella democrazia oligarchica?
La vittoria di Trump è stata vissuta come uno shock in tutto lo spettro politico. La stragrande maggioranza delle interpretazioni aderiscono alla medesima visione: Trump sarebbe l’espressione statunitense della ventata populista che sta imperversando nei Paesi avanzati e di cui sono esempio anche Brexit e l’affermazione elettorale di partiti e movimenti populisti in tutta Europa. Si va dalle posizioni che paventano l’affermazione di un nuovo fascismo a quelle che vedono nella vittoria di Trump un segno anti-establishment. Secondo questa visione, Trump ha vinto perché avrebbe raccolto il voto degli esclusi mentre la Clinton ha perso perché rappresentante del capitale globalizzato e di Wall Stret.
In primo luogo, va precisato che Trump ha vinto solo in virtù del sistema elettorale spiccatamente maggioritario, basato sul sistema dei grandi elettori e in un contesto in cui vota poco più della metà degli aventi diritto. La Clinton, secondo gli ultimi conteggi, avrebbe un vantaggio, in termini di voto popolare, di oltre 2 milioni di voti. In secondo luogo, per essere una ipotesi che terrorizzava Wall Street e per essere Clinton la beniamina dei mercati finanziari, come titolava il Sole24ore, la Borsa di New York ha reagito in modo ben strano alla vittoria di Trump. Nei primi tre giorni post-voto Wall Street ha guadagnato 341 miliardi di capitalizzazione e dopo due settimane gli indici Nasdaq, S&P 500 e Dow Jones hanno raggiunto i massimi storici. Inoltre, il dollaro ha avuto uno scatto impetuoso, segno tutt’altro che di sfiducia nel risultato delle elezioni, portandosi da 1,13 a 1,05 sull’euro, il quale ha toccato i minimi negli ultimi 11 mesi rispetto alla valuta statunitense.
Se qualcuno pensa che la vittoria di Trump possa significare un mutamento sul piano del funzionamento dei meccanismi del potere in qualsiasi senso non tiene conto di che cosa è la democrazia rappresentativa contemporanea nel Paese che ne è stato l’inventore. Come ha ricordato Slavoj Zizek, “credere che l’elezione di Trump trasformi gli Usa in uno stato fascista è una esagerazione ridicola”. A parte il fatto che la libertà d’azione del presidente è limitata dal Congresso, il punto principale è che gli Usa non hanno bisogno del fascismo, a meno che non lo intendiamo in senso lato, cioè nel senso delle politiche corporative e imperialiste come lo intendeva George Jackson, il rivoluzionario nero del Black Panther Party. In questa accezione, gli Usa fascisti lo sono a prescindere da Trump. Senza contare che la Clinton sarebbe senz’altro fascista non meno di Trump, con buona pace di chi invitava a votarla così come negli anni Trenta si votava contro i fascisti per i candidati “democratici”.
Altrettanto assurdo è che Trump possa, anche solo implicitamente, segnare una rottura con l’establishment, perché è egli stesso espressione di quell’establishment. Anzi, Trump rappresenta la capacità dell’establishment di reagire alla sua crisi di egemonia in settori popolari importanti, quelli colpiti dalla deindustrializzazione. Engels, già nel 1884, evidenziava come nella repubblica democratica “la ricchezza esercita il suo potere indirettamente ma in maniera tanto più sicura. Da una parte nella forma della corruzione dei funzionari, della quale l’America è il modello classico, dall’altra nella forma di alleanza tra governo e Borsa, alleanza che tanto più facilmente si compie tanto più salgono di debiti pubblici (….). E infine la classe possidente domina direttamente per mezzo del suffragio universale”. Gaetano Mosca, fondatore della scuola sociologica elitista, fu altrettanto esplicito: “Sarebbe ingenuo credere che i regimi liberali si appoggino sul consenso esplicito della maggioranza numerica dei cittadini, perché nelle elezioni la lotta si svolge fra i diversi gruppi organizzati, che possiedono i mezzi capaci di influenzare la massa degli elettori disorganizzati, ai quali non resta che scegliere fra i pochissimi rappresentanti di questi gruppi.”
