di Dino Greco –

La caratteristica essenziale di ciò che chiamiamo partito politico è quell’insieme che potremmo definire come una macchina organizzativa più un programma politico.

In nessun tipo di schieramento politico premoderno esiste questa combinazione della organizzazione territoriale diffusa e tendenzialmente nazionale e di un programma così strutturato e così articolato da essere sancito in un documento scritto, approvato in apposite assise.

La nascita del partito politico non può quindi ridursi alla nascita dei comitati elettorali o dei club, con riferimento alla formazione dei primi parlamenti e degli istituti rappresentativi, perché il partito politico non nasce soltanto là dove nascono i parlamenti, ma anche dove i parlamenti non ci sono.

Tipico è il caso della Russia dove la nascita dei partiti politici ha come uno dei punti fondamentali di rivendicazione la costituzione di istituti rappresentativi.

Ora, quali sono i partiti politici strutturati sul piano organizzativo e programmatico che per primi nascono anche là dove non ci sono i parlamenti?

La risposta sembra scientificamente inoppugnabile: il partito di cui si tratta è il partito socialista che nasce anche dove non ci sono i parlamenti moderni e che si dà una macchina organizzata ed un programma articolato anche se non c’è il problema di conquistare suffragi e di preparare le elezioni al parlamento.

La prima fase di aggregazione del movimento operaio non è tuttavia quella della fondazione del partito politico.

La prima fase è pre-politica.
E’ infatti la fase in cui elementi del proletariato moderno riconoscono la necessità di unirsi a fini di difesa nei confronti della società moderna.

Nascono in questa fase casse di mutuo soccorso, casse di assistenza, sindacati, organizzazioni di resistenza e persino di attacco e di iniziativa, ma sempre contenute nei limiti di un’azione corporativa, cioè di difesa degli interessi immediati, pratici, economici e non ancora politici della classe operaia.

Occorre sottolineare che il disagio che il proletariato avverte quando è sprovvisto dell’aggregazione organizzativa non trova riscontro nel mondo borghese. Al di fuori del proletariato non c’è questa tendenza all’organizzazione per la difesa dei propri interessi.

La rivoluzione francese, la più tipica e completa rivoluzione della borghesia moderna, sanziona la soppressione di ogni forma di associazione politica: la legge Le Chapelier del 1791 mette al bando qualsiasi forma di associazionismo.

Lo Stato borghese liberale classico è dunque uno Stato antiassociazionistico, considera l’associazione una corporazione disgregatrice dell’unità nazionale.

Il mondo borghese è un mondo profondamente individualistico che concepisce la sfera politica come funzione garantista della sfera privata, retta dal principio della concorrenza.

Tipica del proletariato moderno è l’istanza esattamente opposta: è l’istanza della libertà mediante associazione: solo, il borghese proprietario si sente più forte e più sicuro; solo, il proletario si sente inesorabilmente debole, in balia di ogni sopruso da parte del più forte.

Nei rapporti sociali borghesi la soggezione del proletario al borghese è istituzionalizzata.

Si tratta, ovviamente, di un vero stato di guerra (e non di un patto condiviso) fra due pezzi della società, un patto che il grande Jean Jacques Rousseau descrive, a metà del XIII secolo, con feroce sarcasmo al punto da meritarsi una citazione integrale da parte di Karl Marx nel primo libro del Capitale:

“Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarvi”.

La seconda fase è quella in cui il proletariato si dà un’organizzazione che si pone obiettivi che vanno oltre la dimensione economica e corporativa e comincia ad investire l’orizzonte politico generale della convivenza statuale.
Nasce il partito politico proletario che si propone di meglio difendere e tutelare, a quel livello, le condizioni di vita della propria classe, ma esprime ancora la politica di un soggetto subalterno ai rapporti sociali dati, non è cioè capace di esprimere una diversa e complessiva idea di società, ed è ancora parte, non riesce ancora a proporsi come un tutto, non si pone il problema del potere politico.

In questa fase predomina la propaganda: il
partito della nuova classe antagonistica è ancora soltanto espressione esclusiva della classe, non è ancora divenuto il reale antagonista dello Stato nella direzione dell’intera società; è capace di dirigere i membri della classe, ma non è ancora capace di divenire – gramscianamente – un “fondatore di Stati”.

Questa capacità l’assume nella terza fase, in cui la classe operaia esprime la sua capacità di direzione egemonica nei confronti dell’intera società.
La classe operaia avverte, cioè, la necessità di sostituire per intero lo Stato borghese e di proporre al resto della società quel modello di direzione unitaria che doveva essere lo Stato borghese e che lo Stato borghese non riesce ad essere più.

Ne segue dunque che la fase più alta di espansione del partito politico non è affatto quella in cui esso si presenta come rappresentante esclusivo della classe di cui esso è o si dice espressione; ma al contrario è proprio quella in cui, tenendo ferma la sua rappresentanza sociale, propone un modello di riorganizzazione generale della società, dello Stato, dell’umanità intera.

Tuttavia è accaduto che lo sviluppo del partito politico non si è sempre collegato a questa crescita teorica che lo rende portatore di una concezione generale del mondo. Questa tendenza non è vera neppure per tutti i partiti politici del proletariato, alcuni dei quali (per esempio i partiti socialdemocratici) sono scaduti a partiti corporativi e altri (per esempio certi partiti comunisti) a partiti sètte, in cui la “concezione del mondo” è solo catechismo dogmatico, partiti che declinano cataloghi ossificati di verità.

Esaminiamo i partiti americani.
E’ difficile cogliere una visione del mondo, una concezione generale del mondo e della vita che differenzi il Partito Democratico dal Partito Repubblicano. Si tratta di tipici partiti mediatori di interessi, legati a fenomeni di organizzazione clientelare e corporativa della vita sociale che non presentano significative differenze ideali: esattamente come avvenuto in Europa e – con tratti paradossali, cioè di autentica abiura – anche in Italia, dopo il crollo dell’Urss, con lo scioglimento del Pci e l’adesione all’ideologia liberista e di mercato del Partito democratico.

