votonodi Paolo Ciofi –

Il Pci è stato un protagonista decisivo nella dura e difficile lotta per la conquista della libertà, di cui la Costituzione antifascista, che ha dato il soffio della vita alla Repubblica democratica fondata sul lavoro, rappresenta senza dubbio il punto più alto e illuminante nella contrastata storia del popolo italiano. Palmiro Togliatti, il segretario del Partito comunista italiano che della Costituzione e della democrazia nel nostro Paese è stato un costruttore tenace e coerente, originale e innovatore, di fronte all’Assemblea costituente l’11 marzo del 1947 si esprimeva così: «Non vogliamo più essere lo zimbello del giuoco, più o meno aperto, più o meno palese, di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacere la vita politica italiana perché concentrano nelle loro mani le ricchezze del Paese». Per questo «la Costituzione ci deve garantire (…) che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale, di cui gettiamo qui le fondamenta». Ma la sola vera garanzia che ciò avvenga – avvertiva – «è che alla testa dello Stato avanzino e si affermino forze nuove, le quali siano democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura». Vale a dire, «le forze del lavoro».
Dunque, non un ritorno al passato, verso la riesumazione dello Stato liberale e dei principi liberal democratici, che al fascismo non seppero opporre un argine. Bensì una costruzione storicamente nuova per i principi ispiratori, per il blocco sociale e la classe dirigente che la sorreggono. Occorre aggiungere che il Pci non è stato solo il proponente di alcune tra le più rilevanti innovazioni contenute nella Costituzione, come vedremo. È stato anche, in tutta la sua storia, il partito politico più combattivo nella lotta per la sua attuazione. Giacché la Costituzione, che tuttora regge il patto tra gli italiani, è diventata subito un terreno di lotta in conseguenza della rottura dell’unità nazionale e del riemergere di forze conservatrici e apertamente reazionarie. E quando si è posto il problema dell’aggiornamento della seconda parte riguardante l’ordinamento della Repubblica, il Pci ha lavorato perché i cambiamenti fossero orientati a rendere più efficace l’applicazione dei principi e dei diritti: estendendo la partecipazione democratica, decentrando le decisioni, soprattutto ponendo il problema del rinnovamento dei partiti e la questione morale come chiave di volta della questione democratica.

Si può dire che il Pci ha seguito sempre un percorso illuminato dalla Costituzione: in tutte le fasi della sua lotta, con grande coerenza e lungimiranza. Lo ha potuto fare perché aveva elaborato una strategia della trasformazione della società verso una civiltà più avanzata, che innovava profondamente la pratica e i contenuti del socialismo fino ad allora conosciuti. E che puntando sull’espansione massima della democrazia, fondata su nuovi principi di uguaglianza e di libertà, veniva a coincidere con i principi e i diritti fissati in Costituzione, nonché con le condizioni in essa stabilite.

Muovendo da Gramsci, il quale giunge alla rivendicazione di una Costituente nella transizione dal fascismo al socialismo e teorizza il processo rivoluzionario come egemonia da conquistare prima nella società e poi nello Stato; passando per Togliatti e Longo, che nella teoria e nella prassi si muovono lungo la via italiana al socialismo; fino a Berlinguer, che si batte per costruire una “terza fase” del movimento operaio centrata sulla democrazia come valore universale: in tutte queste fasi della lotta del Pci per una civiltà più avanzata, oltre le colonne d’Ercole del modo di produzione capitalistico, il riferimento illuminante resta sempre la Costituzione della Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Un passaggio storico, nel quale l’asse portante dello Stato non è più il cittadino proprietario ma il cittadino lavoratore, su cui costruire un nuovo movimento operaio non solo in Italia ma nell’intera Europa.

La visione strategica di Togliatti era chiarissima. Appena tornato in Italia dopo un esilio di quasi 20 anni, nel discorso pronunciato a Napoli l’11 aprile 1944 dichiara che, convocata un’Assemblea costituente, il Pci proporrà «di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà», compresa «la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (…) del capitale monopolistico”. Una Costituzione, precisa in polemica con Piero Calamandrei, che non può semplicemente prendere atto della realtà secondo il modello sovietico del 1936, ma deve avere un carattere progettuale-programmatico: «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale».