Gli Usa sono la rappresentazione migliore di questo sistema, definibile come democrazia oligarchica, nel quale partito democratico e partito repubblicano funzionano come due ali di uno stesso partito e che sulle questioni veramente importanti (che non sono quelle che generalmente alimentano i talk show televisivi e spesso i dibattiti di certa sinistra) tendono a trovare una convergenza, il cosiddetto bipartisan consensus. Tuttavia, le elezioni statunitensi non possono essere ridotte a una sorta di spettacolo o di gigantesca presa in giro. Esse sono uno dei terreni e forse il terreno principale, come diceva Mosca, su cui i diversi gruppi dell’élite capitalistica si scontrano per definire e affermare gli interessi prevalenti. La democrazia rappresentativa, rispetto al fascismo, presenta il vantaggio di una maggiore flessibilità (si può cambiare, ovviamente sempre in modo controllato) e soprattutto di una maggiore autonomia del potere economico su quello politico. Le competizioni elettorali sono, da una parte, uno strumento dell’esercizio dell’egemonia sulle masse e, dall’altra, uno strumento di modificazione o di conservazione dei rapporti di forza e quindi di soluzione dei contrasti all’interno della classe economicamente dominante. Infatti, ciò che spesso ci si dimentica è che il capitale è tutt’altro che unitario. Esso è diviso non solo in imprese ma anche in settori in competizione tra loro, non solo a livello internazionale ma anche a livello nazionale. Anche nel suo strato di vertice esso si divide in gruppi con interessi diversi che spesso sfociano in forti conflitti. Ciò si è verificato anche in queste presidenziali: le imprese tecnologiche della Silicon Valley, Microsoft, Amazon, Apple, ecc. erano a favore della Clinton, mentre i settori dell’acciaio, del carbone e del petrolio erano chiaramente a favore di Trump.
Sebbene repubblicani e democratici, sulle questioni essenziali, siano sempre stati più o meno convergenti, almeno nella misura in cui si tratta di difendere i processi di accumulazione e gli interessi del capitale Usa nei confronti degli avversari di classe o esteri, ci si può legittimamente domandare se Trump rappresenti posizioni tanto estreme da determinare una rottura con la passata tradizione di bipartisan consensus. La nostra risposta è negativa, sulla base del contesto in cui è avvenuta l’elezione di Trump e in base alle similitudini con Clinton su aspetti essenziali del programma.
L’attacco bipartisan di Trump e Clinton al neomercantilismo cinese e europeo
Queste elezioni sono state caratterizzate da un preciso contesto, che ha influito pesantemente, accentuando le contraddizioni interne al capitale e soprattutto determinando un orientamento di maggiore discontinuità rispetto al passato. Contrariamente alle speranze, la politica monetaria espansiva perseguita da Obama e dalla Banca centrale statunitense (Fed) non ha avuto gli effetti aspettati, e, a differenza delle altre crisi scoppiate dopo la Seconda guerra mondiale, l’economia negli Usa, così come negli altri paesi avanzati, non ha ripreso la sua marcia ai ritmi precedenti allo scoppio della crisi del 2007-2008. La crescita del Pil è ancora ben al di sotto della crescita potenziale, tanto che si è coniato il termine di “crisi secolare”, secondo la nota espressione dell’economista Larry Summers, ex ministro del Tesoro di Bill Clinton. Al contempo, la globalizzazione ha portato alle delocalizzazioni e all’indebolimento della struttura industriale e manifatturiera statunitense, che dal ’79 ha perso 7 milioni di posti di lavoro concentrati soprattutto negli stati industriali della rust belt, dove Trump ha prevalso. Di fatto, le basi produttive e dell’accumulazione di capitale statunitensi si sono contratte. Conseguenze ne sono state l’aumento della disoccupazione e della sottoccupazione, nonché il calo dei salari, anche a seguito del passaggio da impieghi nell’industria, relativamente meglio pagati, a impieghi nei servizi, peggio retribuiti. Malgrado alcuni settori abbiano beneficiato della globalizzazione, quelli appunto tecnologici, altri settori industriali e manifatturieri, ma anche il settore bancario, si trovano maggiormente in difficoltà e gli Usa, nel complesso, hanno perso posizioni nel commercio mondiale a favore di potenze economiche emergenti. La maggiore crescita delle importazioni rispetto alle esportazioni ha peggiorato anche il debito commerciale (in termini nominali +48,1 per cento tra 2009 e 2015), insieme a quello pubblico, salito a causa del sostegno alle imprese e alle banche in crisi. Una situazione che, alla lunga, è insostenibile specie se gli Usa vogliono mantenere una egemonia mondiale, e che evidentemente molti all’interno dei circoli dominanti Usa hanno pensato che andasse affrontata con un cambiamento di rotta, con una nuova ricetta economica.