La revisione del programma compiuta a suo tempo, a Bad Godelsberg, dalla socialdemocrazia tedesca è, in questo senso, molto interessante: dimostra che un grande partito socialista si distacca dalla sua matrice culturale ed ideale e tende a configurare la sua rappresentanza del proletariato tedesco nell’ambito di una rappresentanza puramente economico-sindacale.
Analogamente, almeno fino a Tony Blair, si è comportato il Labour party: il Labour, anche nei suoi tempi migliori, non ha mai avuto pretese di “concezione del mondo”.

Patologia del partito politico

Possiamo riassumere la patologia del partito politico in questi ismi: autarchismo politico o separatismo politico, e quindi anche in burocratismo e gerarchismo o, con un termine gramsciano, “cadornismo”: cioè una gestione nella quale le istanze originarie della vita politica sono dissolte, ribaltate e ossificate in rapporti di tipo gerarchico-militare.
Allora dirigere significa soltanto comandare ed essere dirigente significa soltanto essere un superiore separato dalla massa.
Generalmente, questa patologia del partito politico viene addirittura teorizzata; voglio dire che i difetti di cui parlo non sempre sono riconosciuti come tali.

Ci sono tre estremismi concettuali in cui si possono riassumere queste teorizzazioni.

La prima formula suona così: “Bisogna corteggiare le masse”. Si tratta dell’espressione di un sociologo politico americano per il quale il suffragio universale, l’investitura popolare del potere, comporta che i mediatori del potere, cioè i partiti politici, corteggino le masse per averne i suffragi.
Si analizzi l’ossessione per il sondaggismo assurto per molti partiti a bussola dei propri comportamenti ed orientamenti politici.
Si capisce subito che siamo di fronte ad una forma di vera e propria diseducazione politica delle masse: “corteggiare le masse” induce a costruire il “partito prenditutto”, che arraffa in ogni direzione senza discriminanti programmatiche.

Seconda formula: “Bisogna dirigere le masse”, dirigere e basta. E’ questa una concezione di tipo giacobino, laico-illuminista, tecnocratico, ma è anche una concezione derivante da una visione integralista e dottrinaria dei processi di trasformazione politica: la masse non sono in grado di “comprendere”, ma soltanto di “eseguire”.

In realtà non si tratta mai soltanto di dirigere le masse, se si tratta di costruire strutture e comportamenti politici correlati agli interessi sociali profondi e oggettivi che muovono le masse; di qui la necessità che il partito sia contemporaneamente un dirigente e un portavoce delle masse e funzioni come una pompa aspirante-premente nei confronti delle masse.

Terza formula degenerativa: “Bisogna comandare le masse”. Essa è propria di una visione nichilista della politica e spregiativa delle masse e fonda il partito politico sul gerarchismo assoluto, sulla disciplina militaresca, su una organizzazione essenzialmente antipolitica, settaria, poliziesca, iniziatica.

Da queste degenerazioni può derivare il pericolo indicato da Gramsci quando dice che un partito può continuare a credersi di essere quello che non è più, essendo ormai un partito “campato in aria”.

Organizzazione e politica
Non esiste, se non nelle farneticazioni dogmatiche, una scienza pura dell’organizzazione.
Molte varianti coesistono nella storia dei partiti operai e soltanto il dogmatismo insito nella conduzione della lotta politica ha indotto e induce continuamente a presentare come ottimali e generalizzabili modelli di partito che sono stati necessari ed efficienti in certe situazioni e che rischiano di non esserlo o non lo sono stati più in altre situazioni.
Prendete, per esempio, il problema del monolitismo e delle correnti nel partito rivoluzionario.
Fino al 1920, fino al suo X congresso, fino cioè all’indomani dell’ascesa al potere, il partito di Lenin, il partito bolscevico che ha fatto la prima rivoluzione socialista era organizzato per correnti. Poi, ancora Lenin vivente, le cose cambiarono: comparve la definizione di uklon: “propensione anarco-sindacalista” culminata con provvedimenti amministrativi contro l’Opposizione operaia di Sokolnikov a San Pietroburgo. Nel futuro diventerà sinonimo di “deviazione” e inaugurerà la stagione del “cesarismo”, sino alle purghe e alle persecuzioni staliniane.

Nel 1949 lo statuto del Pci prevedeva invece il divieto di organizzare frazioni e correnti dentro il partito.
In realtà, se il centralismo democratico – essenziale ad un partito rivoluzionario – funziona davvero, allora è irrilevante che vi siano oppure no le correnti: non è, di per sé, la loro esistenza o la loro assenza a garantire la democraticità della vita interna.
Tutto cambia quando le correnti si strutturano come “partito nel partito”, libere da ogni obbligo relativo all’applicazione delle decisioni democraticamente assunte.
Ma qui siamo fuori dall’idea stessa di partito.

Dirigenti e diretti
Se risaliamo al modello teorico di confronto che abbiamo costruito – il partito del proletariato – e alla problematica originaria che il partito del proletariato si trova di fronte, ci accorgiamo che il vero problema da cui bisogna partire non è quello di costruire una scienza pura dell’organizzazione, ma quello di costruire un partito nel quale la macchina si trovi in rapporto di coerenza con il programma che si dà e con la massa che vuole emancipare o conquistare.

Il vero problema del partito politico, insomma, è un problema…politico. E precisamente, il problema di superare la scissione esistente fra governanti e governati.

E’ questo il tema cruciale di Gramsci quando afferma che il problema capitale della scienza politica si riassume in questo interrogativo: “La separazione fra dirigenti e diretti, governanti e governati deve durare all’infinito?”.
Questo è il problema capitale della politica che solleva il partito proletario nel porsi sia la critica dello Stato rappresentativo moderno, sia la critica della società atomistica borghese che lo esprime.