È la traduzione in termini costituzionali dell’idea della «democrazia progressiva». Un’impostazione geniale a mio parere e del tutto inedita, che rovescia la visione tradizionale del processo rivoluzionario e delinea la possibilità di «un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità», «cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Togliatti il rivoluzionario costituente – come lo ha definito Gianni Ferrara – il quale nella pratica dell’azione trasformatrice vedeva con lucidità il nesso inscindibile tra fini e mezzi. Per cui, se il fine è l’impianto di una democrazia progressiva in grado di realizzare un complesso di riforme che trasformino la struttura economica e sociale, il partito nuovo di massa è lo strumento indispensabile per raggiungere lo scopo.

«Nessuna politica – aveva affermato Togliatti nel discorso di Napoli già citato – può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due fattori costitutivi della strategia togliattiana, che la rendono credibile e operativa. E la cui ispirazione di fondo è entrata a far parte della Costituzione come progetto di cambiamento.

Questa nostra Costituzione, che oggi chi governa vorrebbe nella sostanza rottamare, ha un’architettura sobria ed equilibrata nelle sue parti come un edificio rinascimentale. E già nel primo articolo contiene il fondamento del nostro rinascimento. Siamo una Repubblica democratica che fa risiedere la sovranità nel popolo, da cui discende il carattere rappresentativo di tutto l’ordinamento. Ma non basta: siamo una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Un’ innovazione rivoluzionaria, che va ben oltre le colonne d’Ercole dello Stato liberale. Innanzitutto perché sancisce l’insufficienza del sacro principio dell’uguaglianza davanti la legge, pur necessario e ribadito nella prima parte dell’articolo tre. E poi perché getta le basi per i diritti sociali, i nuovi diritti della persona.

Non più graziose concessioni dei sovrani e dei padroni del vapore. Ma neanche bonus e voucher a chi oggi per vivere deve mettere sul mercato le proprie capacità, vendere la propria forza-lavoro. La Costituzione stabilisce il contrario: il lavoro da merce, più o meno di scarto, diventa diritto per assicurare a tutti e a tutte una vita dignitosa, degna di essere vissuta. Il lavoro quindi come diritto inalienabile, senza il quale non ha senso parlare di libertà e di uguaglianza tra gli esseri umani. La questione di principio è posta senza possibilità di equivoci nella seconda parte dell’articolo tre. Dove si afferma – ricordiamolo – che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». E dove dunque è chiaro che non basta distribuire più equamente il reddito prodotto dalla collettività, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto sociale, ossia nel rapporto di proprietà, se si vogliono garantire libertà e uguaglianza e il pieno sviluppo della persona umana, facendo assumere ai lavoratori e alle lavoratrici il ruolo di nuova classe dirigente.

Una visione straordinariamente moderna della libertà e dell’uguaglianza, che dal fondamento del lavoro fa emergere nel titolo III della Carta la fitta trama dei diritti sociali. Parliamo – in sintesi – della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni; della parità di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro; di una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro comunque sufficiente ad assicurare una esistenza libera e dignitosa; del diritto al riposo e alla salute, all’istruzione, alla pensione e all’assistenza sociale. Nonché – nell’articolo nove – dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, e della tutela del paesaggio e del patrimonio artistico e culturale della nazione.

Ma i costituenti non si sono limitati a indicare principi e diritti che uniscano nel patto costituzionale gli italiani. Hanno prescritto anche i doveri, e le condizioni economiche e politiche, perché il patto si possa inverare nella vita delle persone e negli svolgimenti della vita sociale, alimentati da contraddizioni e conflitti. Ecco allora che per dare attuazione alla fitta trama dei diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure questa sia una condizione imprescindibile. È indispensabile che l’iniziativa economica privata non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà, alla dignità umana (art.41). E che alla proprietà privata sia posto un limite che ne assicuri la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (art. 42).