La questione più interessante è che sui punti decisivi della ricetta, nelle sue grandi linee, non c’era grande differenza tra Trump e Clinton. Entrambi i candidati hanno puntato su politiche fortemente espansive, ma non dal punto di vista monetario, come la Fed, la Bce, la Banca d’Inghilterra e del Giappone hanno fatto negli ultimi anni, portando i tassi d’interesse a zero o addirittura a livelli negativi. Le politiche espansive del programma di Trump e Clinton prevedevano l’aumento della spesa pubblica, mediante investimenti massicci in lavori pubblici, in particolare nell’ammodernamento della gigantesca e, dopo decenni di tagli, malmessa infrastruttura (ponti, strade, ferrovie, reti elettriche e idriche, aeroporti, ecc.). Si parla di cifre enormi: 1000 miliardi di dollari in dieci anni e forse di molto di più, secondo Summers 2.200 miliardi. La Clinton prevedeva subito un piano di emergenza da 250 miliardi. Dunque, quello a cui assistiamo è un cambio di rotta rispetto alle politiche precedenti di austerity (anche se negli Usa queste sono state più contenute che in Europa), e che si avvicinano alle politiche classiche keynesiane il cui impatto, nelle intenzioni, dovrebbe dare un impulso all’economia e all’occupazione e sulle quali c’è un ampio consenso bipartisan al Congresso. La crescita degli investimenti pubblici in lavori pubblici e la correzione delle politiche troppo espansive della Fed, inoltre, porterebbero alla fine dei tassi d’interesse troppo bassi, che non hanno determinato una soddisfacente crescita e anzi hanno portato deflazione e perdita di profittabilità per le banche e non solo per queste. La crescita della borsa dipende in parte dall’aspettativa di crescita dell’inflazione e in parte dalla crescita dei titoli legati alle banche, al minerario, e alle materie prime e semilavorati per le costruzione e per le infrastrutture, a partire dal rame e dall’acciaio. Ad ogni modo, il passaggio da politiche espansive monetarie a politiche espansive fiscali non è una peculiarità di Trump (o di Clinton), ma è in linea con quanto è prospettato da Janet Yellen, presidente della Fed, e da molti economisti espressione di circoli economici che contano, come Summers, per il quale la causa principale del permanere della stagnazione sono i bassi tassi d’interesse. Questi economisti pensano che c’è troppa liquidità nell’economia, che ciò crea il rischio di crisi finanziarie, e che, invece, bisogna rilanciare gli investimenti attraverso l’aumento della spesa pubblica.
La differenza tra Clinton e Trump stava da un’altra parte: nel modo di finanziarie l’aumento della spesa pubblica. Clinton prevedeva l’aumento delle entrate, soprattutto mediante l’aumento dell’imposizione fiscale, e quindi appariva maggiormente orientata a contenere l’aumento del debito pubblico e, quindi, meno decisa nell’abbandono della disciplina di bilancio. Trump, invece, è apparso deciso a contenere la pressione fiscale, anzi a tagliare le imposte sui profitti delle imprese e ai più ricchi, e quindi molto meno preoccupato di espandere il debito pubblico. L’orientamento espansivo di Trump, però, se, da una parte, crea difficoltà per la gestione futura del debito federale, dall’altra parte, appare più coerente con i massicci progetti di investimento. Infatti, il finanziamento della spesa pubblica mediante l’aumento della tassazione sulle imprese Usa appare poco realizzabile, perché, data l’organizzazione già molto internazionalizzata delle imprese, le spingerebbe maggiormente verso la delocalizzazione e ostacolerebbe i progetti di reindustrializzazione. Quindi, l’aumento della spesa pubblica inevitabilmente porterebbe alla crescita del debito pubblico. Paradossalmente, con buona pace dei suoi critici (tra cui lo stesso Summers), Trump non poteva non apparire più credibile della Clinton.