Se si mette a tema questo problema, avremo qualche possibilità di risolvere l’antinomia dirigenti-diretti dentro al partito, perché si legittima la possibilità generale di sopprimere quella divisione anche fuori dal partito; se invece si teorizza esplicitamente o implicitamente che questa separazione è insuperabile, allora essa non potrà essere superata neppure dentro il partito politico.
Sentite come Gramsci affronta la questione:
“Primo elemento è che esistono davvero
governanti e governati, dirigenti e diretti.
Tutta la scienza e l’arte politica si basano
su questo fatto primordiale, irriducibile.
le origini di questo fatto sono un problema
a sé, che dovrà essere studiato a sé, ma
rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto si tratta di vedere come si può dirigere nel
modo più efficace e come pertanto preparare
nel modo migliore i dirigenti (…). Nel formare
i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti,
oppure si vogliono creare le condizioni in cui
la necessità dell’esistenza di questa divisione
sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente
a certe condizioni? Occorre tener chiaro, tuttavia, che la divisione di governanti e governati, seppure in ultima analisi risalga ad una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste,
date le cose così come sono, anche nel seno dello stesso gruppo anche socialmente omogeneo; in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo “tecnica”, necessità “tecnica”, ecc., per non porsi il problema fondamentale. Dato che nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre fissare alcuni princìpi inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli errori più gravi, che cioè si manifestano le incapacità più criminali, ma più difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio dello stesso gruppo, l’obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di “necessità” e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (…). Così è difficile estirpare dai dirigenti il “cadornismo”, cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta (…).
(…) Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governanti e governati, è vero che i partiti sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione (i partiti possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di antipartito e di “negazione dei partiti”; in realtà, anche i coisiddetti “individualisti” sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere “capi partito” per grazia di Dio o dell’imbecillità di chi li segue”.

E ancora:
“Quando il partito è progressivo esso funziona “democraticamente” (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona “burocraticamente” (nel senso di un centralismo burocratico).
Il partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di “partito politico” è una pura metafora di carattere mitologico”.

Si comprende facilmente che a fronte di questa prospettiva appare del tutto sfuocato perché affetto di schematismo dottrinario il quesito tradizionale della teoria politica socialista se il partito debba considerarsi parte o avanguardia delle masse (e della classe). In realtà il problema sta proprio nel riuscire a distinguere e a mediare tutte e due le istanze che vengono tradizionalmente irrigidite in un vero e proprio dilemma.
Soltanto Gramsci ha spiegato che il partito è (deve essere) tutte e due le cose, quando lo ha definito come un “partito filtro”, una pompa aspirante-premente che sta sul pelo dell’acqua rappresentato dal livello medio degli aderenti e anche dalla massa che esso vuole dirigere e se ne distacca quel tanto che permette al filtro di filtrare, ma non più di tanto perché deve appunto filtrare: cioè prendere e rielaborare.
Insomma, il partito che chiameremo di tipo gramsciano deve avere quadri non contrapposti alla massa e una massa non contrapposta ai quadri, quindi sostanzialmente deve avere quadri che vogliono fare diventare quadri la massa e una massa che aspira a salire al livello dei quadri.
Il rapporto tra quadri e masse non è carismatico e di astratta fiducia e neppure di obbedienza gerarchico militare. Non è né il partito-chiesa, né il partito-stato maggiore e neppure un club di “uomini di qualità”. Si tratta di un modello che non è imperniato su un mero schema organizzativo, ma sull’idea generale che sia possibile sopprimere la divisione fra governanti e governati e quella fra intellettuali e semplici, fra chi pensa e chi lavora.

Tre esempi

Il partito di Lenin era un partito di “rivoluzionari professionali”, un partito di intellettuali, in un paese, la Russia, nel quale non ci sono neppure i partiti politi legali. Il partito di Lenin è dunque a lungo un partito clandestino.
La Russia non è – per Lenin – un paese precapitalistico, come affermano molti marxisti occidentalisti dell’epoca, e non è neppure un paese “eccezionale”, destinato ad ignorare lo sviluppo capitalistico come affermano molti rivoluzionari “slavofili”.
La Russia di quel tempo è un paese capitalista (arretrato) senza uno Stato borghese: bisogna dunque dare alla Russia una politica moderna con la consapevolezza che deve essere una politica di transizione al socialismo. A tal fine occorre un partito che interpreti e decifri una realtà ancora indecifrabile per la massa, per una massa arretrata come quella della Russia in cui il proletariato moderno è piccolo e concentrato a Pietroburgo, Mosca e in Ucraina, e che galleggia su un oceano di contadini.
Lenin guida un’insurrezione e una lunga guerra civile, ma non indulge mai a teorizzazioni militaresche della lotta politica. Accetta anzi il giudizio di Clausevitz che la guerra non è che la continuazione della politica sebbene condotta con altri mezzi.
Non è affatto vero che Lenin scelga il partito di quadri per settarismo e per chiusura nei confronti delle masse, ma perché ritiene – invece – che nella situazione russa quel tipo di partito sia l’unico che possa garantire la direzione delle masse.
Proprio nel Che fare? Si può leggere questa affermazione significativa:
“La concentrazione di tutte le attività clandestine nelle mani del minor numero possibile di rivoluzionari di professione, non significa affatto che questi ‘penseranno per tutti’, che la massa non parteciperà attivamente al movimento. Al contrario, la massa genererà sempre in maggior numero i rivoluzionari di professione, perché imparerà allora che non basta che alcuni studenti ed alcuni operai, i quali guidano la lotta economica, si riuniscano per costruire un ‘comitato’, ma che è necessario, attraverso un processo che durerà degli anni, forgiare dei rivoluzionari di professione, ed essa ‘penserà’ a formarli abbandonando il proprio primitivismo”.

Il partito di Lenin vuole insomma guidare le masse a liberarsi del proprio primitivismo e a intendere la funzione dirigente che spetta ai lavoratori nella Russia ancora dominata dall’aristocrazia zarista.

