Pensare in grande

Pensare in grande

Stefano Galieni*
 

Si parta dal fatto che il bicchiere referendario va visto come “mezzo pieno”. Che nell’afoso silenzio elettorale, nella melassa della distrazione di massa, nell’assenza quanto nell’indicazione da parte di alte cariche dello Stato a disertare le urne, che quasi 15 milioni di aventi diritto si rechino a votare su quesiti complessi, sovente spiegati male – a volte anche dagli stessi proponenti – è un risultato da cui partire e da non dimenticare, per innescare dinamiche più articolate attorno al rapporto fra democrazia e partecipazione. Dalle prime dichiarazioni del segretario nazionale della Cgil questo dato pare acquisito, così come sembra aver preso piede la necessità di riaprire un lavoro di inchiesta sul campo nel mondo articolato, variegato e complesso del mondo del lavoro, fatto di ascolto, di ricerca, di analisi, tanto nei singoli territori, con le loro complessità, quanto nei diversi comparti produttivi. Un impegno che non si può esaurire nei luoghi di lavoro – troppo spesso effimeri, frammentati, fondati sull’isolamento – ma che deve riconnettere l’intero tessuto sociale del Paese. Non si tratta di utilizzare termini idealisti quali “ottimismo” quanto di una verifica incontrovertibile dei risultati ottenuti laddove insieme ai referendum si votava per il primo turno delle elezioni amministrative (cfr Nuoro) o al ballottaggio (Taranto o Matera). In queste città il quorum referendario si è quasi sempre raggiunto o superato e i risultati hanno dato una netta prevalenza del si. Ogni dato ipotetico, legato ad un superamento generale del quorum va preso con le molle. Se è vero che la destra tende ad appropriarsi del blocco astensionista, questa non va imitata. Non bisogna credere o far credere a proiezioni arbitrarie dei risultati anche se, va detto, laddove nei ballottaggi hanno prevalso coalizioni di centro destra, sui referendum hanno vinto le posizioni dei promotori dei quesiti. C’è però un vulnus, profondo e dalla forte natura politica che va analizzato nelle sue diverse e complesse sfaccettature. I referendum che direttamente impattavano sul mondo del lavoro sono quelli che hanno ricevuto i maggiori consensi con i 12.249.649 voti, in percentuale l’89.6% dei votanti (contro il jobs act) e i 12.220.430, pari all’ 89,04 % sul terzo quesito, quello riguardante le maggior tutele per chi lavora nelle piccole imprese. Questo perché nel mondo produttivo nazionale, questo tessuto è divenuto prevalente. Il problema forte è nel divario fra i si ottenuti ai 4 referendum e quello erroneamente presentato come quesito su immigrazione e cittadinanza.

In realtà il quesito, che mirava a dimezzare i tempi necessari per poter chiedere (non per ottenere come erroneamente, a volte anche in buona fede ha sintetizzato qualcuno), ha ottenuto oltre 3.200 mila voti in meno rispetto agli altri e questo apre ad una necessaria e urgente riflessione politica che si dirama verso diverse direzioni. I 3 milioni e 200 mila che hanno votato no ad una proposta minimale di estensione dei diritti a loro colleghe e colleghi di lavoro, a studentesse e studenti, vanno cercati in ambiti diversi, tanto in base alle appartenenze politiche, quanto alla disinformazione dilagante, quanto ai territori in cui tale dissenso si è manifestato. Con questo approccio non si intende certo fare proposte per affrontare un tema vasto e complesso, ma si propone semplicemente di analizzarlo in maniera laica e basata su dati certi, non su ipotesi. Togliamo, almeno in parte, le elettrici e gli elettori del M5S a cui il movimento aveva lasciato “libertà di coscienza” pronunciandosi compiutamente solo sui primi quattro si. Non si può dimenticare la composizione di questa forza politica che unisce ad una posizione altamente progressista su tematiche come il lavoro e l’opposizione al riarmo, crepe significative rispetto ai diritti, in particolare sul tema dell’immigrazione. Hanno governato con Salvini, una parte di loro considera ancora le Ong come “taxi del mare” ed è difficile far comprendere ad un elettorato poco politicizzato, anzi dall’origine orientato all’antipolitica, la differenza che passa fra i richiedenti asilo e chi vive e lavora magari da decenni in questo assurdo Paese. In alcuni, non tutti, i casi, i vertici – al contrario di altre forze politiche – sono più avanzati della base e questo è un problema di cui tenere conto. C’è poi una piccola area, forse ancora poco rilevante in termini numerici ma capace di proporre forti argomentazioni di contrarietà all’estensione dei diritti e che, per necessità di sintesi, proviamo a definire come i sostenitori italiani dell’approccio BSW di Sahra Wagenknecht. Si tratta di un’area di “sinistra nazionalista” secondo cui le forze comuniste (per loro neoliberiste) hanno da troppo tempo dimenticato il proletariato nazionale in nome di valori e di una società  cosmopolita. Lavoratori (non è il caso che utilizzino spesso il termine al maschile), che, sentendosi abbandonati e vedendo i colleghi immigrati come concorrenti al ribasso nei salari, li percepiscono come “nemici”. Un approccio da sinistra conservatrice che però, in un contesto come quello italiano, più impoverito di quello tedesco, può trovare spazio e costituire cultura di se. Peccato che l’impoverimento del Paese non sia certo dovuto alla presenza, peraltro non competitiva di lavoratrici e lavoratori stranieri quanto all’assenza di una sana conflittualità per il miglioramento delle condizioni salariali, per un welfare da ricostruire, per servizi da estendere e non da considerare privilegi per chi, magari individualmente, li ha ottenuti.

