acquabenecomunedi Dino Greco –

La Costituzione mette le cose in chiaro sin dal suo articolo 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Ebbene, nessun’altra costituzione fa una cosa del genere, tanto meno nel suo cuore, nel suo tratto identitario, nella definizione che essa dà di se stessa.

Al contrario, nello Statuto albertino il cuore è la proprietà e lo Stato deve difenderla.

Il mondo borghese, il mondo della borghesia liberale classica, è un mondo profondamente individualista: esso concepisce la sfera politica come funzione garantista della proprietà privata, retta sul principio inossidabile della concorrenza.

Lo Stato ha dunque come propria peculiare funzione quella di proteggere la proprietà privata.

Come sapete, l’articolo 3 della Costituzione recita:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Si tratta, con tutta evidenza, di un principio desunto dalla cultura liberale.

Ma poi, al secondo comma dell’articolo 3 troviamo la vera novità, che rompe con la tradizione liberale precedente:
“E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Qui si va molto oltre i confini del pensiero liberale.

Il soggetto della trasformazione non è genericamente il cittadino, ma il lavoratore perché l’Italia, appunto, è una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

C’è qui un vero e proprio salto di paradigma” politico-sociale che chiude i conti col vecchio stato liberale pre-fascista.

Ma è nel Titolo III della C.I., quello che disciplina i “Rapporti economico-sociali” che vive e si invera quella dichiarazione di principio.

Si tratta dei 13 articoli che vanno dal 35 al 47, dove viene sancito, senza mezzi termini, “il primato dell’utilità sociale” sull’interesse privato.

Perché lì la Costituzione italiana, unica al mondo, si occupa dei rapporti di proprietà per affermare che (articolo 41) l’iniziativa economica è sì libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Di più, vi si afferma che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

In altri termini, la programmazione economica, di cui è titolare la mano pubblica, diventa la bussola che deve – e sottolineo deve – orientare tanto l’attività imprenditoriale pubblica, quanto quella privata.

E cosa succede – o dovrebbe succedere – ove l’interesse privato si muova in contrasto con l’interesse sociale?

La Costituzione è nettissima (articolo 42): “La proprietà privata può essere (…) espropriata” e (articolo 43) trasferita “allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti”.

Tutto ciò poiché – ribadisce la Costituzione – “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento” ma anche “i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.

Analoghi limiti e condizioni sociali vengono stabiliti per la proprietà terriera e per lo sfruttamento del suolo (articolo 44).

Quello che voglio sottolineare è la forza con la quale la Costituzione insiste su questo punto, in ogni suo articolo, e quanto essa sia permeata da un fortissimo spirito comunitario, teso a frenare gli “spiriti animali” del capitalismo e a promuovere l’interesse comune, l’interesse sociale, l’uguaglianza reale.

La domanda che a questo punto si impone è: quanto lontani siamo da quella ispirazione, da quella che – attenzione! – malgrado attentati e manomissioni rimane la legge fondamentale dello Stato italiano alla quale dev’essere (dovrebbe essere!) subordinata tutta la legislazione ordinaria e su cui la Corte costituzionale ha il compito di sorvegliare?

La risposta è lapidaria: siamo lontani anni luce da quell’impianto e dai rapporti di forza sociali e politici che ne consentirono la nascita.
Ciò che si spiega con lo sforzo continuo del potere costituito di mutarne la lettera, mentre già si è lavorato alacremente, e con successo, per rovesciarne la sostanza.

Ecco dunque venire in chiaro il tema, squisitamente politico, che è di fronte a noi: il grande capitale, nell’epoca della globalizzazione e della sua superfetazione finanziaria, per venire a capo delle contraddizioni generate dal proprio modello di accumulazione ha bisogno di drenare e concentrare nelle proprie mani (le mani di un pugno di “proprietari universali”, direbbe il compianto Luciano Gallino) l’intera ricchezza prodotta dal lavoro sociale e di sequestrare tutto ciò che la natura offre come bene comune.

Per farlo occorre liberarsi di ogni ubbìa democratica e tornare alle forme più autoritarie, reazionarie e oligarchiche di governo del sistema.

Ecco perché la battaglia per la difesa e, soprattutto, per l’attuazione della Costituzione rappresenta un compito di primaria importanza che riguarda la gran parte del popolo italiano.

La stessa battaglia contro l’oligarchia liberista che governa l’Europa con il bastone della sua pseudo-scienza monetarista, passa attraverso la riaffermazione della nostra Costituzione che di quell’impianto è l’opposto diametrale.

Costituzione italiana e Costituzione europea

Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà inutile confrontare l’impianto della Costituzione italiana del’48 con l’impronta della Costituzione europea come emerge dal suo Testo fondamentale e dai trattati che ne formano l’architettura economico-sociale.

