Intervista a Ignacio Ramonet: “L’obiettivo è ‘hackerare’ l’individuo con un misto di guerra psicologica e guerra dell’informazione”

Intervista a Ignacio Ramonet: “L’obiettivo è ‘hackerare’ l’individuo con un misto di guerra psicologica e guerra dell’informazione” .

Pascual Serrano*

Ignacio Ramonet (Pontevedra, 1943) è un punto di riferimento nella comunicazione per un’intera generazione di giornalisti, analisti dell’informazione e un gran numero di cittadini. Dottore di ricerca in Semiologia e Storia della Cultura presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dal 1990 al 2008 ha diretto l’edizione francese di Le Monde Diplomatique e, a partire da quell’anno, l’edizione spagnola. È anche co-fondatore dell’organizzazione non governativa Media Watch Global (Osservatorio Internazionale dei Mezzi di Comunicazione), fondatore e presidente onorario di ATTAC e uno dei promotori del Foro Sociale Mondiale di Porto Alegre. Ramonet è autore o coautore di una ventina di libri. Non c’è fenomeno nuovo nella comunicazione che non analizzi rapidamente, mentre tutti noi rimaniamo sconcertati.

Nel suo nuovo libro La era del conspiracionismo. Trump, el culto a la mentira y el asalto al Capitolio (Intellectual Key), analizza il fenomeno della post-verità, delle fake news e del loro sfruttamento da parte dell’estrema destra. In questa intervista approfondiamo questo fenomeno, ma andiamo anche oltre e analizziamo il ruolo dei social media e della comunicazione nella guerra in Ucraina.

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L’assalto al Campidoglio, a Washington, il 6 gennaio 2021, serve come punto di partenza per un libro in cui affronta quella che chiama l’era della teoria della cospirazione. La realtà è che, sia negli Stati Uniti che nel mondo occidentale, questo internet e questi “social network” che sembravano la panacea della democratizzazione dell’informazione sono stati colonizzati dalle bufale e dalle fake news dell’estrema destra. La prima domanda che sorge spontanea è: perché siamo arrivati a questo?

Oggi, i principali canali di diffusione delle informazioni e delle conoscenze sono le reti. I social network sono il mezzo dominante, come lo erano, in altri tempi, la televisione, la radio o la stampa. Le reti sono l’espressione di un’autentica democratizzazione della comunicazione che la rivoluzione Internet ha permesso. Oggi, qualsiasi individuo in qualsiasi Paese, a un costo minimo, con uno smartphone ha una capacità di comunicazione simile a quella che aveva, ad esempio, la CNN (il primo canale di notizie televisive planetarie e permanenti) trentacinque anni fa. È una rivoluzione nel campo della comunicazione come non c’è mai stata prima, in termini di capacità individuale di diffondere un messaggio a livello planetario.

In una certa misura questo fenomeno ci ha già permesso di raggiungere, in termini di comunicazione, un “mondo migliore”, come direbbe Huxley, qualcosa di inimmaginabile solo vent’anni fa. Ma quel mondo migliore non è un mondo perfetto, perché il dominio selvaggio delle reti ha favorito l’emergere di un insieme di problemi nuovi e specifici che neanche immaginavamo. In particolare, la proliferazione – su scala astronomica – di menzogne, bufale, falsità, manipolazioni, post-verità, fake news. Quella che era una promessa di libertà si è trasformata in un incubo. La maggior parte dei cittadini si affida ancora ai motori di ricerca e alle “reti sociali” come fonti primarie di informazione. Ma quelle piattaforme stanno ora indebolendo le democrazie a passi da gigante perché, in realtà, diffondono massicciamente teorie cospirative, falsità, discorsi di odio e messaggi estremisti. E l’Intelligenza Artificiale intensificherà tutto questo molto di più.

Ma cosa c’è di specifico e diverso nei social network per causare questi effetti?

I social network non sono fatti per informare, ma per emozionare. Per dare un’opinione, non per sfurmare. Ovviamente, nelle reti circolano molti testi e documenti di qualità, testimonianze, analisi, reportages, ecc. Le reti riprendono molti documentari eccellenti, video, articoli della stampa e dei media esistenti. Ma il modo di consumare contenuti sulle reti (sebbene ognuna di esse abbia una sua specificità) non è passare il tempo a leggere o visualizzare per intero i documenti che si ricevono.