Inoltre, «ai fini di utilità generale», si indica la possibilità di «riservare originariamente o trasferire» allo Stato, a enti pubblici o – e questo mi pare un aspetto di grande rilievo – «a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (art.43). È un indirizzo che sancisce il pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà capitalistica privata oggi dilagante, e che trova conferma nei successivi articoli 44 (sui limiti della proprietà terriera e il razionale sfruttamento del suolo), 45 (sulla funzione sociale della cooperazione), 46 (sulla collaborazione dei lavoratori nella gestione delle aziende), 47 (sulla tutela del risparmio e il controllo del credito).

In sintesi possiamo dire che il fondamento del lavoro su cui si erge l’intero impianto costituzionale diventa in tal modo la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento indispensabile per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato: temi di prorompente attualità, per l’oggi e per il domani. Ma che per la loro giusta impostazione, e ancor più per la loro concreta attuazione, non possono prescindere dalle condizioni sociali e politiche indicate dalla Costituzione. E infatti le lavoratrici e i lavoratori conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (artt. 39 e 40), ma anche la possibilità di lottare e di farsi classe dirigente «associandosi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Un progetto costituzionale che si spinge a introdurre elementi di socialismo, come è stato giustamente osservato, non può essere scisso dal protagonismo delle masse lavoratrici. Si tratta di un aspetto decisivo, peraltro tra i più contestati nel corso delle dure battaglie per l’applicazione dei principi costituzionali, che oggi si presenta come un problema drammaticamente aperto.

La presenza del Pci si è fatta molto sentire nel corso della elaborazione della Costituzione. Non solo perché Umberto Terracini era il presidente dell’Assemblea costituente. Ma soprattutto perché decisivo è stato l’apporto di Togliatti, protagonista assoluto nella stesura dell’intero impianto costituzionale, in particolare proprio del citato titolo III (artt. 35-47). La sua relazione presentata alla Prima sottocommissione della Costituente e da questa approvata – un documento che sarebbe utile rileggere e diffondere – è stata l’intelaiatura su cui si è costruita la parte a mio giudizio più innovativa della Costituzione, appunto quella relativa ai diritti sociali e ai rapporti di proprietà.

Togliatti tra l’altro affermava: «Vano sarà l’aver scritto nella nostra Carta il diritto di tutti i cittadini al lavoro, al riposo, e così via, se poi la vita economica continuerà ad essere retta secondo i principi del liberalismo, sulla base dei quali nessuno di questi diritti mai potrà essere garantito. Un inizio di garanzia si avrà invece quando nella Costituzione stessa venga indicato che la vita economica del Paese sarà regolata secondo principi nuovi, i quali tendano ad assicurare che l’interesse egoistico ed esclusivo dei gruppi privilegiati non possa prevalere sull’interesse della collettività».

Dai principi liberali, sostenuti allora da azionisti, repubblicani e liberali democratici, la Costituzione assume la conquista storica dei diritti civili ma respinge la vecchia ideologia proprietaria e mercatista comunque riverniciata, che ignora il peso insostenibile dei rapporti economici nella configurazione dei principi di uguaglianza e libertà. Tema cruciale, sul quale si è determinata nell’impianto costituzionale una convergenza significativa tra due correnti di pensiero, l’una che risale a Marx, cui allora facevano riferimento i comunisti e i socialisti, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale, il cui principale esponente era nella Dc Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa che però arriva «a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi» osserva Togliatti, citando proprio i temi dei diritti sociali, «della nuova concezione del mondo economico» «fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro», «dei limiti del diritto di proprietà». E anche sul tema della dignità della persona vi è un altro punto di convergenza, aggiunge, giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».

Come ho avuto modo di osservare già in altre occasioni, si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento, ad Ovest come ad Est, e ricca di implicazioni tuttora attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà alla nostra Costituzione, sicuramente la vetta più alta toccata da noi italiani nel contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione strategica di lungo respiro su cui costruire il futuro. Un grandioso disegno innovativo, le cui potenzialità sono rimaste largamente inesplorate oltre che inapplicate. E che oggi si vorrebbero definitivamente azzerare con la controriforma sottoposta a referendum. Il contrario di un deteriore compromesso o, peggio ancora, di un inciucio, come sostiene con il suo linguaggio da trivio il capo del governo. «Si tratta, invece, – per usare ancora le parole di Togliatti – di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione».