Ebbene, abbiamo visto come la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza.

Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.

Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia.

Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.

Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo) rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.

Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”, perché privano il parlamento e dunque il popolo italiano della propria sovranità, a partire dalla legge di bilancio.

Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo rovescio.

L’esigenza che ci viene proposta (o, piuttosto, imposta) di una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del capitale (cioè del profitto): l’esatto contrario di ciò che sta scritto in termini inequivocabili nell’articolo 3 della Costituzione italiana.

Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi” nonché un’esteso processo di dismissioni della proprietà pubblica, di privatizzazioni dei servizi sociali e la messa a mercato dei beni comuni.

Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del Trattato costitutivo dell’Ue.

In conclusione: mentre lo spirito che animava i nostri “padri costituenti” e che innervò la Costituzione era quello di rifondere le tradizioni cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato in una posizione di primazia, attribuendogli potestà rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.

Riassumendo, la C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, l’Unione europea impone un dispositivo di regole per il compimento degli affari.

La questione dell’acqua, fondamentale bene comune, essenziale, come l’aria che respiriamo, per la stessa riproduzione dell’esistenza umana

Ora, vale la pena di ricordare che sotto la spinta della crescita demografica e per effetto dell’inquinamento, le risorse idriche del pianeta pro capite si sono ridotte del 40 per cento negli ultimi trent’anni.

Ovviamente, come in tutte le statistiche, vive un qualcosa di perverso, come Trilussa aveva notato con sarcasmo:

“Da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due”.

Fatto sta che oggi 1 miliardo e 400 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile, e la Banca Mondiale stima che antro il 2025 questo dato salirà a 2,5 miliardi.

Ciò significa che l’acqua diverrà sempre più preziosa, soprattutto se controllata da multinazionali.

Privatizzare l’acqua significa sottomettere un bene vitale ad interessi finanziari e ridurre la partecipazione democratica dei cittadini nelle decisioni sulla gestione di essa.

Se fino ad oggi l’acqua era considerata una risorsa vitale di cui la collettività (enti pubblici) si faceva carico, oggi diventa una vera e propria merce destinata a chi può pagarla.
Nel 2000 i prestiti concessi dal Fondo monetario internazionale a 12 paesi (quasi tutti africani, poveri e indebitati) hanno avuto una condizione comune: la privatizzazione delle risorse idriche o il completo rientro sui costi del servizio pubblico.
Dobbiamo avere piena consapevolezza che siamo di fronte ad un colossale processo di accumulazione mediante espropriazione, non dissimile a quello che si realizzò oltre due secoli or sono agli albori dell’industrializzazione.
Tale processo ha assunto nel tempo presente proporzioni tali che 1000 persone fisiche detengono la ricchezza di due miliardi e mezzo di persone.
La parabola di “Matrix”, il film di fantascienza dei fratelli Wachowski (metafora del cannibalismo del capitale).
Il referendum sull’acqua pubblica e la situazione italiana
Ricorderete tutti come il Forum italiano dei movimenti per l’acqua – al quale aderirono oltre 80 reti nazionali, centinaia di enti locali e più di mille realtà territoriali come, per esempio, sindacati e comitati – si batté contro la privatizzazione dell’acqua e per il passaggio alla gestione pubblica delle risorse idriche, riuscendo ad ottenere una grande vittoria nel giugno del 2011 quando 27 milioni di italiani andarono a votare il referendum per abrogare qualsiasi norma che affidava la gestione dell’acqua nelle mani dei privati.

Vittoria però che nelle città italiane rimane ancora sulla carta.
Fatta eccezione di Napoli, unico caso in cui il passaggio è già avvenuto.
Ciò in quanto i poteri economici dominanti, le forze politiche ad essi asservite hanno subito lavorato per vanificare il responso della volontà popolare.
Il fatto è che i servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione.
La straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie: non solo attraverso i ripetuti attacchi all’esito referendario, bensì mettendo in campo processi di privatizzazione strisciante, attraverso l’ingresso nelle società gestrici di F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp) e/o di FSI (Fondo Strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.
Si capisce bene che sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio.
E si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e nella riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone.
L’obiettivo è chiaro: se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.

Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d’ombra: devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi.
L’insieme delle draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie.
Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi.
Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.

Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, che avviene
attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma criminale che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni: in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare.
Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia nel nostro paese.