Il partito di Stalin è questo stesso partito che giunge al potere e trasforma il paese, trasformando se stesso.
Perché Stalin definisce questo partito come lo “stato maggiore del proletariato”, una sorta – così, precisamente, egli si espresse – di “Ordine dei portaspada”?
Lenin non ha mai dato una definizione militaresca del partito; eppure egli conduceva una battaglia clandestina, dove veramente la politica poteva molto spesso coincidere con schemi di tipo militare.
L’elemento più sorprendente della definizione staliniana è dato dal fatto che essa viene formulata nei Principi del leninismo (1924) quando ormai la fase propriamente militare della rivoluzione (la guerra civile) è alle spalle.
Si può obiettare che si tratta qui soltanto di una metafora. Tuttavia anche le metafore hanno un senso, in politica, ed è significativo che Gramsci non soltanto rifiuti una metafora del genere, ma addirittura costruisca il suo schema teorico proprio discriminando il partito politico dall’esercito, dai suoi istituti e dai suoi meccanismi.
In Stalin c’è, evidentemente, un’analisi differente.
Per Stalin il modo migliore per costruire la nuova società è proprio quello di adottare le formule di un esercito, cioè gli schemi del rapporto comando-esecuzione, con al vertice un capo assoluto la cui volontà è insindacabile.
Scrive Stalin:
“L’arte militare ha il compito di assicurarsi tutti i tipi di truppa, di perfezionarli e di saper combinare abilmente le loro operazioni. Lo stesso si potrebbe dire delle forme di organizzazione in campo politico”.
“E’ indispensabile che il partito si circondi di una larga rete di apparati di massa, che siano nelle sue mani antenne con cui esso trasmette la sua volontà alla classe operaia, mentre la classe operaia si trasforma da massa dispersa in esercito del partito”.
Le “cinghie di trasmissione”: i sindacati, le cooperative, il Komsomol, le assemblee femminili, la scuola, la stampa.
Quanto a sapere che cosa le “cinghie” dovessero trasmettere, Stalin parlò con chiarezza di “direttive”: “la dittatura del proletariato consiste nelle direttive del partito”. Che cosa era proletario e che cosa non lo era sarebbe stato da quel momento deciso dal vertice, cioè da lui medesimo.
La stessa struttura dello stato sovietico si disegnava per Stalin come una piramide a più piani, che dal vertice scendeva verso la periferia e che funzionava in pratica a senso unico, dall’alto in basso. La “gerarchia dei segretari” ne era un elemento essenziale.
Ma perché mai il modello di partito teorizzato da Stalin doveva essere imposto a tutti i partiti comunisti del mondo?
Evidentemente, agiva un modello teorico deformante che elaborava il modello del partito senza una valutazione delle condizioni storiche tanto da imporlo a tutto il movimento comunista indipendentemente dalle specifiche condizioni storiche nazionali.
Il partito di Gramsci.
L’elaborazione di Gramsci tiene conto della prima, drammatica esperienza socialista così come del pesante prezzo pagato dal movimento operaio italiano per la fine della democrazia politica in Italia.
Ha dunque poco senso esaminare il modello del partito gramsciano per stabilire se e in quale misura esso corrisponde o diverge da quello di Lenin.
Più in generale, occorre abbandonare un atteggiamento che miri a studiare l’intera opera di Gramsci alla luce di un concetto di “ortodossia” di derivazione scolastica, nello sterile tentativo di rispondere al quesito astratto se Gramsci riesca o meno a passare l’esame di fronte a Marx o a Lenin. Questo metodo va semplicemente respinto, perché nella sua essenza è un metodo clericale, anche quando si ammanta dell’ideologia della “scienza marxista”, e perché presupporrebbe che il marxismo fosse un diamante di luce astrale depositato una volta per tutte presso un onesto notaio.
La sua elaborazione è un ripensamento generale sia delle deformazioni dogmatiche della teoria marxista, sia delle difettose esperienze istituzionali del primo stato socialista.
Di fatto nei Quaderni del carcere la teoria del partito fa corpo con la complessa indagine che Gramsci conduce sulla storia e sulla cultura dell’Italia e dell’Europa.
Gramsci registra in primo luogo il fallimento storico di un movimento operaio culturalmente troppo inferiore al suo antagonista borghese e, in secondo luogo, prende atto del grave limite teorico della tradizione politica marxista.
I ventinove Quaderni del carcere sono appunto il tentativo di una rifondazione generale del pensiero marxista.
Gramsci a Tania Schuct, sua moglie: “Bisognerebbe fare qualcosa fur ewig”.
Per quanto riguarda il tema dell’organizzazione politica è significativo che Gramsci non si limiti a studiare il problema dentro il movimento come era tradizione del socialismo teorico, ma lo studi a contatto con il problema generale dello Stato e in un diretto confronto con la cultura scientifica.
Apro una parentesi molto significativa: gli anni in cui Gramsci colloquiava con Machiavelli in carcere, erano gli anni in cui Andrej Vyšinskij, procuratore generale dell’Unione sovietica, accusava Radek di avere scritto una prefazione al Principe di Machiavelli.
Gramsci sceglie dunque, come si è già detto, il modello del partito “filtro” e cioè di un partito di massa che produce quadri a seguito di una complessa analisi della società capitalistica evoluta dell’Occidente nella quale la sostituzione del capitalismo è possibile soltanto se il movimento socialista raggiunge un’elevata capacità di direzione culturale generale.
Un tale partito, però, deve essere anche un partito di quadri, ma non deve mai funzionare “a due circoli”. La doppiezza, in un partito di massa, segnala l’esistenza di due linee politiche, una “esterna” e una “interna”, cui tende a corrispondere una doppia struttura organizzativa.
Guardate quanta straordinaria forza c’è in questo passo dei Quaderni, intitolato Passaggio dal sapere al comprendere, al sentire, e viceversa, dal sentire al comprendere, al sapere:
“L’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, anzi; la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo e la demagogia più sfrenati. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza sentire ed essere appassionato (…) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se staccato e distinto dal popolo nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica(…). Non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale con il popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio. Se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione, tra dirigenti e diretti – tra governanti e governati – è dato da un’adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), solo allora il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che solo è la forza sociale, si crea il “blocco storico”.
Un partito non cresce, per Gramsci, per “prefigurazione” dell’avvenire, perché il partito politico è prima di tutto un’operazione sul presente, che deve sì avere un progetto per l’avvenire, ma elaborato per rimuovere il passato e cambiare il presente.
Soltanto l’esteta vede nell’organismo politico non un organismo al servizio della storia, al servizio di altri soggetti, ma un organismo al servizio della propria intelligenza, della propria capacità taumaturgica. Quando questa caratteristica deformazione professionale del politico prevale sulla considerazione della realtà presente, la politica diviene politica narcisistica che si risolve nella costruzione di conventicole, di sètte o di club.