Il problema principale, posto dal varo di politiche espansive della portata prospettata, è, però, soprattutto un altro. L’avvio di imponenti lavori pubblici porterebbe all’aumento dell’occupazione, e quindi del reddito disponibile e dei consumi, senza contare, ovviamente, l’aumento della domanda di materie prime e semilavorati relativa al piano infrastrutturale. Ora, come sempre avviene in occasione di politiche fiscali espansive, se la manifattura domestica non è sufficientemente competitiva, l’aumento della domanda interna porta all’aumento delle importazioni, e quindi all’aumento del debito commerciale estero. Il pericolo per gli Stati Uniti è proprio questo: avendo già un debito commerciale enorme e una manifattura in molti settori meno competitiva, a trarre vantaggio dell’aumento della spesa pubblica statunitense sarebbero i Paesi che negli ultimi anni hanno orientato la loro economia in senso neomercantilista, cioè che hanno basano la loro crescita prevalentemente non sul mercato interno ma sulle esportazioni. Pensiamo solamente al possibile aumento delle importazioni di acciaio, necessario per le infrastrutture, dalla Cina, di gran lunga il maggiore produttore mondiale. È a questo punto che interviene il secondo punto della ricetta economica, il protezionismo, che limiterebbe l’import e quindi l’aumento del debito commerciale, conseguente all’espansione della spesa pubblica statunitense. La vulgata ha dipinto Trump come il crociato del protezionismo e la Clinton come la paladina della libera circolazione. In realtà, a guardare il loro programma, entrambi si erano detti pronti a rivedere la politica commerciale Usa in senso protezionista. Anzi, la Clinton ha operato una conversione di centottanta gradi passando da fautrice del Tpp (il trattato di libero commercio dell’area del Pacifico) a fiera oppositrice. Il programma della Clinton era ispirato al rilancio della manifattura, in base al principio “buy american”, e alla prevenzione degli abusi del libero mercato da parte della Cina. Tuttavia, dati i precedenti iperliberisti di Hillary Clinton e soprattutto del marito Bill, anche su questo Trump appariva più credibile e, nell’insieme, più coerente.
L’obiettivo dichiarato delle politiche protezionistiche, nella retorica elettorale di Trump e Clinton, è la Cina, che nel 2015 ha realizzato un surplus commerciale di 367 miliardi di dollari con gli Usa, pari a quasi metà dei 745 miliardi di dollari del debito commerciale complessivo. Ancora più importante è che la Cina si appresta a superare economicamente gli Usa e che possa rappresentare l’unico Stato che in futuro potrebbe mettere in difficoltà il ruolo globale degli Usa. La Cina negli ultimi anni è sempre più presente con scambi commerciali e con investimenti di capitale non solo in Asia, ma anche in Africa e persino in America Latina, il giardino di casa degli Usa. La Cina ha sostituito gli Usa come primo partner commerciale del Brasile e c’è un progetto, per ora fermo, riguardante un canale attraverso il Nicaragua, alternativo a quello di Panama, che è controllato dagli Usa. Se esiste una minaccia al mantenimento dell’egemonia mondiale degli Usa, questa non viene dalla Russia. Malgrado questo paese sia molto esteso e molto ricco di materie prime e abbia una forza militare di un certo rispetto, soprattutto però in riferimento alle armi nucleari, la sua debolezza sul piano economico e demografico non gli permette di andare oltre il livello di potenza regionale. Da questo punto di vista, ha senso l’orientamento di Trump a spostare il focus della strategia degli Usa dalla Russia alla Cina, cercando di trovare un accordo con i russi in modo da rompere o almeno indebolire la loro intesa con i cinesi. Allo stesso modo, avrebbe senso, se stiamo alle dichiarazioni di Trump e alla nomina di Michael Flynn alla sicurezza nazionale (perse il ruolo di capo dell’intelligence militare perché entrò in contrasto con Obama per l’appoggio ai jihadisti di Al Nustra in Siria), la correzione della politica medio-orientale obamiana e clintoniana di uso indiretto del radicalismo islamico e del jihadismo contro i regimi laici. Fra l’altro, gli sponsor diretti dei jihadisti, Arabia Saudita e petromonarchie arabe, molto vicini alla famiglia Clinton, sono stati impegnati negli ultimi anni in una guerra commerciale contro il settore americano dello shale oil, che è uno dei settori industriali dietro l’ascesa di Trump. Gli errori della Clinton come segretario di stato nell’area medio-orientale, ad esempio in Libia, dove gli Usa hanno subito l’iniziativa franco-britannica, sono stati probabilmente una delle cause della sua mancata elezione.