Un’altra componente in cui ha prevalso la diffidenza vede insieme problemi di classe e generazionali. Ci si riferisce ad una marea di persone, sovente pensionate, con basso reddito e la cui informazione è basata sul livello infimo dei canali televisivi. Per questi il cambiamento sociale epocale dovuto all’immigrazione è da decenni – anche grazie a politiche di governo di diverso orientamento, complici o vigliacche – sinonimo di sconvolgimento, di paura, di insicurezza perché i volti che si incontrano sono considerati ancora sconosciuti e minacciosi. Tale paura, che secondo la narrazione tossica televisiva modello Rete 4 è generalizzante, nell’esperienza personale è rivolta principalmente contro quelle e quelli che vengono percepiti come poveri e, in quanto tali, concorrenti alla spartizione delle poche briciole lasciate da un welfare a pezzi. L’impressione, ancora da misurare con rilevazioni più accurate, è che laddove prevale un elettorato giovane e colto, spesso universitario, il divario delle opinioni sui diversi quesiti, si assottiglia molto. Resta, sia ben chiaro, ma c’è un segnale che contrasta invece con una ricerca basata su quanto accade nei territori. Nelle grandi città il si alla riforma della legge sulla cittadinanza ha avuto risultati migliori rispetto alle piccole province, significativo il divario fra un Nord più restio – pesa ancora l’influenza leghista – e un sud, in cui si è votato di meno ma dove la percentuale dei favorevoli al quinto referendum è stata maggiore. Non da ultimo, ad una prima analisi, si conferma anche un altro forte divario fra i risultati nei seggi ubicati nelle periferie e quelli in zone più borghesi.

Ad una lettura che si fermi alla fotografia del presente, i risultati sembrano confermare le tesi del BSW, che colgono la contraddizione fra un ceto medio progressista, più teso a difendere i “diritti civili” di chi non ha il problema di mettere insieme il pranzo con la cena, ed un proletariato / sottoproletariato, privo di strumenti di tutela e privo persino di quella consapevolezza di diritto alla rivolta verso le classi dominanti. E ci siamo infine arrivati, questi risultati si dimostrano questione politica da affrontare. O le soggettività politiche e sindacali si assumono la responsabilità di operare per una concreta ricomposizione di classe che passi attraverso lotte comuni, formazione, ricostruzione di una egemonia culturale in grado di ridare una spiegazione materiale e ideologica al presente o si è condannati a subire quella dell’avversario di classe.

Secondo alcune / i, questo referendum non andava fatto, secondo il parere di altre / i è stato impostato su valori di carattere liberale – come spesso capita sulle questioni inerenti diritti civili – non comunicandone la sua specificità all’interno di una complessità di classe. Chi scrive pensa che entrambe le reazioni siano inadeguate. Il referendum era necessario a seguito di totale inadempienza delle forze politiche presenti in parlamento che, o per opposizione ad ogni miglioramento di una legge razzista come la 91/1992 o per il timore di perdere consensi, non è mai stata seriamente messa in discussione. Solo una partecipazione popolare poteva riproporre meglio tale tema nell’agenda politica del Paese e questo in parte, certamente insufficiente, è avvenuto. Sulla seconda critica il ragionamento che va fatto è più articolato, spettava ai settori di classe organizzati e più avanzati, presentarlo nei luoghi critici come elemento di ricomposizione di classe ma spettava anche al ceto medio “illuminato” valorizzare il fatto che questo non era un “referendum sull’immigrazione” ma un primo tentativo per fare i conti con un Paese che è cambiato nel profondo nella propria composizione sociale.