Per Gramsci, la rivoluzione-distruzione non può essere altro che rivoluzione-creazione, posto che si tratti di disgregare un blocco consensuale aggregandone un altro: “perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea”.
Gramsci si separa radicalmente da ogni rivoluzionarismo verbale-settario e impotente, incapace – in Occidente – di fare “partorire” la storia perché incapace di scavalcare la soglia della “frase scarlatta”, della politica-propaganda, per entrare nella politica-storia: “Molti sedicenti distruttori non sono altro che procuratori di mancati aborti”, “passibili del codice penale della storia”.
Facciamo di nuovo parlare Gramsci:
“Le idee sono grandi in quanto sono attuabili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione, e lo rendono chiaro in quanto mostrano concretamente il processo di atti attraverso cui una volontà collettiva organizzata porta alla luce quel rapporto (lo crea) o portatolo alla luce, lo distrugge, sostituendolo. I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della “grande idea” lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione. Lo statista di classe intuisce simultaneamente l’idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e, insieme, il “regolamento” per l’esecuzione. Il progettista parolaio procede “provando e riprovando”; della sua attività si dice che ‘fare e disfare è tutto un lavorare’(…). Corollario: ogni grande uomo non può non essere anche un grande amministratore, ogni grande stratega un grande tattico, ogni grande dottrinario un grande organizzatore. Questo anzi può essere un criterio di valutazione: si giudica il teorico, il facitor di piani, dalle sue qualità di amministratore, e amministrare significa prevedere gli atti e le operazioni fino a quelle ‘molecolari’ (e le più complesse, si capisce) necessarie per realizzare il piano”.
E, infine, un altro passo, sempre dei Quaderni, intitolato “Grandi ambizioni e piccole ambizioni”, in cui Gramsci chiarisce sino in fondo le caratteristiche che deve avere un partito rivoluzionario e il profilo di chi ne porta la più alta responsabilità:
“Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? L’ambizione ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali: 1) perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni; 2) perché spesso l’ambizione ha condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi princìpi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento. In fondo, anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà o correre troppo grandi pericoli. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’”ambizioso” si eleva dopo avere fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato consapevolmente dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.
Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo).
Queste osservazioni sull’ambizione possono e debbono essere collegate con altre sulla cosi detta demagogia. “Demagogia” vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore, significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo con i suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi da buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera “costituente”, costruttiva, allora si ha una “demagogia” superiore; le masse non possono non essere aiutate ad elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati “culturali”. Il demagogo deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed umilia i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato “capo carismatico”). Il capo politico della grande ambizione, invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed uguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa, e questi vogliono che un apparato di conquista e di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine “carismatica”, deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e con i caratteri della permanenza e continuità”.
Conoscere e organizzare
Non è affatto un’impostazione intellettualistica, dunque, quella che si chiede oggi al partito rivoluzionario, ma un’impostazione conoscitivo-analitica.
Se è vero che bisogna conoscere per organizzare, è anche vero che bisogna organizzare per conoscere.
Viene qui in chiaro il valore che assume oggi nel partito politico una grande idea formulata da Marx nella terza tesi su Feuerbach e riformulata da Gramsci: è vero che bisogna educare la massa, ma bisogna educare anche l’educatore.
L’intellettuale collettivo, per Gramsci, non si costruisce degradando l’intellettuale al livello dei semplici, ma sollevando tutti i semplici ad un livello intellettuale evoluto. L’intellettuale, e cioè il dirigente politico, trova anzi in questo processo di promozione dei semplici la sua autentica funzione: si educa, diciamo, alla soppressione del carattere separato, aristocratico, illuministico, della sua attività intellettuale.
La politica si intellettualizza, la cultura si politicizza. I politici avvertono la necessità di crescere culturalmente, gli intellettuali avvertono la necessità di un collegamento sociale, perché gli uni vogliono trasformare la società ed hanno bisogno di un sapere per trasformare una società complessa, gli altri conoscono in qualche modo per settori la società e avvertono che senza un collegamento generale non cambiano le dimensioni private, alienate dalla loro esistenza professionale.
Si guardi come un grande intellettuale francese del Novecento, Jean Paul Sartre, pone la questione (Questioni di metodo, Il Saggiatore):
“Non era l’idea che ci sconvolgeva; non era nemmeno la condizione operaia, di cui avevamo una cognizione astratta, ma non l’esperienza: No: era l’una unita all’altra, era, avremmo detto allora nel nostro gergo di idealisti in rottura con l’idealismo, il proletariato come veicolo e incarnazione di un’idea. E credo che qui occorra completare la formula di Marx: quando la classe in ascesa prende coscienza di se stessa, questa presa di coscienza agisce a distanza sugli intellettuali e ne disgrega le idee (…). Quel proletariato lontano, invisibile, inaccessibile, ma cosciente e agente ci forniva la prova – oscuramente per molti di noi – che non tutti i conflitti erano risolti. Eravamo stati educati nell’umanesimo borghese e questo umanesimo ottimista andava in frantumi poiché indovinavamo, intorno alla nostra città, la folla immensa dei “sotto-uomini coscienti della propria sotto-umanità”, ma sentivamo questo frantumarsi in modo ancora idealista e individualista. Ciò che ci interessava, tuttavia, erano gli uomini reali con il loro lavoro e con le loro pene; reclamavano una filosofia che rendesse conto di tutto senza accorgersi che essa esisteva già e che era proprio lei a provocare in noi questa esigenza”.
Il rapporto quadri-masse oggi ripropone come un problema politico e cioè attuale il capitale problema gramsciano: deve durare eterna la divisione governanti-governati?
Dentro la crisi devastante dei giorni nostri, occorre ritrascinare al centro della discussione un tema cruciale che rimanda a questo interrogativo di fondo: bisogna conservare questo Stato, questa società e questo paradigma acefalo e autodistruttivo o lo vogliamo cambiare?
Il socialismo, da dottrina da scomunicare, può e deve tornare un tema della vita, prima ancora che della politica.
Allora, il partito rivoluzionario, il partito comunista si trova davanti a un trivio: o si rende promotore di una grande sintesi sociale e allora diventa davvero il moderno principe gramsciano, oppure si riduce ad essere, come il Partito democratico, il servo sciocco di un potere astuto ed estraniato, il meccanismo di manipolazione dei nuovi sudditi assoggettati dalle cose, o infine sopravvive come il Don Chisciotte illuso della palingenesi di una rivoluzione impossibile.
