di Dino Greco –

Il concetto di egemonia è per Gramsci la chiave per comprendere lo sviluppo della storia italiana nell’ultimo secolo e lo stesso processo di formazione dello stato unitario italiano.

Il limite della rivoluzione borghese in Italia è quello di non aver avuto alla sua testa un partito giacobino, capace di portare la rivoluzione ai suoi necessari sbocchi.

Il Partito d’azione dei repubblicani mazziniani non ebbe la capacità storica di impostare questo problema.

Lo sfiorò confusamente Giuseppe Garibaldi quando diede ai contadini le terre del demanio per poi mandare Nino Bixio a reprimere ferocemente i contadini che credendo a quelle promesse avevano occupato le terre dei proprietari terrieri.

L’unificazione italiana avviene sotto l’egida di Casa Savoia; la rivoluzione viene cioè guidata dai moderati cavouriani.

Il Risorgimento italiano si caratterizza cioè come rivoluzione passiva, dove le grandi masse popolari non sono il soggetto e il protagonista, bensì l’oggetto della vicenda storica: uno Stato, il Piemonte, che ha operato come una classe, si sostituisce ai gruppi sociali locali per dirigere una lotta di rinnovamento.

Si tratterà però di una forma di dittatura senza egemonia: il Piemonte non ha alcuna intenzione di spingere la trasformazione nel senso di un riscatto delle masse contadine dallo stato di soggezione in cui erano mantenute dallo stato borbonico.

Così, uno dei tratti costitutivi del dominio sabaudo sarà la restaurazione del nobilato parassitario meridionale nella funzione di gabelliere di Casa Savoia.

Gramsci osserva che noi non abbiamo una letteratura nazional-popolare.

Gramsci concentra l’attenzione sul principale dei romanzieri italiani, il Manzoni: egli non è veramente popolare, malgrado sia studiato in tutte le scuole: il suo atteggiamento verso i popolani (ne I promessi sposi) è di casta.
“I popolani del Manzoni – scrive Gramsci – non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda. Essi sono animali ed il Manzoni è benevolo verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali”.

E ancora:
“L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa verso il popolo, di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. Il carattere aristocratico del cattolicesimo manzoniano appare dal compatimento scherzoso verso le figure del popolo”: Renzo, Agnese, Lucia, fra Galdino non hanno spessore e personalità come coloro che provengono dalle classi superiori. Questa è una prerogativa che appartiene agli altri protagonisti, non di estrazione popolare, che animano il romanzo: il cardinal Federigo, fra Cristoforo, lo stesso Innominato.

L’esatto contrario dell’intellettualità borghese francese (Zola, Balzac, Hugo) che sa dare al paese una letteratura nazional-popolare capace di arrivare veramente agli strati più profondi del popolo.

Ebbene, la mancanza di una cultura nazional-popolare è la conseguenza del fatto che è mancata in Italia una vera riforma intellettuale e morale: non la si è avuta nel Rinascimento italiano, che fu movimento culturale e di costume essenzialmente di vertice, intervenuto quando la rivoluzione comunale ormai rifluiva nelle signorie e nei principati.
Anzi, la Chiesa la impedì con la “controriforma”.
Né la si ebbe col Risorgimento, perché anche i laici hanno fallito il compito per non aver saputo elaborare un moderno umanesimo: essi si sono collocati al di sopra delle masse in un rapporto paternalistico e non di rappresentanza organica.

Una vera riforma intellettuale e morale, una vera fusione organica degli intellettuali con le masse, con il popolo, può essere, per Gramsci, soltanto il prodotto di una rivoluzione proletaria e dell’egemonia del proletariato.

Gramsci pensa ad una posizione di classe nella cultura che in quanto si fa egemone diventa di tutto il popolo e perciò veramente nazionale.

L’eloquenza, come caratteristica dell’intellettuale, era tipica della cultura italiana, cultura in gran parte giuridica e letteraria, propria anche del modo di essere dei dirigenti socialisti, che si presentavano soprattutto come oratori.

