di Dino Greco –

I Quaderni del carcere sono gli appunti che Gramsci scrisse in carcere fra il ’29 e il ’35, cioè a partire da due anni dopo l’arresto, quando riuscì ad avere un po’ più di calma e prima che la sua malattia si aggravasse, al punto di impedirgli di lavorare, anche in ragione delle durissime condizioni carcerarie che dovette subire.

Gramsci stende una serie di quaderni contemporaneamente. Di essi egli sottolinea il carattere provvisorio, di promemoria, non destinati cioè alla pubblicazione, ma propedeutici ad una ricerca più organica che Gramsci si proponeva di condurre, pensando ad un’opera che fosse destinata a durare für ewig (per sempre), come scrisse in una lettera alla cognata Tania Schucht.

Quest’opera non venne mai compiuta. Gramsci non supponeva che l’opera destinata a rimanere per sempre sarebbero state proprio quelle note, lette e studiate, oggi più di ieri, in tutto il mondo (tranne che nell’Italia strapaesana di oggi.

I quaderni furono pubblicati, per la prima volta, fra il ’48 e il ’52 dalla casa editrice Einaudi per espressa iniziativa di Togliatti, quando il pensiero di Gramsci, era sconosciuto.

I Quaderni vengono pubblicati in un’edizione, curata da Felice Platone, che per facilitare la lettura suddivideva i testi gramsciani per argomenti, non, dunque, secondo l’ordine cronologico della loro gestazione.
Si trattava di 6 libri con i seguenti titoli:
– Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce
– Il risorgimento
– Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura
– Letteratura e vita nazionale
– Note sul Machiavelli
– Passato e presente

Solo nel 1975 sarà pubblicata l’edizione critica dei Quaderni, filologicamente e cronologicamente ricostruita per meglio dare conto del pensiero di Gramsci, da Valentino Gerratana.

Sin dalla pubblicazione dell’edizione curata da Platone l’impatto nel mondo intellettuale e politico italiano fu enorme.

Il filo rosso, il motivo conduttore che lega il testo gramsciano è il tema dell’egemonia, che potremmo sommariamente declinare così: come e perché le classi dominanti sono tali, cos’è e come si forma un apparato egemonico, come questo apparato mette in scacco e rende permanente lo stato di soggezione delle classi subalterne, come è possibile fondare/costruire un altro apparato egemonico capace di liberare le classi subalterne dal loro asservimento.

Le classi subalterne sono avvinte, soggiogate e partecipi di una concezione del mondo che non nasce da loro stesse. Esse sono succubi di una ideologia che corrisponde agli interessi e alla funzione storica delle classi dominanti: un’ideologia attraverso la quale le classi dominanti costruiscono la propria capacità di plasmare la coscienza di tutta la collettività, di travestire di oggettività, quasi si trattasse di una legge di natura, l’ordine di cose esistente.

Gramsci compie uno studio degli strumenti attraverso i quali la borghesia esercita il suo dominio:
La scuola, con la divisione fra professionale e ginnasio-liceo, che ha il compito di riprodurre la frattura di classe;
La religione e la Chiesa: sarà grande l’attenzione di Gramsci per il catechismo, considerato come un testo fondamentale, elaborato con estrema sapienza pedagogica;
Il servizio militare, con il manuale del caporale, strumento per imprimere tutta una mentalità e una gerarchia di valori;
I giornali locali, i piccoli episodi di cultura locale, tutte le manifestazioni del folklore, perché bisogna studiare con grande attenzione come si esprime una coscienza subalterna, analizzare il carattere composito e contraddittorio di quella coscienza e cogliere la spontaneità relativa in essa presente;
Il cinematografo: Gramsci sottolineerà l’importanza del sonoro di cui apprende in carcere l’avvento;
La radio, e persino i romanzi di appendice.