Ma le politiche protezionistiche statunitensi hanno un altro obiettivo, non esplicitamente dichiarato da Trump e Clinton, ma non meno importante per il mantenimento dell’egemonia mondiale statunitense. Si tratta della Ue e in particolare della Germania, che, in rapporto alle dimensioni dell’economia e della popolazione, realizza un surplus commerciale più grande della Cina. Il surplus commerciale della Ue con gli Usa, calato dai 96,4 miliardi di euro del 2006 ai 48,5 miliardi del 2009, è esploso negli ultimi anni, raggiungendo i 122,7 miliardi nel 2015. Quasi la metà del surplus Ue è da riferirsi alla Germania (54 miliardi), per la quale gli Usa sono diventati nel 2015, per la prima volta, il primo partner commerciale, superando la Francia. Senza i saldi positivi con gli Usa, la bilancia complessiva della Ue e quella di molti Paesi dell’area euro sarebbe negativa o ancora più in negativa, visto che con la Cina il saldo degli scambi è pesantemente negativo (nel 2015, 180 miliardi di euro di passivo per tutta la Ue). Inoltre, peggiorerebbero i profitti delle multinazionali europee, visto che gran parte dell’export europeo verso gli Usa è intracompany, cioè diretto a controllate di multinazionali con sede nella Ue. Tra i Paesi europei maggiormente beneficiati dagli scambi con gli Usa, c’è l’Italia, per la quale il Paese nordamericano nel 2015 è stato il terzo mercato di esportazione (8,7% sul totale), ma ha rappresentato il surplus maggiore con 21,8 miliardi su un saldo complessivo di 41,8 miliardi. Non meraviglia, quindi, che le borse europee, a partire da quella di Milano e a differenza di quella di New York, siano crollate dopo l’elezione di Trump, né che i mezzi di comunicazione di massa europei si siano particolarmente accaniti contro Trump, a partire da The Economist, che è tradizionale espressione del capitale multinazionale e transnazionale europeo, e che vede tra i suoi maggiori azionisti proprio quella famiglia Agnelli che è attiva nel settore dell’auto e specificatamente in Messico con la sussidiaria statunitense Chrysler, cioè in uno settori e in uno dei Paesi obiettivo della retorica protezionistica di Trump.
Trump come espressione delle tre crisi del capitale, della globalizzazione e dell’egemonia statunitense
Gli Usa parlano a nuora (la Cina) affinché anche suocera (la Germania e la Ue) intenda. Infatti, l’ascesa di Trump sarebbe stata impossibile se l’Europa non avesse accentuato la sua politica di austerity e di neomercantilismo proprio durante la crisi peggiore dal dopoguerra. Mentre gli Usa spendevano per cercare di far fronte alla crisi, e, stimolando la domanda interna, facevano da traino all’export delle economie europee, l’Europa a trazione tedesca riduceva la domanda interna, imponendo cure da cavallo e vincoli di bilancio ai Paesi più in difficoltà, nonostante i moniti del Fondo monetario internazionale e di Obama. Quest’ultimo, non a caso, ha scelto la Grecia per iniziare il tour di commiato dagli alleati europei, parlando proprio contro l’austerity. Fra l’altro, da parte degli Europei risulta abbastanza ipocrita lamentarsi del protezionismo di Trump, quando si applica o invoca, in particolare da parte dell’Italia, lo stesso protezionismo contro la Cina, ad esempio proprio sull’acciaio.
L’elezione di Trump non è il prodotto di alcuna tendenza populista, se proprio vogliamo seguire i media nell’usare questo termine che non spiega nulla e che mette insieme partiti e movimenti molto diversi. Ad ogni modo, se con il termine populista intendiamo una tendenza che fuoriesce da un quadro bipartitico o bipolare tradizionale e, quindi, dagli interessi dello strato di vertice del capitale, come in effetti accade in Europa, dove centro-sinistra e centro-destra perdono complessivamente voti, la vittoria di Trump non è populista in quanto esprime le tendenze dell’élite capitalistica Usa e si colloca all’interno dell’alternanza bipartitica. Se le posizioni di Trump appaiono anomale, è soltanto perché la situazione del contesto è anomala, caratterizzata com’è da una crisi di durata e ampiezza straordinaria. Trump è il prodotto di tre crisi strettamente connesse tra loro:
la “crisi secolare”, che poi non è che un nome per definire uno stato, ormai cronicizzato, di sovraccumulazione di capitale del modo di produzione capitalistico, che si accompagna a una tendenza al calo del saggio di profitto;
la crisi della globalizzazione. La globalizzazione è stata la risposta alla prima manifestazione della sovraccumulazione di capitale con la crisi del ’74-75 e quella dei primi anni Novanta, attraverso l’export all’estero di merci e soprattutto di capitale in eccesso verso Paesi con salari più bassi e con un tasso di capitale fisso investito inferiore e, quindi, con saggi di profitto più alti. Questa risposta oggi, però, come è evidente anche dal rallentamento del commercio mondiale, non basta più a compensare o a frenare la caduta del saggio di profitto, a causa dell’intensificazione della sovraccumulazione di capitale e della conseguente sovrapproduzione di merci nei Paesi avanzati e dal presentarsi di questi fenomeni anche nei Paesi emergenti, soprattutto in Cina. La tendenza a scaricare la sovrapproduzione crescente sui mercati esteri ha provocato l’aumento della competizione commerciale e messo in crisi gli assetti della prima fase della globalizzazione
la crisi di egemonia degli Usa. La sovraccumulazione di capitale si presenta in forme tanto più massicce quanto più un paese è capitalisticamente avanzato. Tale fenomeno negli ultimi due decenni ha dato luogo a uno sviluppo ineguale, determinando la perdita di potere relativo da parte degli Usa a favore di economie emergenti sostenute da stati forti. Inoltre, la conflittualità tra aree economiche principali e tra stati si è accentuata proprio con la crisi scoppiata nel 2007-2008 e gli Usa hanno maggiori difficoltà ad assolvere al tradizionale ruolo di traino della crescita mondiale mediante le importazioni, proprio a causa di una crescita interna che rimane troppo bassa.