Oggi per responsabilità precisa di chi governa siamo di fronte a una pericolosa spaccatura del Paese, che rischia di farci compiere un clamoroso balzo all’indietro. Questa è la novità, una gran brutta novità rispetto al passato. In verità gli attacchi alla Costituzione sono cominciati assai presto, in concomitanza con l’inizio della guerra fredda, proprio con la rottura di quella unità che aveva consentito di approvare la Costituzione pressoché all’unanimità. Sono proseguiti poi in circostanze e con modalità diverse, sempre secondo un combinato disposto ricorrente: su un versante, l’offensiva contro i lavoratori e le loro conquiste; sull’altro, la restrizione della democrazia e della partecipazione popolare. Ma non era mai successo nella storia repubblicana che un capo di governo si mobilitasse in prima persona con tutti i mezzi per cambiare la Carta fondamentale, che appartiene a tutti gli italiani.

Tra la fine del 1949 l’inizio del 1950, all’epoca del centrismo, la celere di Scelba spara e lascia sul terreno sei braccianti a Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore. Altri sei morti a Modena, tra gli operai che manifestano contro la serrata delle Fonderie Riunite. Nel giro di due mesi quattro eccidi, dodici morti, centinaia di feriti e molti arresti. È un bilancio impressionante nel corso di un duro conflitto tra le classi, in cui il ministro degli Interni Scelba dichiara che la Costituzione è una trappola e il segretario della Cgil Di Vittorio si batte per l’applicazione di fondamentali diritti costituzionali, a cominciare dal diritto di sciopero. Qualche anno dopo, nel 1953, la Dc vara tra vibranti proteste la legge truffa, che assegnava il 65 per cento dei seggi a chi avesse superato la metà dei voti validi, una legge che poi fu abrogata perché il premio di maggioranza non scattò. Era uno zuccherino in confronto con i premi di maggioranza di oggi, ma anche una prima distorsione vistosa del proporzionale, il sistema elettorale su cui si regge la rappresentanza nell’impianto della Costituzione, che considera il Parlamento specchio del Paese da cui tutti i poteri derivano.

Il problema del corretto comportamento dei corpi dello Stato secondo i principi costituzionali, in particolare delle forze di polizia nei conflitti del lavoro e nelle manifestazioni di piazza, è restato a lungo aperto e appare tuttora non risolto. Nel 1960 furono uccisi ancora sei operai delle Officine Meccaniche di Reggio Emilia, dopo che un gruppo di manifestanti si era radunato davanti al monumento dei caduti cantando canzoni di protesta. Era una manifestazione di sciopero indetta in seguito ai fatti di Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, dove la protesta popolare aveva impedito lo svolgimento del congresso del Msi, il partito fascista che sosteneva il governo di centro-destra diretto da Fernando Tambroni. Né possiamo dimenticare i fatti di Genova più recenti, quelli del 2001 in occasione delle manifestazioni contro il G8, in cui trovò la morte Carlo Giuliani.

Ma il combinato disposto che unisce l’offensiva contro il lavoro con la restrizione della democrazia non cessa neanche all’epoca del centro-sinistra. E anzi trova forse l’espressione più compiuta negli anni 80, quando la “grande riforma” di Craxi, chiaramente orientata al presidenzialismo, si combina con il taglio della scala mobile che lo stesso Craxi impone come presidente del Consiglio. Un passaggio di fase decisivo, in cui il Psi compie una scelta netta, salta il fosso e passa dalla parte del capitale. Il salario viene indicato come causa dell’inflazione, del dissesto dei conti pubblici, delle difficoltà dell’economia. In un Paese con più di due milioni di disoccupati, la finanza pubblica in dissesto e l’inflazione al 21 per cento, lo scontro sociale – annota Berlinguer – ha una nettezza e una asprezza che non si conoscevano da decenni.