Partito e istituzioni statali
Il tema del partito proletario si articola in due grandi traguardi: la socializzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del potere.
Si tratta di due traguardi strettamente intercondizionati teoricamente e storicamente.
Lo scollamento di queste due imprese ha condotto ad una riduzione utopistica dei grandi ideali di universalizzazione: una socializzazione economica senza una democrazia politica sempre più diretta diventa – è condannata inevitabilmente a diventare – pianificazione burocratica e autoritaria dell’economia e quindi spossessamento delle libertà politiche in nome delle libertà sociali.
D’altra parte una democrazia diretta senza la socializzazione dei mezzi di produzione e senza la trasformazione dei rapporti capitalistici si riduce a velleitaria immaginazione di una vita comunitaria in realtà impossibile dentro alle disuguaglianze economico-sociali che rendono impensabile la gestione diretta dell’esistenza.
Due esempi storici: l’esperienza della democrazia degli Usa e l’esperienza socialista sovietica.
Il caso americano.
Gli stati Uniti d’America sono un tipico esempio di società nata “immediatamente” dalla rivoluzione borghese senza i condizionamenti politici ed economici di un passato feudale, preborghese.
Non c’è nella storia americana una battaglia contro le istituzioni feudali perché il feudalesimo non c’è mai stato.
Non c’è nemmeno un problema di sviluppo a tappe della rivoluzione borghese in relazione alla coesistenza e ad un compromesso storico con altre formazioni politico-sociali.
Qui, insomma, nascono le forme “pure” della convivenza politica e della civiltà democratica borghese.
La civiltà politica americana nasce fondamentalmente su queste basi: completa autonomia dell’individuo sul piano politico, assoluta e incondizionata sovranità del popolo non mediata e non spartita con nessun corpo organizzato, monarchico o repubblicano, fondamento diretto – quindi – del potere, organizzazione federalistica, natura imperativa del mandato fino alla revoca (Recall) dei rappresentanti.
Ebbene, questo modello originario della democrazia politica americana è stato nei fatti e nel tempo travolto da un’altra costituzione materiale, al di là del tratto imperialistico cui si è votata questa “autorità fondata sul popolo”.
Il principio della revoca dei rappresentanti è ormai solo un ricordo; la vita sociale è dominata dalle grandi corporation che esercitano su tutte le articolazioni politiche e amministrative un potere dominante; la politica è totalmente ipotecata dai detentori di ricchezza e le stesse competizioni politiche presidenziali mostrano una grave processo di logoramento e di corruzione dei due partiti che dominano la scena in virtù di un meccanismo elettorale da cui è assente qualsiasi criterio di rappresentanza proporzionale; è inoltre enormemente accresciuto il ruolo di corpi separati ben poco controllabili come il servizio segreto di spionaggio, la dirigenza militare del Pentagono, la Nsa.
E’ ormai ridotta ad una pura utopia la promessa originaria della democrazia politica americana.
I più grandi temi dell’analisi tocquevilliana dell’uguaglianza sono stati affossati.
In sostanza è accaduto che la democrazia politica non ha saputo (o potuto) avere ragione del capitalismo; al contrario, è il capitalismo che ha largamente avuto ragione della democrazia.
Il fatto che oggi si impone come una verità incontestabile è che un’organizzazione politica che non si affranca dal capitalismo, nel mondo moderno è destinata a costruire modelli ideali di vita irrealizzabili, anzi ormai a rinunziarvi deliberatamente.
Il caso sovietico
L’esperienza del socialismo sovietico è l’esperienza di una socializzazione che non riesce a darsi un tetto politico adeguato.
Si tratta di una grande trasformazione che non riesce ad unire la socializzazione dei mezzi di produzione con una socializzazione del potere. Sicché la stessa socializzazione dell’economia resta deformata nello stampo di una statizzazione burocratica e autoritaria.
Viene così in chiaro che un socialismo senza democrazia politica è un socialismo non soltanto elementare, come spesso si ritiene, ma è un socialismo difettoso anche in senso tecnico perché non riesce a funzionare soddisfacentemente neppure sul piano tecnico-produttivo e che, dunque, l’abolizione della democrazia politica col pretesto che è soltanto formale sbocca fatalmente nella resurrezione di uno stato autoritario e addirittura poliziesco.
Ogni abolizione delle libertà politiche, degli istituti rappresentativi, delle forme giuridiche resuscita lo stato premoderno.
Rappresentanza e popolo
La doppia scissione della società in un pulviscolo di proprietari e della politica in una élite contrapposta alla totalità dei cittadini trova un’espressione molto limpida che è quella della scissione sul piano giuridico-politico tra titolarità ed esercizio della sovranità popolare.
L’esempio istituzionale, classico, di questa scissione interna alla nozione di sovranità popolare è l’indipendenza del mandato del deputato dalla volontà del popolo.
E’ nella Rivoluzione francese che viene messa a punto questa “necessità” di proclamare l’indipendenza del deputato da tutti, sebbene tutti siano chiamati ad investire il potere del deputato.
Nella nostra Costituzione questo principio è sancito dall’articolo 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”).
L’indipendenza del deputato è dunque la forma necessaria di questa scissione.
E’ del tutto evidente che questa “indipendenza” non riesce (non può) diventare garanzia di trasmissione della volontà popolare, di esercizio della volontà popolare, ma soltanto di una (buona?) gestione rappresentativa in nome del popolo: la scissione tra paese legale e paese reale, tra paese che decide e paese che esegue è perfettamente introiettata nella norma.
Come diceva Rousseau, bisognerebbe invece che il popolo dei sudditi obbedisse al popolo dei cittadini, ma nell’organizzazione politica liberale la politica diventa essenzialmente mediazione giuridica, ingegneria costituzionale con un significativo rovesciamento del fine in mezzo e del mezzo in fine.
La problematica della sovranità popolare e cioè le istanze sociali di universalizzazione della vita vengono sopraffatte dalle combinatorie parlamentari, dalla macchina parlamentare fondata sulla dialettica di maggioranza e opposizione, dal tecnicismo del parlamentarismo.
Accade così che il parlamentarismo non tende più a riprodurre la volontà popolare, ma a riprodurre il parlamentarismo.
Allora la democrazia finisce col significare soltanto che “il popolo ha l’opportunità di accettare gli uomini che dovranno governarlo”, sicché la si potrà definire come “il governo dell’uomo politico” (Schumpeter), ma non del popolo.
Questa inversione è così potente che cardini del regime politico divengono elementi eminentemente strumentali come, per esempio, i sistemi elettorali, le combinatorie parlamentari, le coalizioni di governo, le procedure discriminatorie di singoli partiti politici.
Così passa in secondo piano la rispondenza della politica alla volontà popolare e lo stesso programma politico diviene piuttosto un’offerta delle forze politiche che non una proposta fondata sulla domanda popolare.