Il tratto dell’intellettuale gramsciano non è più quello dell’eloquenza, ma consiste “nel mescolarsi attivamente alla vita pratica come costruttore, organizzatore, persuasore permanente”.
Dice Gramsci:
“Persuasore permanente perché non puro oratore, e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistico-storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente (specialista+politico)”.

In sintesi: il dirigente è colui che possiede una specializzazione culturale e al tempo stesso una visione del processo storico in cui la sua specializzazione si colloca.

Qui siamo di fronte ad un effettivo arricchimento del pensiero di Marx.
Il marxismo insegna che le ideologie sono sovrastrutture dei rapporti di produzione e di scambio esistenti. E che le concezioni, il momento della vita ideale corrispondono alla struttura economica prevalente.
Ma anche la struttura è contraddittoria, perché in essa vive la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione.
Le ideologie sono perciò anch’esse in contraddizione tra di loro e contraddittorie ciascheduna al proprio interno, perché espressione della contraddizione che vive nella base sociale.
Prevale sì l’ideologia della classe dominante, ma quando la struttura va in crisi si determina un rivolgimento anche nella sovrastruttura: un rivolgimento non univoco, ma intimamente contraddittorio, in cui tutti gli elementi interagiscono tra loro dialetticamente.

L’egemonia di una classe si spezza quando viene meno la sua capacità di giustificare un determinato assetto economico e politico della società.

Gramsci su benedetto Croce.

La critica che Croce muove a Marx si può riassumere così: Croce attribuisce a Marx la tesi secondo cui l’economia sarebbe una sorta di “Dio ascoso” che tutto spiega e in cui tutto si risolve.
Ma questa critica stravolge Marx, lo ossifica e mistifica in radice, non vede il rapporto fra struttura e sovrastruttura, non capisce il concetto di formazione economico-sociale.

Per Croce Il Capitale è un’opera pseudo-scientifica: essa sarebbe in realtà un’opera di morale travestita da scienza.
Il Capitale partirebbe cioè da un’esigenza etica per fondare un paragone ellittico (incompleto) fra la società capitalistica e la società comunista che viene ipotizzata.

Croce dice: architrave del Capitale è il concetto di plusvalore; ma l’economia conosce solo dei valori; parlare di plusvalore significa dunque porsi fuori dall’economia, per porsi da un punto di vista morale, poiché solo da questo punto di vista possiamo affermare che esiste un plusvalore rispetto ad un valore economico.

Al Croce sfugge che Marx parla di plusvalore facendo il raffronto proprio fra due valori economici: il valore economico della forza lavoro e il valore economico delle merci prodotte dal lavoratore, ed afferma che il valore delle merci prodotte dal lavoratore costituisce un ‘plus’ rispetto al valore della forza lavoro: precisamente, si tratta di valore espropriato al lavoratore ed incamerato dal possessore dei mezzi di produzione, dal capitalista.

La Critica del Croce si dimostra un sofisma, uno dei tanti sgambetti logici di cui sono piene le opere del croce.

Per Gramsci, il merito filosofico del Croce sta nello storicismo, che afferma che tutto il reale è storia e che la storia è tutto il reale e che nulla esiste che non sia storico.
Solo che, al posto della realtà storica effettiva, che sono le nazioni, le classi, i rapporti di produzione e di scambio, i singoli che hanno fatto filosofia o scoperte scientifiche, Croce mette il concetto derivato di queste realtà e cioè la libertà, la cultura, ecc., vale a dire: un’astrazione.

Quello operato dal Croce è il tipico rovesciamento idealistico.