Dentro la più generale offensiva neoliberista condotta su scala globale da Reagan e Thatcher, «l’attacco della Confindustria alla scala mobile – precisa il segretario del Pci – è un aspetto di un’offensiva che tende a scaricare sulla classe operaia tutto il peso della crisi, non solo riducendo la sua quota di reddito ma colpendo il suo potere contrattuale, quindi sociale, e perciò, in definitiva, la possibilità di esercitare la sua funzione dirigente nazionale». La Repubblica del 22 marzo 1984 scrive: «S’intende aprire nel Paese uno scontro di dimensioni nuove e forse sconosciute» il cui fine è l’isolamento della Cgil, «la liquidazione e il ridimensionamento drastico del Pci».

Come sappiamo, i 60 e 70 sono stati gli anni dei grandi movimenti di lotta studenteschi ed operai, dell’espansione della democrazia e della partecipazione popolare, di importanti conquiste contrattuali, sociali e civili, come lo Statuto dei diritti dei lavoratori, la parità di trattamento tra donne e uomini sul lavoro, il Servizio sanitario nazionale, il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia. Si stavano attuando parti fondamentali della Costituzione. Era un momento nel quale – osserva Berlinguer – «si profila la necessità e la possibilità di realizzare un grande passo avanti sulla via della trasformazione democratica e socialista del nostro Paese». «Una via di grandi e ampie lotte di classe e politiche e di una conseguente difesa e attuazione dei principi e del sistema politico delineato dalla Costituzione repubblicana».

Lo scontro era ravvicinato e stringente, e quando all’ordine del giorno emerge la questione del governo del Paese dopo le grandi avanzate del Pci nelle elezioni del 1975-76, viene messa in atto una controffensiva pesante in tutti campi: interno e internazionale; sociale, politico e culturale. Si lavora per sradicare il partito dalla sua base sociale; per colpire le organizzazioni operaie, sindacali e popolari e spezzarne l’unità; per svuotare e paralizzare le istituzioni democratiche; per seminare disordine e disorientamento negli apparati pubblici; per interrompere i processi di avvicinamento tra le forze democratiche, denuncia Berlinguer. Vengono alla luce tentativi golpisti e progetti di controriforma costituzionale, come quello della Loggia P2 di Licio Gelli.

Impressionante è la sequenza degli attentati e della violenze del terrorismo nero, dei sequestri di persona e degli omicidi delle Brigate rosse, delle azioni violente degli autonomi. La paura si diffonde, la partecipazione popolare si restringe, e il Pci è attaccato da più parti, mentre nella società montano il disagio e la protesta, soprattutto tra i giovani, maggiormente colpiti dalla crisi economica e finanziaria. L’8 maggio 1978 è la data spartiacque di questa fase, perché con l’assassinio di Aldo Moro si mette una pietra tombale su una possibile intesa tra le forze politiche che hanno fatto la Costituzione per attuare la Costituzione, e quindi per realizzare una «democrazia compiuta» superando la convenzione che escludeva il Pci dal governo. Si apre la fase confusa delle cosiddette riforme costituzionali, dove si fa strada il falso presupposto che le difficoltà di governare la società e gli sconvolgimenti indotti dalla tecnica e dalla scienza dipendano non dalla crisi della politica come fattore di cambiamento e dalla degenerazione dei partiti, ma da un eccesso di democrazia. La quale dunque va limitata e ridotta per fare spazio alla governabilità, vale a dire alla prevalenza del governo sul Parlamento, e del comando sulla partecipazione.

Nell’intervista a Romano Ledda su l’Unità del 27 maggio 1984 pochi giorni prima di morire, Berlinguer sostiene che si è aperta in Italia una questione democratica, per effetto di fattori oggettivi e soggettivi, che riteneva si dovessero con decisione contrastare. Su un versante, l’accresciuto potere del capitalismo finanziario globale, che spinge per uniformare al suo potere gli assetti istituzionali e politici. Sull’altro, il cosiddetto decisionismo craxiano, che tende ad alterare le regole della democrazia e gli stessi principi costituzionali, traducendo il problema, reale, dell’efficienza democratica nella pratica della riduzione dei poteri del Parlamento. In altre parole, siamo di fronte a un infittirsi di segni di tipo autoritario cui va contrapposta una adeguata risposta democratica.