A questo punto il consenso non è più un mezzo attivo di comunicazione della volontà popolare, ma piuttosto un’adesione passiva, guadagnata mediante gli strumenti di manipolazione della propaganda e, magari, del clientelismo.
La politica degenera così in primarietà dell’élite e sulla divisione permanente (ed istituzionalizzata) tra governanti e governati.
Ecco il senso teorico profondo del mandato non imperativo e della “indipendenza” del rappresentante dagli elettori.
I programmi di lungo termine vengono sostituiti da programmi di breve termine, escogitati dall’élite.
La contropartita di tutto ciò è per un verso l’involuzione burocratica del potere e, per un altro, l’indifferenza delle masse per la vita pubblica.
L’apatia, contrassegno caratteristico della scissione tra la politica e la vita sociale, si manifesta poi come scetticismo generale nei confronti dei valori comunitari, come sfiducia nella possibilità di cambiare radicalmente le strutture sociali e politiche e anche come accettazione acritica delle forme del potere costituito.
Il primo passo di questo processo è l’autonomizzazione della classe politica dal corpo popolare.
Il secondo passo del processo è, inevitabilmente, l’autonomizzazione non più soltanto del parlamento e del deputato dal popolo, ma del governo dal parlamento.
La legge non è ciò che è voluto dal popolo, ma ciò che bisogna volere come se fosse voluto dal popolo, ma il contenuto della legge non lo determina il popolo, ma la ragione illuminata dei governanti.
Così la separazione rappresentativa tra governo e popolo riproduce lo schema dell’assolutismo “illuminato” e si inscrive nel più generale rapporto di dipendenza dei semplici dagli intellettuali (o presunti tali).
Del resto, tutte le scissioni della vita politica sono funzioni della più generale scissione privatistica della società, coinvolgono l’intero organismo storico e sociale, e possono essere corrette solo uscendo fuori dalla politica, incidendo sui rapporti sociali.
Continuando: l’autonomizzazione del parlamento dal corpo popolare comporta poi l’autonomizzazione del governo dal parlamento, della maggioranza dalla minoranza.
L’indipendenza del deputato dal popolo si traduce in una sorta di franchigia del governo di fronte al parlamento, in una sorta di sterilizzazione politica del parlamento: esso diventa prigioniero della maggioranza e, come esito finale, del vertice del partito di maggioranza o, come oggi accade, della maggioranza di quel partito.
Così si scava un abisso fra titolarità della sovranità e suo esercizio e fra rappresentanza politica e società.
In questo abisso trova avvio quella che già i filosofi greci definivano la degenerazione della democrazia in demagogia, quella manipolazione della vita pubblica in cui il popolo figura come un infante che dev’essere preso per mano e guidato dagli hommes éclairés.
Nello Stato liberal-democratico di massa, dunque, si ripetono i meccanismi elitari della tradizione liberale classica, aggiornati dalle condizioni diverse costituite dal suffragio universale, che la liberal democrazia tollera, finché non ha la forza di liquidarlo, ma che non ha voluto.
Quei meccanismi, del resto, si irrigidiscono quando il pericolo di uno sfondamento delle paratie elitarie aumenta.
Il rafforzamento autoritario dell’esecutivo, la correzione dei sistemi elettorali, il presidenzialismo, la discriminazione politica o, infine, il fascismo e la soppressione dei partiti sono strumenti sempre possibili di funzionamento della vita politica che di volta in volta il capitalismo, nella sua proteiforme duttilità, adotta.
Lo Stato liberaldemocratico moderno poggia dunque su due pilastri: la burocratizzazione del vertice e l’apatia popolare.
Nello Stato feudale la decisione politico-legislativa, l’attività amministrativa e l’attività giudiziaria erano concentrate e distinte: inerivano tutte alla proprietà: il proprietario feudale era sovrano, legislatore, amministratore, generale e giudice.
La distinzione tecnica fra queste attività non può nascondere che esse sono possibili solo grazie alla separazione fra proprietà e sovranità e quindi solo grazie all’unificazione generale del corpo politico.
Prendiamo la questione della divisione dei poteri attraverso la quale la cultura liberaldemocratica ha cercato di impedire il tendenziale sciovinismo del potere dell’esecutivo.
Si guardi il potere giudiziario. Se si avverte la necessità di intitolare al popolo le sentenze, bisognerà pure inserire il popolo nella investitura dei magistrati, mentre la nomina per concorso dei magistrati è proprio il simbolo dell’impossibilità del popolo di intervenire nell’amministrazione della giustizia.
Dunque, l’autonomia del potere giudiziario, mentre spesso non garantisce la sua autonomia rispetto al governo, assicura soltanto la sua separazione dalla sovranità popolare.
Di fronte a questa situazione appare ancora più chiaro come la partecipazione popolare non è soltanto un necessario sviluppo della democrazia rappresentativa, ma anche uno strumento indispensabile per garantire le tradizionali libertà politiche e persino il normale funzionamento della macchina di governo.
Certo non a caso lo Stato liberaldemocratico nega stabilmente quelle che potremmo chiamare le autonomie partecipative e cioè gli istituti di autogoverno che possono concorrere direttamente alla formazione delle decisioni centrali.
Questi, infatti, segnerebbero il concreto superamento della separazione fra Stato e società che sta alla base del moderno sistema politico rappresentativo.
Partiti e oligarchia
In questa situazione il partito politico viene a costituire non una molla propulsiva dei processi di crescita politica e di partecipazione, ma uno strumento per la cattura del consenso attorno al programma dell’élite. Esso diventa un partito di potere che a rigore non dovremmo più denominare partito politico. La sua vita interna non viene più determinata da programmi politici ma, sempre più, da interessi corporativi, clientelari. La vita ideale decade e il partito si trasforma in un un comitato elettorale funzionale all’occupazione del potere e che articola le sue stesse correnti interne mediante la distribuzione di fette di potere.
Il sistema dei partiti degenera così in un sistema senza ideali che tende ad assicurare la spoliticizzazione del popolo.
Si pone allora il problema se la questione non sia quella della restaurazione dell’unità del potere, della subordinazione di tutto lo Stato, di tutti i corpi separati al primato della volontà politica espressa dagli organi rappresentativi elettivi, primi mandatari della sovranità popolare, corroborati però da forme sempre più estese, capillari, di democrazia diretta ed anche di autogoverno.
Ciò esige la diffusione massima a tutti i livelli dello Stato del criterio della investitura mediante elezione diretta o indiretta dei corpi amministrativi, esecutivi, giudiziari, oltre che legislativi.
Cenni sulla forma politica della Comune di Parigi
Marx cerca di scoraggiare gli operai parigini da un’avventura rivoluzionaria prematura:
« Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia… Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla loro organizzazione di classe… dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica. »
Ma il proletariato parigino, diretto da esponenti radicali, blanquisti e anarchici, insorge proclamando il 18 marzo 1871 la Comune rivoluzionaria; Marx non crede nel suo successo ma si schiera al suo fianco. Nel maggio l’esercito francese, riorganizzato e armato dai tedeschi, soffoca l’insurrezione: quarantamila comunardi vengono massacrati o fucilati.