Trump è, quindi, l’esecutore di un cambiamento di linea ritenuto necessario da gran parte dell’élite nordamericana, sebbene tale cambiamento possa essere declinato con alcune differenze nel modo di attuazione e con l’accentuazione su certi interessi piuttosto che di altri. Tuttavia, e forse proprio per questa ragione, sarebbe sbagliato pensare che Trump e le politiche protezionistiche possano rappresentare la fine della globalizzazione o del libero mercato. La fine della prima globalizzazione, coincisa con lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914, dipese non solo da una crisi economica importante, ma anche da due elementi strutturali: a) all’epoca le imprese e il mercato dei capitali non erano così internazionalizzati e integrati come oggi; b) esistevano imperi territoriali entro cui i capitali potevano rinserrarsi; c) in definitiva l’accumulazione funzionava soprattutto su base nazionale. Oggi, invece, l’accumulazione è globale, le imprese sono multinazionali e transnazionali e esiste un mercato internazionale dei capitali. Per le stesse ragioni, ben difficilmente Trump potrà imporre con successo politiche troppo protezionistiche. Probabilmente potrà imporre una maggiore protezione sullo scambio di merci (compresa la forza lavoro), ma certo avrebbe molte più difficoltà a imporre politiche di controllo sui movimenti dei capitali, ammesso che lo voglia. Anzi, un eccessivo protezionismo sulle merci e una competizione tra stati sull’abbassamento delle imposte alle imprese possono costituire una spinta a investire in impianti che producano all’estero e un freno ai programmi di rilocalizzazione della manifattura. Se già negli anni Sessanta Kennedy e Johnson fallirono nel tentativo di limitare gli squilibri della bilancia delle partite correnti Usa, controllando l’esportazione di capitale delle multinazionali e provando a reinternalizzare i profitti esteri, a maggior ragione un tale tentativo risulta velleitario oggi. Dunque, ben difficilmente ci troviamo, almeno per il momento, davanti alla chiusura della fase storica del capitale globalizzato. Inoltre, una inversione della tendenza del capitalismo all’espansione verso l’esterno e una massiccia reindustrializzazione degli Usa e degli altri Paesi avanzati appaiono quantomeno improbabili, proprio a causa dei livelli di sovraccumulazione raggiunti. Probabilmente siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione, peraltro già apertasi con la Brexit. Tale fase sarà caratterizzata da una maggiore conflittualità tra frazioni del capitale internazionale, soprattutto tra Usa, Germania, Giappone e Cina e da un riequilibrio o da un tentativo di riequilibrio delle relazioni degli Usa con la Cina e con la Ue, con una combinazione di elementi di protezionismo e di internazionalizzazione.
Dunque, è per ragioni strutturali, che rimandano al funzionamento del modo di produzione capitalistico, che è altamente improbabile che gli Usa ritornino a una politica isolazionista o che abbandonino la Nato. Inoltre, abbiamo qualche dubbio che, come alcuni hanno ritenuto, la politica di Trump possa essere meno bellicista di quella della Clinton. La stessa polemica da parte di Trump sulla necessità che gli alleati della Nato aumentino la loro spesa militare non va interpretata come una tendenza isolazionista. Molto più probabilmente rientra nella critica all’austerity europea, ispirata alla necessità che anche la Ue adotti politiche di bilancio espansive (in questo caso di keynesismo militare), che aiutino gli Usa a controllare i propri squilibri commerciali e delle partite correnti, con l’aggiunta di dare impulso all’export del complesso militare-industriale statunitense.