Il problema dell’efficienza in una società sempre più complessa non si risolve con la sovrapposizione dell’autorità al consenso, precisa ancora Berlinguer. Né con gli annunci demagogici sulla velocità delle decisioni: «Per di più – osserva – questa tendenza si manifesta soltanto quando si tratta di colpire gli interessi dei lavoratori, mentre c’è il massimo di lentezza quando si tratta di colpire gli interessi dei gruppi privilegiati». «La democrazia, lungi dall’essere un ostacolo, è indispensabile alla soluzione dei problemi del Paese». Naturalmente Renzi, che ha tentato di reclutare Berlinguer alla sua causa, queste parole non le cita, forse neanche le conosce.

Ma poiché una democrazia che sia efficiente è un problema vero, il Pci presentò la più radicale proposta di riforma istituzionale di quel tempo: passaggio al monocameralismo, drastica riduzione del numero dei parlamentari eletti con il sistema proporzionale e delegificazione. Lasciando al Parlamento nazionale le grandi scelte strategiche e realizzando un reale decentramento delle decisioni verso le Regioni e le autonomie locali. Tutte proposte che però allora furono respinte. «Noto una singolare contraddizione tra questo rifiuto e tutto ciò che si va dicendo sulla necessità di decidere rapidamente», ebbe modo di commentare Enrico Berlinguer.

Il fatto è che per il Pci, a differenza delle forze di governo allora come oggi, le riforme istituzionali dovevano essere funzionali all’applicazione coerente e rigorosa dei principi e dei diritti costituzionali. Di tutti i diritti – sociali, civili e politici –  che sono indivisibili. In base a questa impostazione, già nell’Assemblea costituente i comunisti erano favorevoli al monocameralismo per evitare che con due Camere si potesse indebolire il principio della sovranità popolare. Un punto che Togliatti chiarì intervenendo in Assemblea: «In linea di principio siamo contrari al principio bicamerale; abbiamo però detto sin dall’inizio che non avremmo fatto di questa nostra posizione motivo di conflitto (…): accettiamo quindi un bicameralismo; ma a condizione che, se vi saranno due Camere, esse siano entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo».

Berlinguer sa bene che non si può dare attuazione ai principi e ai diritti costituzionali, e quindi rimuovere la questione democratica, se non si rinnovano radicalmente i partiti, secondo la funzione che la Costituzione a loro attribuisce. Bisogna essere chiari fino in fondo: la crisi di cui soffre l’Italia non dipende dai lacci della Costituzione, che peraltro è rimasta in larga misura inattuata, ma dalla politica fallimentare delle classi dirigenti, di cui una delle manifestazioni più vistose è la trasformazione della politica in funzione tecnica del capitale e la degenerazione dei partiti. Questi, come denunciava Berlinguer nella famosa intervista a Scalfari il 28 luglio 1981, sono diventati «macchine di potere e di clientela», «federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sottoboss», «senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti», e «hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni». E qui risiede la ragione di fondo per cui, secondo il suo giudizio, «la questione morale è il centro del problema italiano».

Una questione cruciale, sulla quale il segretario del Pci, sorretto dalla convinzione che «la democrazia è un valore universale del socialismo», vale a dire di una civiltà più avanzata in cui l’economia sia posta al servizio del benessere materiale e immateriale di tutti gli esseri umani, aveva aperto un confronto a tutto campo nel suo stesso partito. Tema: una rivoluzione copernicana della politica perché i contenuti prevalgano sugli schieramenti; e l’apertura di una «terza fase» del movimento operaio in Europa dopo l’esaurimento della fase sovietica e di quella socialdemocratica.

Non dimentichiamo che in collaborazione con Altiero Spinelli, eletto al Parlamento europeo nelle liste del Pci e poi vicepresidente del gruppo comunista e apparentati, Berlinguer delinea un progetto per far avanzare «la funzione di pace, di cooperazione e di progresso di un’Europa nuova, nella quale il socialismo – un socialismo nella libertà – si affermi – sono parole di Berlinguer – come la via maestra per arrestare il declino di questa parte del nostro continente (…) e per rinnovare profondamente le strutture, i modi di vita, le classi dirigenti». Insomma, il segretario del Pci riprende il filo rosso di un percorso che inizia con Gramsci e dalla conquista della Costituzione italiana si dipana fino al grande tema di un nuovo socialismo e della rivoluzione nell’Occidente avanzato, oggi scosso da una crisi strutturale e di fondo.