A questo stravolgimento di tipo idealistico si riferiva già Marx nella Sacra famiglia quando affermava:
“Se io dalle mele, pere, fragole, mandorle reali mi formo la rappresentazione generale, il frutto; se vado oltre ed immagino che il frutto, la mia rappresentazione astratta, ricavata dalle frutta reali sia un’essenza esistente fuori di me e sia, anzi, la vera essenza della mela, della pera, ecc., io dichiaro, con espressione speculativa, che il frutto è la sostanza della pera, della mela, della mandorla ecc.”.
Il procedimento idealistico è questo: il concetto per l’idealista è qualcosa che esiste in sé, indipendentemente dalla mente che lo ha pensato e questo concetto è l’effettiva realtà. Le cose concrete sono invece espressione, emanazione di questa sostanza.

Così faceva Hegel e così fa il Croce: al posto di Dante e di Shakespeare mette la poesia, il concetto astratto; al posto di classe operaia, di borghesia, mette il progresso, la libertà, concetti – ancora una volta – astratti.

Per Croce la storia si sviluppa per partenogenesi: è storia solo etico politica, come frutto di idee partorite da altre idee. In essa si perde la dimensione reale dei rapporti sociali.

“La filosofia del Croce – dice un Gramsci sferzante – rimane una filosofia speculativa e in ciò non c’è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberata dalla più grossolana scorza mitologica”.

La pura storia etico-politica (idee che si confrontano con altre idee, concetti astratti che evolvono da se stessi, speculativamente) non sono per Gramsci altro che “filosofemi più o meno interessanti, ma non sono storia. La storia del Croce presenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti, anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore”.

La storia etico-politica non può soprattutto arrivare al concetto di blocco storico, cioè all’unità di struttura e sovrastruttura. La concezione idealistica spezza il blocco storico, vede solo la forma politica e morale in cui esso si esprime e non la ragione vera che dà luogo poi alle ideologie, alle formazioni politiche e giuridiche, ecc.
La storia diventa in Croce una storia formale, una storia di concetti e, in ultima analisi, una storia degli intellettuali, anzi, una storia autobiografica del pensiero del Croce, una storia di “mosche cocchiere”.

L’operazione da compiere è quella che Engels indicava quando affermava che il proletariato deve essere l’erede della filosofia classica tedesca, in quanto esso fonda la soluzione delle contraddizioni del pensiero nella soluzione delle contraddizioni reali della società.

Scrive Marx, in un passo della “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”:
“E’ dunque compito della storia, una volta scomparso l’aldi là della verità, di ristabilire la verità dell’al di qua. E’ innanzitutto compito della filosofia, operante al servizio della storia, di smascherare l’autoalienazione dell’uomo nelle sue forme profane, dopo che la forma sacra dell’autoalienazione umana è stata scoperta. La critica del cielo si trasforma così in critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica”.

Ma il Croce non è Hegel, è un pensatore che rimpicciolisce Hegel, lo svirilizza. Fare i conti con Croce non è lo stesso che farli con Hegel, è farlo con qualcosa di più limitato e di più nazionale, nel senso di più provinciale.
Significa poi fare i conti con un momento conservatore dello sviluppo dell’idealismo e non con un momento che, come quello hegeliano, fu progressivo, perché Hegel esprimeva, sia pure in una forma mistificata e speculativa, il senso delle contraddizioni drammatiche del suo tempo: la rivoluzione francese, il periodo napoleonico, il divenire impetuoso della borghesia, la fiducia di questa nelle proprie capacità di vincere le contraddizioni della storia.

Il crocianesimo, no: esso è una riforma reazionaria dell’hegelismo.

La storia dell’Europa del Croce comincia, non a caso, dal 1815, dal Congresso di Vienna, dalla grande restaurazione, cioè da un grande processo di rivoluzione passiva.

Gramsci si chiede: ma come si fa a fare la storia dell’Europa del XIX secolo senza partire dalla Rivoluzione francese?
Si tratta, dunque, di capovolgere il falso storicismo del Croce e di fare di questo storicismo speculativo e intimamente fraudolento uno storicismo dell’immanenza vera, della concretezza.
Ma per farlo – dice ancora Gramsci – bisogna anche liberarsi delle deformazioni del marxismo in materialismo volgare, in meccanicismo.