La politica di Trump avrà probabilmente effetti destabilizzanti sull’intero quadro economico e politico mondiale. In primo luogo, accentuerà la competizione economica con la Ue e la Cina. Inoltre, molto dipenderà dall’effetto delle politiche di spesa pubblica, che porteranno all’aumento del debito federale, e conseguentemente all’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato a livello mondiale. Le previsioni di un tale aumento, oltre alla rivalutazione del dollaro, stanno già creando difficoltà a molti Paesi europei, con l’aumento dello spread, e soprattutto ai Paesi emergenti, in difficoltà a ripagare i debiti pubblici e i debiti delle imprese in dollari o in valute legate al dollaro e da cui i capitali hanno ricominciato a defluire verso l’euforico mercato azionario statunitense. A questo proposito, va ricordato che gli Usa hanno sempre fondato la loro capacità di finanziare il debito pubblico e commerciale mediante l’attrazione di capitali dall’estero, in particolare dai grandi esportatori (petromonarchie, Giappone e Cina). Ma ciò è possibile solo grazie al fatto che il dollaro è moneta di riserva e di scambio internazionale. Visto che il dollaro è moneta internazionale soprattutto perché è utilizzata per gli scambi di petrolio, che gran parte dei rifornimenti cinesi e giapponesi di petrolio vengono dal Golfo Persico e che quelli del settore petrolifero sono tra i maggiori interessi dietro Trump, ne deriva la necessità di rimettere al centro della politica statunitense il controllo sull’area medio-orientale, oltre che di mantenere il controllo strategico sulle vie commerciali e sull’area che va dal Golfo Persico al Giappone. Dunque, anche per queste ragioni il ritorno a una politica isolazionista è da escludere. Anzi, viene da pensare che la politica di apparente “ammorbidimento” con la Russia, oltre a essere un tentativo di isolare la Cina, nasconda l’obiettivo di preparare il terreno diplomatico per riportare i boots on the ground, cioè per l’intervento di truppe di terra nell’area medio-orientale, dopo la fase obamiana basata sull’uso combinato di forze locali (jihadisti compresi), droni e bombardamenti aerei.
La vittoria di Trump ci parla della necessità di superare l’euro e del socialismo
La vittoria di Trump parla direttamente a noi, cioè all’Europa e alla Germania. E, in secondo luogo, ci dice molto anche sulle tendenze del capitalismo e sulle conseguenze di tali tendenze. Dice in sostanza che la crisi del capitalismo e la conseguente contrazione della base produttiva e nei Paesi centrali porta all’espansione all’estero, che presto o tardi conduce a un contrasto sempre più forte tra capitali e tra stati. Ma dice anche che questa tendenza è stata pesantemente accentuata dalla integrazione europea, specialmente quella monetaria, in particolare dalle misure di austerity. Mentre Trump e Clinton, durante la campagna elettorale, parlavano in termini di migliaia di miliardi da spendere in lavori pubblici, il tanto sbandierato piano di investimenti del presidente della Commissione europea, Claude Junker, si è rivelato chiaramente una bufala colossale e la moderatissima richiesta del governo italiano di un piccolo sforamento sui vincoli di bilancio per il terremoto e per l’immigrazione ha dato luogo a una battaglia campale con la Commissione. Chi critica, giustamente, il nuovo volto reazionario degli Stati Uniti trumpiani farebbe bene a domandarsi quanto Trump sia figlio, oltre che della crisi e dell’imperialismo Usa, anche del modo in cui l’Unione economica e monetaria, non solo la Germania, si è mossa negli ultimi anni contribuendo a creare pericolosi squilibri mondiali. Ma in Europa non è possibile neanche pensare a un programma di investimenti pubblici che permettano di riassorbire la disoccupazione e imprimere una crescita all’economia senza aver prima superato i vincoli europei che stanno alla base dell’integrazione valutaria europea e quindi la stessa integrazione valutaria. Infatti, non va dimenticato che l’euro è stato lo strumento che, attraverso la riduzione della domanda e del mercato interni, ha incentivato la spinta verso l’export. L’euro, in questo modo, ha accentuato la tendenza neomercantilista già presente in Germania e ne ha permesso l’estensione al resto dell’Europa, a partire dall’Italia. La ricerca europea di ampi surplus commerciali ha contribuito a produrre importanti squilibri economici a livello mondiale, tra i quali c’è senz’altro il rigonfiamento del debito commerciale statunitense.