La sua opera è rimasta incompiuta per la morte improvvisa che tragicamente lo ha colpito. E dunque non possiamo sapere quale sarebbe stato l’esito della difficile lotta politica e ideale che con coraggio aveva intrapreso. Viviamo in un’altra epoca storica, eppure queste sue parole sembrano scolpite nella dura realtà del nostro tempo: «Dal generale panorama della nostra epoca emerge (…) la necessità di portare avanti la lotta per il socialismo su scala mondiale e nei singoli Paesi. Ma emerge anche la necessità di un grande rinnovamento del socialismo. (…). Rinnovamento all’Est e all’Ovest; al Nord e al Sud. Generale è l’esigenza di approfondire la comprensione dei tempi attuali e di ridare vita a quella creatività che è la linfa di ogni teoria e prassi rivoluzionaria».

Ma la svolta della Bolognina, invece del rinnovamento del socialismo, ha prodotto la subalternità al capitalismo. E oggi ne paghiamo tutti le spese al punto tale che Renzi, per i suoi comportamenti concreti e per la controriforma costituzionale che propone, sembra il commissario politico del potere bancario e finanziario, come direbbe José Saramago. Un punto d’approdo che viene da lontano, e che non ha mai contrastato in modo netto l’impostazione di Berlusconi, il quale puntava a cambiare la prima parte della Costituzione, in particolare «gli articoli 41 e seguenti» perché secondo lui non tutelano l’impresa. E un’evoluzione che anzi, in conseguenza della nascita del Pd partorito con una forte inseminazione del pensiero liberista, trova con la cultura berlusconiana non trascurabili assonanze.

Il quotidiano della Confindustria, commentando il discorso di Veltroni pronunciato al Lingotto il 27 giugno 2007 non sta nella pelle: il dato più significativo è stato la rivalutazione della ricchezza, con cui si completa la svolta borghese. «Un’operazione di metabolismo politico di ingredienti che finora erano stati parte del sogno berlusconiano». Anche il Corriere della sera applaude e chiarisce che «lungo la linea della discontinuità» Veltroni «ha spiegato al suo popolo come le grandi narrazioni dei padri costituenti (…) abbiano esaurito la propria funzione storica». Quindi, in conclusione, un’alternanza tutta interna al capitale, tra quelli che lo stesso Veltroni aveva definito in altre circostanze un capitalismo agonistico e un capitalismo solidale. Con tanti ossequi alla Repubblica fondata sul lavoro.

Lo scrive in modo che non ammette equivoci Goffredo Bettini, allora stretto collaboratore di Veltroni: occorre «una vera e propria rifondazione democratica» perché la Repubblica è stata costruita principalmente da due partiti che rispondevano a «poteri esterni»: «la Chiesa per la Dc, il mondo comunista per il Pci. Questo ha ritardato una vera rivoluzione liberale». E siccome «non abbiamo ancora preso bene nelle mani il bandolo per ribaltare questa situazione», è necessario il Pd.

Dunque, Renzi è il prodotto finale dell’evoluzione della specie. E di due processi interconnessi, che si sono sviluppati dopo l’89. Da una parte, in seguito alla globalizzazione finanziaria del capitale, lo spostamento delle decisioni politiche dalle assemblee elettive verso i centri del potere economico, le conglomerate multinazionali, le grandi istituzioni finanziarie. Dall’altra, la cancellazione del lavoro come soggetto politico, che non ha più né rappresentanza né rappresentazione. Con l’effetto di generare una crisi devastante della democrazia rappresentativa e la formazione di sistemi politici monoclasse, nei quali si contendono il governo e il potere componenti diverse della borghesia dominante.