La critica di Gramsci a Bucharin.

Gramsci dedica tutta una serie di appunti per
criticare l’opera di Bucharin “La teoria del materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista” (Mosca, 1921).

Per cominciare, Gramsci critica lo stesso concetto di “manuale” applicato al marxismo che è una concezione in divenire, che si adegua continuamente allo sviluppo della realtà e quindi non è traducibile in manuale, come lo possono essere concezioni che abbiano già esaurite le loro possibilità di sviluppo.
Il marxismo, per sua natura, è irriducibile a manuale.

Annota Gramsci:
“Se una determinata dottrina non ha ancora raggiunto questa fase classica del suo sviluppo, ogni tentativo di manualizzarla deve necessariamente fallire. La sua sistemazione logica è soltanto apparente e illusoria. Si tratterà, invece, come il saggio di Bucharin, di una meccanica giustapposizione di elementi disparati e che rimangono inesorabilmente sconnessi e slegati nonostante la vernice unitaria data dalla stesura letteraria”.

Ma dov’è il vizio profondo del lavoro di Bucharin?
Esso sta nella volgarizzazione del marxismo.
In esso manca la dialettica e il marxismo viene concepito come scisso in due parti: una filosofia generale, il materialismo dialettico e, poi, una seconda parte, cioè l’applicazione del materialismo dialettico alla storia degli uomini e della società, il materialismo storico.
Sarà poi questo lo schema fatto proprio da Stalin nel IV capitolo della Storia del Partito comunista (bolscevico).

La questione posta da Gramsci si può riassumere così: se nel marxismo c’è una concezione generale, una filosofia, che è il materialismo dialettico, e una sua applicazione alla storia, il materialismo storico, come si fonda il materialismo dialettico? Evidentemente al di fuori della storia, tanto è vero che esso verrà poi applicato alla storia.
Esso non potrà allora che essere dedotto speculativamente, per via puramente deduttiva. Ma allora esso diventa una “cosmogonia”, che perde ogni capacità euristica.
Allora, però, siamo al di fuori del marxismo, che punta le sue armi proprio contro la filosofia speculativa, considerata questa come un’ideologia.

Così ridotto, il marxismo torna ad essere una filosofia, accanto ad altre filosofie, non più la fondazione critica (e scientifica) di una nuova concezione del mondo.

Il rapporto fra essere e pensiero.

Gramsci rimprovera a Bucharin anche di avere accolto la concezione dell’oggettività del mondo esterno “nella sua forma più triviale e acritica”.

Per Gramsci, affermare l’esistenza in sé e per sé del mondo esterno, indipendentemente dal soggetto che pensa, significa restare ancora nell’alveo del pensiero religioso tradizionale, il quale suppone che il mondo esista in quanto c’è un creatore.

Gramsci si chiede: come si può affermare che esista una oggettività al di fuori dell’uomo?: “Chi giudicherà di tale oggettività?”. E quindi: come potrà essere fondata questa oggettività?

Per Gramsci, gli idealisti elevano a sostanza il solo soggetto e fanno del pensiero il solo fondamento di tutto il reale. Mentre i materialisti tradizionali elevano a sostanza solo l’oggetto e cancellano la funzione del soggetto. Gli uni e gli altri cadono nella metafisica e si cacciano in un vicolo cieco.

Si osservi la totale coincidenza di questa impostazione gramsciana con Karl Marx che scrive, nella prima tesi su Feuerbach:
“Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi (…) è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E’ accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, perché naturalmente l’idealismo, ignora l’attività reale, sensibile come tale(…)”.

Bisogna invece andare all’affermazione di una realtà che il pensiero non crea e, anzi, di cui il pensiero fa parte; però, non nella sua unità indistinta, ma individuando in questa realtà degli oggetti, cioè dei momenti che esso oggettivizza in funzione della prassi.