Gli utenti della rete non cercano risposte, ma domande. Non vogliono leggere. Non sono ricevitori passivi come quelli della radio, della stampa o della televisione. Le reti sono fatte soprattutto per agire. Il cittadino o la cittadina che utilizza le reti vuole condividere, comunicare o unirsi dando like. Ciò che entusiasma gli utenti dei social media è comportarsi come attivisti digitali con una missione, un compito: pubblicare e diffondere notizie che confermino o sembrino confermare ciò che pensano loro e i loro amici. Non si tratta di diffondere la verità, si tratta di trasmettere ciò che si suppone le persone amiche vogliano leggere. In questo senso, le falsità sono più nuove della verità. Ecco perché sono condivise di più.

La rete in realtà funziona  come una catena digitale. Ogni utente si sente come un anello, un collegamento, un link. Con l’obbligo di esprimersi, di dare un’opinione, di mettere in contatto, commentare, far seguire ed inviare.

Ciò che circola di più e ha la maggiore influenza su alcune reti (Facebook, Twitter, Instagram, Snapchat, TikTok) sono i meme, cioè una sorta di gocce, haiku, riassunti molto piccoli, molto sintetici, molto caricaturali di un argomento. È ciò che è più condiviso. I meme funzionano come se, nella stampa scritta, le informazioni fossero ridotte solo ai titoli degli articoli e non ci fosse bisogno di leggerli. Ognuno di noi può fare l’esperimento: pubblicate sulla vostra rete preferita il testo migliore, il video più completo, più intelligente e onesto, ad esempio sulla guerra in Ucraina, e vedrete che, al massimo, potete ottenere qualche decina di like. Ma se mettete un buon meme efficace e nuovo, che, grazie alla sua creatività e originalità, influisce e provoca sia risate che sorpresa, la sua velocità di trasmissione sarà impressionante. Se parliamo di diffusione virale non è un caso.

Quando, ad esempio, domenica 27 marzo 2022, nel bel mezzo della cerimonia degli Oscar, a Hollywood, davanti a milioni di telespettatori, l’attore Will Smith ha dato uno  schiaffone al comico Chris Rock, l’immagine di quella scena trasformata in meme si è diffusa alla velocità della luce in tutto il mondo, saturando le reti. E’ riuscita praticamente a nascondere, per diversi giorni, tutte le altre notizie, compresa quella della guerra in Ucraina, allora in piena intensità.

Il desiderio compulsivo di condividere, di diffondere è ciò che rende le reti capaci di propagare massicciamente un sentimento generale, un’interpretazione dominanteun’opinione su qualsiasi argomento. Quella sensazione è quella che, a poco a poco, riesce ad imporsi su un intero settore della società. Questa è una delle grandi differenze tra le reti e i media tradizionali.

Perché l’estrema destra è quella che beneficia maggiormente del trionfo dei social network?

È la conseguenza della crisi della verità o della nuova cultura della menzogna diffusa proprio dalle reti. E dell’impotenza dei grandi media classici (radio, stampa scritta, televisione) a restaurare la verità. Nelle nostre democrazie, a poco a poco, è emersa una radicale sfiducia di molti cittadini nei confronti della lettura della realtà proposta dai quattro pilastri principali della razionalità sociale dominante: cioè i mass media, le élite politiche, gli attori culturali e gli analisti universitari. È come se, improvvisamente, nel frenetico mercato azionario dei social network, il valore dell’occhio esperto o della dimostrazione scientifica fosse svalutato e finisse per crollare. Come se, per un gruppo crescente di cittadini, le spiegazioni più verificate e più approvate fossero, proprio per questoe perché provengono dalle élite dominanti, profondamente sospette.

