Che fare dopo il risultato referendario?

Che fare dopo il risultato referendario?

Gianluigi Pegolo*

 

Il risultato ottenuto dai cinque quesiti referendari è stato deludente. Ci si aspettava quantomeno un livello di partecipazione superiore, anche se il raggiungimento del quorum non era un traguardo facile da superare.  Questo esito ovviamente non fa venire meno la validità dei quesiti posti e l’importanza delle tematiche affrontate. Interrogarsi sulle ragioni di tali risultati non è però vano. E anzi è una condizione essenziale per decidere il che fare. Da tale punto di vista, l’appello reiterato delle destre all’astensione era prevedibile, com’era prevedibile che avrebbe condizionato non poco il risultato, specie per il fatto che oramai i livelli di partecipazione nel paese, almeno a livello elettorale, sono drammaticamente scesi al di sotto del 50%. E tuttavia, questo spiega totalmente il risultato? Quantomeno due interrogativi debbano essere posti. L’uno riguarda l’efficacia dei quesiti presentati e l’altro il grado di mobilitazione messo in atto per sostenere il si. In una società in cui i soggetti si disgregano e le organizzazioni di massa e i partiti perdono la capacità di orientare i comportamenti dei cittadini e di rappresentarne appieno le istanze, l’adesione di carattere politico in senso stretto – che un tempo era il collante nei comportamenti politici e sociali – tende a sfumare. Ciò che resta in campo è l’interesse specifico del singolo. La conseguente settorializzazione degli interessi diventa l’esito del disgregarsi della solidarietà collettiva e delle culture politiche.  Nel caso del referendum c’è da chiedersi se questa scelta, tutta centrata sul tema della precarietà del lavoro e sui diritti di cittadinanza non abbia in qualche modo limitato il consenso possibile. E’ una questione della fondamentale importanza perché se fosse vero, ciò significherebbe che sempre di più la battaglia nel mondo del lavoro per esprimere un’egemonia dovrebbe intrecciarsi con problematiche più vaste come per esempio la condizione del welfare. La seconda considerazione è che nonostante il meritorio impegno della CGIL e di alcuni soggetti politici e sociali, la sensazione è che non si sia fatto tutto il possibile. Molte volte si è percepito una sorta di obbligo politico o morale all’impegno. Ciò vale per molti dei soggetti coinvolti. E in ogni caso l’impegno dell’opposizione politica è stato altalenante, riflettendo divisioni presenti nel PD, o differenziazioni e scarsa capacità di mobilitazione, come nel caso dei Cinque stelle. Non vi è stata insomma quella convinzione e determinazione necessari. Certamente ha influito in questo la scarsa fiducia nel successo del referendum, dopo la non ammissione del quesito referendario sull’autonomia differenziata che sicuramente avrebbe fatto la differenza. Queste considerazioni pongono numerosi problemi nella prospettiva di una continuazione dell’iniziativa sociale e politica. Molto giustamente il segretario generale della CGIL Maurizio Landini ha centrato l’attenzione sulla necessità di partire da quei quattordici milioni di cittadini che si sono recati a votare e, in particolare, su quanti hanno votato si. Essi costituiscono la base sociale dalla quale ripartire. Il problema è come fare per dare rappresentanza a questi elettori e anzi per estendere ulteriormente il consenso. E’ probabile che senza una proposta precisa tale realtà sia destinata, com’è successo più volte in passato, a dispendersi. Ciò che sarebbe invece necessario è offrire a quei milioni di si una sponda politico /organizzativa cui aderire o in cui riconoscersi. Qualcuno potrebbe pensare che tale compito ricada sui partiti o su alcune organizzazioni di massa e in primis la CGIL. A me pare che si dovrebbe fare un passo in più è porsi il problema della costruzione di un’”alleanza sociale”, strutturata a partire dall’esperienza dei comitati referendari che raccolga tutte le forze disponibili. Non quindi un generico appello, ma una proposta politico/organizzativa che consenta ai molti che credono in certi valori e che vogliono battersi per determinati contenuti di mobilitarsi anche nei livelli locali. In poche parole occorre dare alla prospettiva della Via maestra, cioè quella della valorizzazione del dettato costituzionale, un orizzonte più ampio e concreto. In tal senso i temi del lavoro, del welfare e della democrazia sono i pilastri di una piattaforma per la mobilitazione sociale; l’organizzazione locale è  la condizione per un intervento capillare efficace e per la raccolta di nuove forze; il carattere specificamente sociale di tale alleanza è il mezzo per costruire l’unita sui contenuti consentendo a tutti di partecipare, senza annullare le proprie specificità. Si consideri inoltre che strumenti di partecipazione come il referendum diventano sempre più difficili da utilizzare e che esiste nel paese un livello di spoliticizzazione e anche di resistenza culturale (come dimostra il risultato del referendum sulla cittadinanza)  che necessitano di un’azione pervasiva. Chi può oggi avanzare una proposta che vada in questa direzione, ma soprattutto avere l’autorevolezza e la forza per promuoverla? In primis il soggetto che ha promesso fin qui l’iniziativa e cioè la CGIL. E questo per varie ragioni, ma in primo luogo per l’essere il principale soggetto sociale organizzato in grado di superare le divisioni politiche, oltre che quello dotato di un supporto organizzativo necessario per attivare un processo.  D’altronde solo andando in questa direzione si può mettere a valore il risultato del referendum.

*Direzione nazionale PRC-S.E.


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