Ma se le classi subalterne sono ideologicamente dominate attraverso mille canali da un’ideologia che è quella delle classi dominanti, i loro bisogni effettivi, le loro rivendicazioni spingono queste classi ad azioni, lotte, movimenti, comportamenti che sono in contraddizione con la concezione del mondo a cui esse sono educate.
Dov’è, allora, la filosofia reale?
Ebbene, la filosofia reale va ricercata nell’agire. Ma finché vi è contraddizione tra l’agire e la concezione del mondo che ci guida, l’agire non può essere consapevole e non può essere coerente.

Scrive Gramsci in un brano intitolato Perché gli uomini sono irrequieti?:
“Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare e si ‘confessa’ ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto fra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si crea una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà”.

L’azione coerente dev’essere guidata da una concezione del mondo, da una visione unitaria e critica dei processi sociali. Si tratta, in altre parole, di rendere esplicito ciò che è ancora implicito.

Si tratta dunque di elaborare una concezione nuova che parta dal senso comune per criticarlo, depurarlo, unificarlo ed elevarlo a quello che Gramsci chiama “buon senso”, cioè alla visione critica del mondo.

Dice Gramsci:
“Il compito di ogni concezione dominante è di conservare l’unità ideologica in tutto il blocco sociale che da quella determinata ideologia è cementato e unificato”.
Una classe è egemone, dirigente e dominante fino a quando, attraverso la sua azione politica, ideologica, culturale, riesce a tenere insieme un gruppo di forze eterogenee ed impedire che il contrasto esistente fra queste forze esploda.

Scrive J.P.Sartre (Questioni di metodo, in Critica della ragione dialettica, il Saggiatore): “Una filosofia, una concezione del mondo, un blocco sociale vivono finché vive la prassi che li ha generati”.

Gramsci osserva come l’egemonia delle classi dominanti italiane sia sempre stata, in realtà, parziale.

Torniamo alla Chiesa cattolica e all’esercizio della sua funzione egemonica.
La chiesa cattolica si preoccupa di tenere in un unico blocco le classi dominanti e le classi subalterne, gli intellettuali e i semplici.

La Chiesa lo ha fatto in un modo caratteristico: usando due linguaggi, due teologie, due ideologie, una per i “semplici” (il catechismo, la predica del parroco) e l’altra per gli intellettuali, a cui è proposta un’altra sofisticata interpretazione della teologia.

Preoccupazione della Chiesa è non rompere mai questa unità: il distacco fra i due strati non deve mai divenire rottura. Ma mai la Chiesa si propone il compito di elevare i semplici al livello degli intellettuali, cioè di compiere una vera riforma intellettuale e morale.

Croce e Gentile, pur affermando che la religione non è che una forma di mitologia, sono favorevoli all’insegnamento di essa nella scuola perché essa è una pre-filosofia, da lasciare ai bimbi e alle masse popolari subalterne, a coloro, cioè, che non devono elevarsi al sapere critico, alla filosofia.
In sostanza, non ci si pone il problema di sollevare le classi popolari al livello delle classi dominanti, bensì di mantenere le classi popolari in una posizione subalterna.

La “filosofia della prassi” (il marxismo) non tende invece a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva, ma vuole condurli ad una concezione superiore della vita.

C’è, nei Quaderni, un passo di stupefacente valore in cui Gramsci delinea il processo inverso, quello, appunto, in cui si invera quel rapporto pedagogico che risolve la dicotomia fra governanti e governati e delinea la figura dell’intellettuale nuovo.

Il passo ha per titolo: “Passaggio dal sapere, al comprendere, al sentire e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere”.
Sentite:
“L’elemento popolare ‘sente’, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale ‘sa’, ma non sempre comprende e, specialmente, ‘sente’. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati.
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (…), cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se staccato e distinto dal popolo nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica (…). Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio.
Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da un’adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governanti e governati, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che solo è la forza sociale; si crea il blocco storico”.

Ma se l’egemonia è il superamento della contraddizione tra la pratica e la teoria, chi dev’essere il mediatore, l’unificatore, visto che questa unità non si pone automaticamente, visto che essa è il risultato di tutto un processo di lotta tra differenti egemonie?
L’unificatore della teoria e della pratica, il demiurgo, è il partito, il partito comunista.