Ora diventa necessario non disperdere quel consenso che comunque si è accumulato per farlo crescere, magari con un percorso più visibile, per ottenere non piccoli miglioramenti legislativi o accettare le proposte al ribasso come lo “ius scholae” già rilanciato da Forza Italia, ma modifiche molto più sostanziali. Bisogna puntare in alto partendo da alcuni elementi, questi si profondamente di classe. In Italia le questioni sociali sono divenute divisive quando scientemente si è scelto di separarle. Si pensi alle cd politiche inclusive per i rom, per i rifugiati, per i senza fissa dimora, per le persone con disagio psichico. Va invece reimposto di affrontare i problemi che attanagliano la vita di chi ha meno diritti o meno opportunità, riportandoli ad un carattere di universalismo. Serve edilizia popolare? Il solo modo per evitare che un quartiere di una periferia si mobiliti in maniera aggressiva perché legittimamente è stato dato un alloggio pubblico ad una famiglia “straniera” è quello di aumentare il numero di alloggi per edilizia pubblica, facendo conoscere bene i criteri di graduatoria. Lo stesso ragionamento va fatto per i presidi sanitari, per i posti negli asili nido, per tutti quei bisogni primari in cui la concorrenza fra ultimi e penultimi è determinata in realtà dal fatto che entrambi non sono garantiti dai poteri dominanti. Questo tipo di intervento che è sociale, economico, ma persino pedagogico, non va lasciato all’improvvisazione ma deve vedere come protagonisti tanto lo Stato, le regioni, i Comuni e gli enti pubblici di prossimità, quanto i corpi intermedi di cui questo Paese ha estremo bisogno, partiti, sindacati, mondo associativo eccetera. E riguardando un cambiamento sociale in atto da decenni ed irrefrenabile, deve vedere come protagoniste/i anche quelle forze vive, nate e/o cresciute in Italia che potrebbero svolgere un ruolo propulsivo.

Si tratta di coesione sociale che deve poter comprendere quante più persone possibili e attraverso cui va declinato, da “sinistra” il termine sicurezza, alibi attraverso cui da decenni si consumano le peggiori nefandezze.

Dovremmo insomma produrre un programma più ambizioso per il futuro, capace di modificare radicalmente le gerarchie dell’agenda politica e di quella, conseguente, dei media mainstream. Fino a quando si continuerà unicamente a difendersi con termini compassionevoli, che si richiamano ad un’etica che risulta inutile nella giungla della competizione individuale, saremo – molto probabilmente e quando va bene – in grado di ottenere soltanto la riduzione del danno. Invece dobbiamo volere “il pane e le rose” ad esempio costruendo quelle relazioni per cui la parola “cittadinanza”, da concessione individuale per alcune/i, riassuma il suo significato originale di appartenenza ad una comunità aperta e capace di guardare in avanti. Occorre un lavoro lungo, di tutte e di tutti, in cui il passaggio referendario va visto, con le sue contraddizioni, come un primo risultato da non rinnegare.

P.S. i referendum hanno risentito sicuramente anche, come già detto, di una scarsa quando non distorta informazione. A chi scrive è capitato, almeno un paio di volte, di partecipare in orari improbabili, a tribune referendarie televisive. Nel backstage, prima della diretta, gli esponenti della maggioranza dialogavano mostrando di comprendere quanto la presenza soprattutto di giovani immigrate/i non fosse stata mai seriamente affrontata, parlavano di urgenza di dialogo. Ma non appena le telecamere si accendevano, gli stessi si scatenavano affermando che i promotori volevano regalare la cittadinanza a clandestini, delinquenti, stupratori e, chi più ne ha più ne metta, seguendo un trito copione di esaltazione del braccio forte e autorevole dell’attuale compagine governativa. Un triste show che va in onda ogni giorno a reti pressoché unificate e in cui il contraddittorio è spesso debole se non timido. Anche questo è un intervento da perseguire perché sul pensiero televisivo si formano ancora le opinioni delle persone. Ed anche questo è un terreno di scontro di classe.

*Transform Italia

 


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