È un fenomeno globale, che si presenta in modo più o meno accentuato, e con caratteristiche peculiari, nelle diverse realtà nazionali e territoriali. In assenza di una sinistra sociale e politica che voglia cambiare la società, masse enormi di esclusi, colpiti dalla crisi economica e sociale, tra i quali aree crescenti di ceto medio impoverito, vagano in cerca di lavoro, di diritti, di rappresentanza. Una condizione nella quale hanno buon gioco le destre nazionaliste e i miliardari demagoghi in cerca di una base di massa. Dopo Berlusconi, l’ascesa di Trump, favorita peraltro da un sistema politico storicamente costruito sugli interessi della classe dominante, è emblematica del degrado della democrazia americana. Ma non è la prima volta che nella storia compaiono regimi reazionari dei massa, come insegnano il fascismo e il nazismo.

In Europa i trattati prescrivono il dominio assoluto del mercato, e quindi del capitale. In Italia, dove la Costituzione sancisce la centralità del lavoro e quindi presuppone la presenza della rappresentanza politica dei lavoratori, persiste un’anomalia che deve essere cancellata. La controriforma di Renzi serve a questo, a conformare i poteri costituzionali sugli interessi dominanti del mercato, e pertanto a liquidare la possibilità di far vivere i principi e i diritti che in Costituzione sono sanciti. Questa è la sostanza, e questa è la vera posta in gioco. Con il referendum si vorrebbe chiudere definitivamente un’intera fase della nostra storia, nella quale è stata data la possibilità alle lavoratrici e ai lavoratori di farsi classe dirigente aprendo le porte a una società più giusta e avanzata.

Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Nel vuoto della rappresentanza politica del lavoro, l’operazione in atto è facilitata. Attenzione però: stabilizzando il vuoto della presenza politica del lavoro, cioè di una parte fondamentale della società, degrada il pluralismo della rappresentanza, e quindi muore anche la democrazia liberale: un effettivo pluralismo nasce dal riconoscimento del dualismo lavoro-capitale. In altre parole, contrariamente a quanto credono Bettini e coloro i quali in buona fede votano sì, non andremmo incontro a una stagione radiosa di democrazia liberale. Bensì a un periodo confuso di instabilità e di ulteriori lacerazioni, di guerre tra poveri e di tensioni geopolitiche, alimentate dal dominio di una oligarchia che cercherà di cancellare ogni traccia della cultura della solidarietà e della partecipazione, esaltando l’egoismo proprietario.

Valutiamo i fatti. Non ho mai sentito dire dal governo che vuole applicare la Costituzione. Ed è un fatto. Un altro fatto è che l’attività del governo non unisce il Paese, lo spacca. La volontà pervicace con cui vuole cambiare la nostra Carta fondamentale, come se fosse cosa sua e non un patrimonio di tutti gli italiani, ne è una prova. Nei suoi comportamenti concreti, poi, il governo lacera i diritti del lavoro, condanna i giovani all’emarginazione e i pensionati all’indebitamento, impoverisce i dipendenti pubblici, aziendalizza la scuola e privatizza la sanità. Il problema, allora, non è cambiare la Costituzione ma la politica del governo, avviare a soluzione la crisi, ripulire e rinnovare i partiti, dare rappresentanza a chi non ce l’ha, riscattare i diritti fondamentali. E lottare per l’applicazione della Costituzione, apportando quelle migliorie che appunto ne facilitino l’applicazione.

Conclusione. Se voti SI’ chiudi la porta al cambiamento, il contrario di quel che dice Renzi, e ti consegni senza tutele a un rafforzato potere di chi comanda, delle banche e della finanza. Altro che cambiamento. Questo è un salto mortale all’indietro, una retrocessione storica. Se voti NO, riapri le porte alla possibilità di un cambiamento vero, che si può ottenere lottando per l’attuazione della Costituzione. La vittoria del NO aprirebbe uno scenario nuovo. Offrirebbe migliori condizioni alle forze disperse della sinistra e dei movimenti sociali per fare quel passo che non si può più rinviare: costruire una sinistra nuova, operaia, popolare, di massa. Sappiamo che non è facile. Ma impegnamoci a fondo per la vittoria del No e poi proviamoci. Facendo finalmente della Costituzione non solo una bandiera da sventolare con orgoglio, ma la carta fondativa dei valori di una sinistra ampia e combattiva, capace di stare nella società e nelle istituzioni: per rinnovare le istituzioni e cambiare la società.

 

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