Il nostro orecchio traduce in suono quello che, per esempio, è una vibrazione. Ancora: il nostro orecchio non coglie suoni che l’orecchio del cane coglie. Abbiamo infatti funzioni diverse, un rapporto con la natura che è diverso, una prassi che è diversa.
Questo non toglie nulla all’oggettività del nostro conoscere. Però questo nostro conoscere non è un ricevere tutto quel che ci sta intorno, ma è uno scegliere; è intervento, è individuazione di ciò che ci serve oggettivamente, secondo un processo che diventa sempre più complesso, che supera i dati immediati dei sensi, avvalendosi, ai fini della conoscenza e della prassi, di strumenti che vanno ben al di là delle capacità conoscitive dei sensi.

L’uomo individua nella realtà che gli sta di fronte, in cui egli è immerso e di cui fa parte, oggetti che interessano la sua prassi, e il cui grado di oggettività, di corrispondenza con il reale è provato dalla prassi stessa.

Si torna ancora a Marx, alla seconda tesi su Feuerbach:
“La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E’ nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica”.

Per Marx, dunque, la verità si afferma nella prassi e nella capacità trasformatrice della prassi.

Scrive J.P. Sartre in Questioni di Metodo (il Saggiatore):
“(…) In quell’epoca lessi “Il Capitale” e “L’Ideologia tedesca”: capivo tutto luminosamente e non capivo proprio niente. Capire è mutare se stessi, andare oltre se stessi: quella lettura non mi mutava affatto. Ma quello che cominciava a mutarmi, invece, era la realtà del marxismo, la pesante presenza, al mio orizzonte, delle masse operaie, corpo enorme e cupo che viveva il marxismo, che lo praticava e che esercitava a distanza un’irresistibile attrazione sugli intellettuali piccolo borghesi”.

Intanto la prassi è valida, in quanto riesce a intervenire nella realtà e a trasformarla.

Ora risulterà più chiara l’affermazione di Marx secondo cui “ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero”.

Gramsci recupera pienamente la lezione di Marx, per il quale il problema è quello di individuare le leggi specifiche di ogni formazione economico-sociale. Ed esiste una struttura che è propria di ogni formazione economico-sociale.

Si badi: Marx impiega la nozione di struttura non per ridurre ad essa tutti i fatti, ma per meglio capire la concretezza del fatto storico.
L’analisi economica deve perciò partire da determinazioni astratte (valore, plusvalore, merce) per risalire di qui al concreto, che è unità del molteplice.
Dunque, non la storia in funzione della struttura, ma la struttura in funzione della Storia.

Si presti attenzione a questo illuminante passo tratto, ancora, da Questioni di metodo, di J. P. Sartre, la cui importanza giustifica la lunghezza della citazione:
“Quando Marx studia la breve e tragica storia della Repubblica del 1848, non si limita a dichiarare – come si farebbe oggigiorno – che la piccola borghesia repubblicana ha tradito il proletariato, suo alleato. Cerca invece di rendere la tragedia nei particolari e nell’insieme. Se subordina i fatti aneddotici alla totalità (d’un movimento, d’un atteggiamento), lo fa perché attraverso quelli vuole scoprire questa. In altri termini, dà ad ogni evento, oltre che il suo significato particolare, una funzione rivelatrice: siccome il principio che presiede all’indagine è di cercare l’insieme sintetico, ogni fatto, una volta stabilito, viene interrogato e decifrato come parte di un tutto; su di esso appunto, mediante lo studio delle sue lacune e dei suoi “sovrassignificati” si determina, a titolo d’ipotesi, la totalità nel cui seno ritroverà la sua verità. Così il marxismo vivente è euristico: in rapporto alla sua ricerca concreta, i suoi principi e il suo sapere anteriore appaiono come regolatori. Mai in Marx, si trovano entità: le totalità (per esempio la “piccola borghesia” nel “18 brumaio”) sono viventi; si definiscono da sole nell’ambito della ricerca. Non si capirebbe, altrimenti l’importanza che i marxisti attribuiscono, ancor oggi, all’ ”analisi” della situazione. E’ evidente infatti che tale analisi non può bastare e che costituisce il primo momento di uno sforzo di ricostruzione sintetica. Ma è anche vero che essa è indispensabile alla ricostruzione posteriore degli insiemi. Orbene, il volontarismo marxista, che si compiace di parlare d’analisi, ha ridotto questa operazione ad una semplice cerimonia. Il problema non è più di studiare i fatti nella prospettiva generale del marxismo per arricchire la conoscenza e per illuminare l’azione: l’analisi consiste unicamente nello sbarazzarsi del particolare, nel forzare il significato di taluni avvenimenti, nello snaturare certi fatti o persino nell’inventarne, al fine di trovarvi, al di sotto, come loro sostanza, delle “nozioni sintetiche”, immutabili e feticizzate. I concetti aperti del marxismo si sono chiusi; non sono più delle “chiavi”, degli schemi interpretativi: si pongono per se stessi come sapere già totalizzato (…). Il principio euristico: “cercare il tutto attraverso le parti” è diventato la pratica terrorista: “liquidare la particolarità”.