Il TTIP (Trattato di libero commercio fra Usa e Europa)
Il 13 febbraio 2013, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama e i leader dell’Unione Europea si sono impegnati ad avviare negoziati per un accordo transatlantico per il libero commercio e la libertà degli investimenti (Ttip).
Si tratta del negoziato per la costruzione di un’area di libero scambio fra Europa ed Usa, il cosiddetto Trattato di partenariato trans-atlantico, sul modello di altre, famigerate intese liberoscambiste volute ed attuate dagli Stati Uniti, come il NAFTA (fra Usa, Canada e Messico).
Ci provò nel 1997 anche il Wto (Omc)– nella quasi clandestinità (perché il lavoro sporco va fatto in silenzio) – con i 27 paesi interessati a promuovere la libertà di investimento, ripulita da vincoli legislativi, sociali, ambientali: il cosiddetto MAI (accordo multilaterale sugli investimenti), denunciato da Attac-Francia e da Le monde diplomatique.
L’accordo fu a quel tempo bloccato dal parlamento francese.

Ma ci sono in Europa altri precursori, sia pure limitati al lavoro, come la Direttiva Bolkestein, che prevedeva che leggi e contratti applicabili alla manodopera di imprese che operano all’estero debbano essere quelli del paese d’origine e non quelli del paese ospitante, con l’istituzionalizzazione del dumping di manodopera.

Ora, in cosa consiste questo trattato che procede in semisegreta gestazione?

Ebbene, si tratta di un negoziato teso a dare vita ad un mercato interno transatlantico che attraverso l’abbattimento delle barriere non tariffarie e attraverso l’omologazione delle norme legislative, consentirà alle imprese multinazionali, ai grandi investitori e player economici, di superare vincoli legislativi e contrattuali di ogni genere che possano ostacolare la piena remunerazione del capitale investito (dicasi attesa di profitto).

In altre parole: una piena liberalizzazione competitiva che mette al primo posto il profitto, fa retrocedere a variabile dipendente diritti codificati nelle legislazioni nazionali e manda al macero intere costituzioni.

Come si può vedere, è la piena decostituzionalizzazione dei diritti rivendicata due anni or sono dalla banca d’affari J.P. Morgan.

Tutta la legislazione a protezione dei diritti collettivi e dei beni comuni è sotto schiaffo:
sicurezza alimentare (norme sui pesticidi, ogm, ormoni);
acqua, energia, servizi pubblici;
sanità, istruzione;
lavoro (salari, contratti, stato sociale);
brevetti (diritto di proprietà intellettuale);
biocombustibili;
internet;
tutela dei dati personali

Insomma, tutto ciò che è suscettibile di creare profitto entra nella logica mercantilistica e viene sottratto ad ogni e qualsiasi vincolo di natura politica e sociale.

Nella gerarchia delle priorità c’è il profitto privato o, per dirla con la formula paludata dei capitalisti, la remunerazione del capitale investito.

Al punto che è previsto un tribunale che dirimerà il contenzioso inevitabilmente destinato a nascere fra Stati e imprese.

Si veda il caso del Quebec che decise una moratoria sullo “shale gas”, il gas di argilla, nocivo per la salute.
Ebbene, in ossequio al trattato Nafta, le industrie Usa hanno trascinato in tribunale lo stato canadese chiedendo un risarcimento di milioni di dollari.
Per fare un esempio concreto, se il governo italiano dovesse approvare la legge d’iniziativa popolare del Forum italiano dei movimenti per l’acqua, riconoscendo finalmente l’esito del voto referendario del 2011, ad accordo vigente potrebbe trovarsi sanzionato per aver impedito, con la ripubblicizzazione del servizio idrico, futuri profitti alle multinazionali del settore.
Usa e Ue vogliono in sostanza spacciare per «uscita dalla crisi» il nuovo tentativo di realizzare l’utopia delle multinazionali, ovvero un mondo in cui diritti, beni comuni e democrazia siano considerate null’altro che variabili dipendenti dai profitti.
Siamo di fronte ad una vera e propria guerra alla società, giocata con l’alibi della crisi e con il tentativo di rendere strutturali le politiche di austerità, riducendo il lavoro, i beni comuni, la natura e l’intera vita delle persone a fattori per la valorizzazione dei grandi capitali finanziari.
Così come facemmo contro il Mai e contro la Bolkestein, occorre attivare una forte mobilitazione politica e sociale su entrambe le sponde dell’Atlantico, per dire tutte e tutti assieme che è un’altra la via di uscita dalla crisi.
E che questa via passa esattamente per l’abbandono di un modello che è contro la vita e il futuro.

Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi).
La sua svendita, cominciata da tempo, trova ora una sua più sistematica applicazione con il ruolo assunto nella stessa dalla Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l’ente (ora SpA, con all’interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (230 miliardi) di quasi 24 milioni di persone.
Ruolo attraverso il quale Cdp si propone agli enti locali come partner per la valorizzazione degli immobili da vendere, fissandone un prezzo e impegnandosi ad acquisirli qualora l’ente locale non riesca a venderli ad un prezzo maggiore di quello stabilito; operazione che l’attuale governo, sempre con il concorso di Cdp, intende estendere anche a tutti i terreni agricoli demaniali (338.000 ettari).

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