Il modo di produzione capitalistico ormai da tempo non è più fattore di sviluppo delle forze produttive. Anzi, sta distruggendo capacità produttiva e risorse umane e ambientali, determinando una inversione radicale nella condizione delle classi subalterne dei Paesi avanzati, rispetto al lungo periodo di sviluppo delle forze produttive e di miglioramento delle condizioni del lavoro salariato, che, pur con alcune interruzioni, è andato dagli anni Ottanta dell’Ottocento alla fine del Novecento. La globalizzazione, iniziata negli anni Novanta, e la crisi scoppiata nel 2007-2008 hanno colpito pesantemente il centro del modo di produzione capitalistico e la sua classe lavoratrice, riproducendo la disoccupazione di massa e portando la povertà persino fra chi lavora. Ma la polarizzazione sociale e il diffuso disamoramento verso la politica e i partiti tradizionali, che ne derivano, sono stati ricondotti in alvei tutto sommato innocui o addirittura controproducenti. La classe lavoratrice rimane nella condizione di spettatrice passiva o di massa di manovra strumentalizzata dai diversi settori in competizione delle élites capitalistiche, come accaduto nelle ultime elezioni presidenziali negli Usa. In Europa, dove pure il tradizionale bipolarismo viene messo in crisi, la classe lavoratrice viene distolta verso obiettivi che non hanno nulla a che fare con i motivi strutturali della crisi, come l’immigrazione, o che spesso sono solo un sottoprodotto del dominio di classe e hanno un impatto del tutto secondario sulle sue condizioni, come la corruzione o i costi della politica. Eppure, segnali positivi ce ne sono stati: Syriza in Grecia, Corbin nel Regno Unito, Podemos in Spagna, Sanders negli Usa. Il punto è che da nessuna parte, dopo i primi risultati positivi, si è riusciti a rompere con il quadro di riferimento ereditato dal periodo precedente, promuovendo una vera autonomia politica di classe. La sinistra non riesce ad avere piena consapevolezza che la fase storica del capitale è cambiata, rendendo obsolete le tattiche e le posizioni del passato, oppure non riesce a tradurre tale consapevolezza in una linea politica conseguente e coerente. Negli Usa, dove il quadro di riferimento è l’alternanza bipartitica, Sanders è stato ricondotto al sostegno di Hillary Clinton e in Europa, dove il quadro di riferimento è l’integrazione monetaria, la sinistra non è riuscita a smarcarsi dal condizionamento dell’europeismo, inteso come valore in sé positivo.
La ricostruzione di una autonomia politica non può passare unicamente per la crisi del centro-sinistra e del centro-destra tradizionali. Passa, in primo luogo, attraverso la capacità di rompere politicamente con qualsiasi illusione di alleanza con i settori della “sinistra” capitalistica che si sono fatti promotori della globalizzazione, i democratici negli Usa e il partito socialista europeo, e con i vincoli che finiscono per neutralizzare le spinte che, nonostante tutte le difficoltà, si producono all’interno delle società avanzate. Ma passa anche per la consapevolezza che, data la fine dei margini delle politiche di redistribuzione, è necessario mettere in discussione i rapporti di produzione esistenti, che stanno alla radice della sovraccumulazione, della distruzione delle forze produttive e della tendenza espansionista delle varie frazioni del capitale. In definitiva, passa per la capacità di ricostruire le coordinate di una prospettiva complessiva di trasformazione della realtà. Né il programma di Trump né quello di Clinton possono risolvere, in ambito capitalistico, la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che porta alla contrazione delle basi della produzione della ricchezza sociale nei Paesi avanzati. Al massimo possono tamponarla momentaneamente. L’unica soluzione possibile alla crisi del capitale, in ambito capitalistico, sarebbe una distruzione di capitale di dimensioni fino ad ora inimmaginate. In alternativa, c’è un’unica soluzione. Questa passa per il superamento dei rapporti di produzione privati, basati sull’appropriazione da parte di pochi del massimo profitto possibile. Quindi, la prospettiva su cui la sinistra deve muoversi non può che essere il socialismo, ossia la riconduzione dei mezzi di produzione sotto il controllo dei lavoratori associati secondo un piano razionale, che superi l’anarchia e la concorrenza del libero mercato. Sono proprio la fine delle illusioni legate alla globalizzazione e il ritorno dell’intervento dello Stato nel Paese guida del capitalismo, seppure in forme funzionali all’accumulazione di capitale, a portare una ulteriore prova della necessità e quindi dell’attualità storica del socialismo.