Filosofia, storia, politica.

Se il processo sociale è determinato dall’agire e dagli interessi degli uomini, ciascuno dei quali agisce coscientemente per un determinato obiettivo, il risultato, però, è una realtà sociale che obbedisce a sue leggi obiettive, leggi economiche, che sono indipendenti dalla volontà soggettiva degli uomini, anche se è il lavoro degli uomini che crea l’economia e realizza la formazione economico-sociale (ricordare il Marx della Prefazione alla Critica dell’economia politica del ’59).

Non vi è, dunque, identità tra realtà e coscienza; non vi è identità tra totalità sociale e totalità della coscienza o totalità della teoria.
Vi è invece uno sforzo della teoria di andare verso la totalità del reale. Ma ogni qual volta la teoria viene a contatto con il reale, attraverso la prassi, la teoria va in crisi, è costretta a verificarsi, a correggersi, a svilupparsi e, a volte, a negarsi.

Gramsci, come Marx, attribuisce alla prassi un valore gnoseologico: un conto è l’interpretazione del mondo che si dà quando non ci si propone coscientemente di cambiarlo e si pensa che l’interpretazione sia disinteressata, non rivolta ai fini della trasformazione, ed un conto è invece l’interpretazione che si dà quando si vuole interpretare per cambiare e quando si costruisce la nostra interpretazione ai fini del cambiamento.
In questo caso, l’interpretazione – che non si presenta più come disinteressata, universalmente oggettiva, è in realtà più ricca di capacità oggettiva delle interpretazioni apparentemente disinteressate, perché queste ultime, quando pretendono di essere scientificamente e universalmente valide, non sono in realtà coscienti del loro carattere ideologico, non sono in realtà coscienti di essere espressione di una condizione di classe.

Dirà Gramsci : “Ci sono in giro un sacco di crociani che non sanno di esserlo”.

E’ giusto quindi vedere questo intimo rapporto dialettico fra filosofia e politica. Ma attenzione, andiamo cauti con l’identificazione perché tra teoria e politica vi è comunque una mediazione.

Chi pensasse, ad esempio, che Il Capitale si possa tradurre immediatamente in politica, prenderebbe un grosso abbaglio.
Nel Capitale ci sono le basi scientifiche per elaborare una politica. Ma per passare dall’analisi scientifica alla politica concreta del proletariato in una società capitalistica, che è sempre storicamente determinata, bisogna saper vedere un mucchio di altre cose; si deve vedere come si specifica il capitalismo in quel determinato momento e in quel determinato paese; si deve condurre l’analisi delle stratificazioni sociali di quel determinato paese, che non si riduce mai al solo proletariato e alla borghesia capitalistica; si devono esaminare i movimenti e i partiti politici nella loro specificità e concretezza; si devono esaminare i movimenti culturali, l’influenza dell’ideologia, si devono poi fare i conti anche con le singole personalità politiche e culturali.