E’ il partito che crea una volontà collettiva, la prima cellula in cui si riassumono dei “germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali”, nel senso che nel partito c’è già una visione totale e organica della società, di quello che dev’essere il suo sviluppo.
Gramsci parla del partito come del soggetto collettivo che prefigura la società di domani e ne anticipa i caratteri.

Ora, l’elemento originario, senza cui non può prendere vita un partito, è quello che compie la sintesi critica, il capitano che crea l’esercito.

Torna qui, pienamente, la concezione di Lenin (Un passo avanti e due indietro): il partito non si costruisce dal basso all’alto, ma dall’alto al basso.

Ma mentre l’attuale società è caratterizzata dalla distinzione/opposizione tra governanti e governati, si deve tendere ad una società pienamente unificata, non più antagonistica, fondata sull’autogoverno dei produttori associati.
Ma già si deve costruire questa unità fra governanti e governati nel partito, elevando tutti gli aderenti al partito alla qualità di dirigenti, di quadri.

Merita riflettere, al riguardo, su questa ulteriore, straordinaria (anche perché straordinariamente attuale) riflessione di Gramsci, dal titolo: “Grande ambizione e piccole ambizioni”:
“Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? L’ambizione ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali, perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni e perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento. In fondo, anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono avere da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, o correre troppo grandi pericoli (…). La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’ambizioso si eleva dopo avere fatto il deserto intorno a sé o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.
Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo).
Queste osservazioni sull’ambizione possono e debbono essere collegate ad altre sulla così detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore, significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi riti plebiscitari).
Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi da buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera ‘costituente’, costruttiva, allora si ha una demagogia superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati culturali (…).
Il demagogo deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato ‘capo carismatico’).
Il capo politico della grande ambizione, invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed uguali, ad elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa, e questi vogliono che un apparecchio di conquista e di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva.
Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine ‘carismatica’ deve rinnegare la sua origine e lavorare e rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità”.

Tutta questa concezione dà il massimo rilievo al momento ideale, culturale, al momento dell’intervento critico, al soggetto rivoluzionario. Contro le deformazioni del materialismo meccanicistico che prevaleva nella Seconda Internazionale, secondo cui il proletariato è fatalmente destinato a vincere, e che degenerava in una posizione sostanzialmente attendistica e nell’opportunismo.
Per Lenin e per Gramsci, al contrario, la caduta della borghesia e del capitalismo non sono mai fatali.

Il materialismo volgare è l’espressione di una classe che pur cercando di darsi un’ideologia non più subalterna tale invece resta perché pensa che la sua vittoria sia dovuta al corso oggettivo delle cose e non ad una sua funzione e ad una sua iniziativa, ad una sua capacità di egemonia.
E il rapporto di egemonia è sempre un rapporto pedagogico.

Scrivevano Marx ed Engels, ne La sacra famiglia:
“La storia non fa niente (…). E’ l’uomo invece, l’uomo reale e vivente colui che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è affatto la storia che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i suoi fini (…). Essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i suoi fini”.
Insomma, non esiste – se non nelle teologie comunque travestite – una filosofia della storia.

Se Marx ed Engels hanno fondato materialisticamente l’analisi storico-sociale sul modo di produzione e in modo particolare sui rapporti di produzione; e se Lenin ha dato un contributo decisivo alla elaborazione dei problemi inerenti al “primo grado” della sovrastruttura (la “politica”, in senso stretto), è merito di Gramsci l’avere straordinariamente allargato – su questo impianto – la ricerca storico-teorica al livello delle sovrastrutture più complesse e, in primo luogo, all’ambito della cultura e dell’ideologia.