APPENDICE

Karl Marx
Dall’ “Indirizzo del consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei lavoratori”

“(…) La Comune fu la diretta antitesi all’Impero. Il grido di ” Republique sociale col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di Febbraio non esprimeva che una vaga aspirazione ad una Repubblica che non avrebbe dovuto eliminare solamente la forma monarchica del dispotismo di classe, ma lo stesso potere di classe. La Comune fu la forma positiva di questa Repubblica.
Parigi, sede centrale del vecchio potere governativo, e, nello stesso tempo, fortezza sociale della classe operaia francese, era balzata in armi contro il tentativo di Thiers e dei suoi rurali di restaurare e perpetuare il vecchio potere governativo ereditato dall’Impero. Parigi poteva solamente resistere perché, in conseguenza dell’assedio, si era sbarazzata dell’esercito e lo aveva sostituito con una guardia nazionale, la cui massa era costituita da operai. È questo stato di fatto che doveva, ora, essere trasformato in un’istituzione permanente. Il primo decreto della Comune, quindi, fu la soppressione dell’esercito permanente, e la sua sostituzione con il popolo in armi.
La Comune fu composta da consiglieri municipali, eletti a suffragio universale nei diversi circondari di Parigi. Essi erano responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune non doveva essere un organismo parlamentare, ma un organo di lavoro esecutivo e legislativo nello stesso tempo.
Invece di continuare ad essere lo strumento del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento della Comune, responsabile dinanzi ad essa e revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le branche della amministrazione. Dai membri della Comune fino ai gradi subalterni, le pubbliche funzioni venivano retribuite con salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti funzionari dello Stato scomparvero con i funzionari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà private delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le altre iniziative fino allora esercitate dallo Stato passarono nelle mani della Comune.
Una volta abolito l’esercito permanente e la polizia, strumenti di potere del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti; decretò la separazione della Chiesa e dello Stato disciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto ordini possidenti. I sacerdoti furono restituiti al tranquillo riposo della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. La totalità degli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le erano state imposte dai pregiudizi di classe e dal potere governativo.
I funzionari della giustizia vennero spogliati di quella finzione di indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro vile sottomissione a tutti i vari governi che si erano alternati al potere ai quali, di volta in volta, avevano prestato giuramento di fedeltà per violare in seguito tale giuramento. Come gli altri funzionari pubblici, i magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili.
La Comune di Parigi doveva, beninteso, servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il potere della Comune, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto, anche nelle province, cedere il posto all’autogoverno da parte dei produttori. In un abbozzo sommario dell’organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare, è detto espressamente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio e che nelle regioni rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia popolare, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi; i delegati dovevano essere revocabili in ogni momento e legati da un mandat imperatif dei propri elettori. Le funzioni, poco numerose, ma importanti, che ancora rimanevano ad un governo centrale, non dovevano essere soppresse, come venne detto falsamente in mala fede, ma dovevano venire assolte da funzionari comunali e quindi strettamente responsabili. L’unità della nazione non doveva essere spezzata, ma doveva al contrario essere riorganizzata dalla Costituzione comunale; doveva diventare una realtà attraverso la distruzione del potere dello Stato che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità, ma voleva essere indipendente dalla nazione stessa, e persino superiore ad essa, mentre non costituiva che un’escrescenza parassitaria. Mentre era importante amputare gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione dominante al di sopra della società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società. Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dirigente dovesse ” rappresentare ” e calpestare il popolo al Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in Comuni, così come il suffragio individuale serve ad ogni altro imprenditore in cerca di operai e personale direttivo per i suoi affari. Ed è ben noto che le società, come i singoli imprenditori, quando si tratta di veri affari, sanno generalmente mettere a ogni posto l’uomo adatto, o se una volta tanto commettono un errore, sanno rapidamente come rimediare. D’altra parte nulla poteva essere più estraneo allo spirito della Comune, che mettere al posto del suffragio universale una investitura gerarchica”.
“(…)La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come manifestazione di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti”.
Londra 30 maggio 1871

 

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