Insomma, vi è fra teoria e politica tutta una serie di mediazioni che vanno colte nella loro interazione e condizionamento reciproco.

Guerra di posizione e guerra di movimento.

Come l’analisi di Gramsci sia sempre volta all’analisi oggettiva dei processi lo si vede bene dalla sua definizione di guerra di posizione e di guerra di movimento.

Il termine assume in Gramsci due significati.
Il primo lo si rintraccia a proposito della storia d’Europa:
“Nell’Europa, dal 1789 al 1793 – scrive Gramsci – si è avuta una guerra di movimento politica nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870. Nell’epoca attuale la guerra di movimento si è avuta, politicamente, dal marzo 1917 al marzo 1921 (fine della guerra civile in Russia) e ad essa è seguita una guerra di posizione”.

Qui i termini di guerra di movimento e di posizione stanno ad indicare fasi diverse del corso storico e il passaggio da rapidi sconvolgimenti dell’assetto di classe e politico della società a momenti di stabilità relativa.

L’altro significato dei due termini si incontra in pagine che vanno molto più in profondità.

Nelle “Note sul Machiavelli”, Gramsci si esprime così:
“Per ciò che riguarda gli Stati più avanzati, dove la società civile è diventata una struttura molto complessa e resistente alle irruzioni catastrofiche dell’elemento economico immediato: crisi, depressioni, ecc., dove cioè vi sono strumenti di intervento sul ciclo economico, qui le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come in queste avveniva che un accanito attacco di artiglieria sembrava avesse distrutto tutto il sistema difensivo avversario, ma ne aveva solo, invece, distrutto la superficie esterna, e al momento dell’attacco e dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una linea difensiva ancora efficiente, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche. Né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né tantomeno acquistano uno spirito aggressivo. Ma poi, per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire”.

Tutto il rapporto tra attacco e difesa è dunque, nelle società capitalistiche avanzate, assai complesso.

Dice Gramsci:
“Mi pare che Ilici (Lenin, ndr) aveva compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, alla guerra di posizione, che era la sola possibile in Occidente”.

Vi è una frase di Lenin – che Gramsci non ricorda – in cui egli osserva che in Occidente “tutti gli operai sono organizzati” . Lenin vede cioè che in Occidente la Socialdemocrazia è da tempo radicata nella classe operaia, ha da tempo organizzato i sindacati, le cooperative, da tempo amministra gli enti locali, ha le sue istituzioni culturali, mutualistiche, ecc.

Qui Gramsci affresca una grande distinzione tra Oriente e Occidente, cioè tra Russia e paesi capitalisticamente sviluppati:
“In Oriente, lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa: Nell’Occidente, tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte, più o meno da Stato a Stato, si capisce, ma questo domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale”, quella ricognizione di carattere nazionale che era, tra l’altro, mancata al movimento comunista occidentale.

In definitiva, in Occidente c’è equilibrio tra i due elementi: società civile e Stato. In Occidente, perciò, non basta conquistare lo Stato, bisogna conquistare le trincee e le casematte della società civile. Ecco perché in Oriente si può fare la guerra di movimento e in Occidente si deve fare la guerra di posizione.

Come si vede, i due concetti non indicano il passaggio dall’offensiva alla difensiva e viceversa, ma due strategie sostanzialmente diverse, relative a due situazioni storiche profondamente differenti.

Dunque, il processo, la lotta per l’egemonia si costruiscono per Gramsci avendo individuato lo specifico terreno nazionale: la classe internazionale per eccellenza, il proletariato, deve sapersi “nazionalizzare”, cioè immedesimarsi profondamente con lo specifico nazionale e con la vita nazionale.

 

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