Qualcuno ha rimproverato a Gramsci di avere trascurato il quadro del modo di produzione, dei rapporti economici. Qualcuno ha persino creduto di vedervi un elemento di idealismo se non un non superato residuo di crocianismo.
Ma se si studia non superficialmente l’opera di Gramsci e la lotta politico-concreta in cui essa è incardinata, ci si accorge che quel sospetto è destituito di fondamento.

Si guardi come Gramsci tratteggia il concetto di “blocco storico”: “La struttura e la superstruttura – dice Gramsci – formano un blocco storico”.
E cos’è un blocco storico? E’ un’unità di forze sociali e politiche differenti, tenute assieme attraverso una specifica concezione del mondo e attraverso specifici rapporti economico-sociali.
La lotta per l’egemonia (cioè per la costruzione di un blocco storico) deve perciò investire tutti i rapporti della società: la base economica, la superstruttura politica e la superstruttura ideale nel loro intreccio e reciproco condizionamento dialettico.

In un passo dei Quaderni dedicato al Risorgimento Gramsci dà una visione dinamica del processo in base al quale si formano e si dissolvono le egemonie: “La supremazia di un gruppo sociale – scrive – si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale”: dominio degli avversari, direzione dei gruppi affini e alleati.
Ma un gruppo sociale deve essere dirigente già prima di conquistare il potere politico: “Dopo, anche quando esercita il potere e lo tiene saldamente in pugno e diventa dominante, deve continuare ad essere anche dirigente”.

L’egemonia entra in crisi quando è sì mantenuto il dominio, ma viene meno la capacità dirigente, quando non si sa più risolvere i problemi della collettività.
Al rovescio, la classe sino a ieri subalterna diventa a sua volta dirigente quando sa indicare la soluzione dei problemi concretamente ed ha una concezione del mondo e dei rapporti economico-sociali che conquista nuovi aderenti e unifica lo schieramento che si forma intorno a lei.

Ora, gli intellettuali sono i quadri della classe dominante – economicamente e politicamente – e sono coloro che elaborano l’ideologia.
Essi non sono un gruppo sociale autonomo, ma ogni gruppo sociale, affermando una propria funzione nella produzione economica, si forma degli intellettuali che diventano i tecnici della produzione, ma assolvono anche al compito di dare alla classe dominante la consapevolezza di se stessa e della propria funzione.

Il capitalismo industriale crea essenzialmente i tecnici, gli scienziati legati alla produzione: sono gli intellettuali “organici”, urbani, intimamente connessi alle funzioni dell’economia capitalista.

Ma ogni gruppo sociale che si afferma trova al tempo stesso degli intellettuali già formati dalla società precedente, frutto delle precedenti formazioni economico-sociali: sono gli intellettuali tradizionali.
La nuova classe dominante, mentre forma i propri intellettuali organici, si sforza di assimilare gli intellettuali tradizionali.

Nell’Italia di Gramsci gli intellettuali tradizionali sono quelli di formazione umanistica (fra i quali anche il clero), prevalentemente di origine rurale e provengono dalla borghesia rurale assenteista: avvocati, notai, medici e, giù giù, fino al farmacista, cioè tutti coloro che svolgono una funzione di mediazione sociale del consenso e contribuiscono a formare il senso comune, l’adesione all’ideologia delle classi dominanti:
questo ruolo può essere esercitato perché la mediazione professionale è difficilmente scindibile dalla mediazione politica; di qui l’autorevolezza che a queste figure viene riconosciuta dall’elemento popolare.
Costoro svolgono una funzione ideologica e politica più importante degli intellettuali organici.

L’intellettuale è il quadro di un apparato egemonico.

In questo senso, per Gramsci, il bracciante capo-lega, se è un capace dirigente, anche se è analfabeta o semianalfabeta, è un intellettuale, in quanto è un dirigente, un educatore di massa, un organizzatore.

Vedremo come nella società complessa, nell’Occidente capitalistico, sia possibile costruire un’egemonia delle classi subalterne capace di evitarne il riflusso nella rivoluzione passiva e di costruire le condizioni e l’architettura della rivoluzione in Occidente.

 

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