Più una spiegazione è scientifica, più sarà discutibile. Per tutte queste ragioni, per molti cittadini la domanda pertinente, ora, non è: “Quali prove scientifiche ci sono che la tal cosa è così?” ma piuttosto: “Perché tanta insistenza nel volermi dimostrare e convincermi che la tal cosa è così?” Questo è il principale sospetto, la sfiducia epistemica che si sta diffondendo, attraverso le reti, nelle nostre società. È come se stessimo assistendo a un’insolita inversione di quella famosa predizione attribuita a Joseph Goebbels, ministro della propaganda hitleriana, secondo cui “una menzogna ripetuta mille volte diventa verità”. Oggi, molti attivisti di reti cospirazioniste considerano che una verità ripetuta mille volte è probabilmente una bugia. Questo, nella storia della comunicazione, costituisce una rivoluzione copernicana. Ed è la base della nuova narrazione dell’estrema destra. Soprattutto tra le classi medie impoverite, che rispondono in questo modo, con una sorta di reazione individuale e selvaggia, al dominio schiacciante (apparente) delle tecnoscienze nel nostro ambiente. Scienze e tecnologie che, d’altra parte, sono incapaci di proporre soluzioni ad alcuni dei problemi più acuti che molte famiglie conoscono, in particolare quelle appartenenti a queste classi medie: lavoro spazzatura, miseria, sfratti, marginalità, precarietà e, soprattutto, il loro terrore principale: la minaccia di una inesorabile declassificazione.

E cosa possiamo fare noi cittadini?

Continua a scommettere sulla verità. Diffidare. Essere molto prudenti. Una delle ragioni principali dell’indebolimento della democrazia è il profondo cambiamento che si è verificato nel modo in cui comunichiamo e consumiamo informazioni. La disinformazione e la manipolazione sono in agguato. Soprattutto in tempi di elezioni e della guerra in Ucraina. Ricordare un principio di buon senso: le apparenze ingannano. Immagini e video circolano molto velocemente su internet: il loro impatto visivo li rende molto virali, ma molte immagini sono spesso manipolate. Prima di credere ad una informazione, e soprattutto prima di diffonderla, bisogna imparare a verificarla. Evitiamo di essere complici della propagazione di messaggi di odio, cerchiamo le fonti, l’affidabilità delle fonti, dei dati. Se l’informazione ha una sola fonte: prudenza, molta prudenza.

Molti cittadini ora, come abbiamo detto, vogliono comportarsi come giornalisti grazie ai loro telefoni cellulari e alle loro reti. Diffondono “informazioni”, divulgano opinioni, ristrasmettono immagini e video. Perciò devono acquisire i riflessi professionali dei bravi giornalisti, e il primo di essi è questo: verificare le fonti. Per le immagini ci sono strumenti di ricerca inversa sempre migliori a disposizione del grande pubblico, per scoprire da dove provengono, qual’è la loro origine, se sono già state utilizzate, su quali siti web, ecc. Recentemente, ad esempio, è stato mostrato che un video in cui una folla di manifestanti vandalizza una chiesa, presentato come testimonianza di ciò che sta accadendo nel Nicaragua di Daniel Ortega, era in realtà un documento girato in Cile durante le manifestazioni del 2019.

Ma anche gli Stati, le istituzioni dovranno fare qualcosa per risolvere questa situazione.

Molti Stati stanno legiferando per punire la diffusione di notizie false, soprattutto se hanno gravi conseguenze sociali. Ad esempio, la Malesia, sulla base del principio che “condividere una bugia ti rende un bugiardo”, ha stabilito pene fino a sei anni di carcere per coloro che creano, pubblicano o diffondono notizie “totalmente o parzialmente false” che riguardano il Paese o i suoi cittadini.

Ma non è facile. Perché qualsiasi governo che prenda misure in questo senso, per quanto legittime possano sembrare, può essere accusato di censura o di violare la libertà di espressione. Anche se ancora peggio è ciò che fanno gli Stati Uniti, ad esempio, quando perseguitano e condannano coloro che dicono la verità come nel caso di Julian Assange, o Edward Snowden o Chelsea Manning.

Il suo libro si concentra sugli Stati Uniti e su Donald Trump. Cosa prevede per Trump, i suoi problemi con la giustizia e le sue ambizioni elettorali?

I recenti processi contro di lui e le successive condanne  non sembrano aver intaccato la sua popolarità. Rimane il candidato più votato dai sondaggi per vincere le primarie del suo partito ed essere il candidato repubblicano per le elezioni presidenziali del 2024. Dal primo giorno in cui ha deciso di conquistare il potere politico negli Stati Uniti, ha dominato lo spazio pubblico e convinto i suoi seguaci, sulla base di un rapporto diretto tramite Twitter, che il suo governo sarebbe stato il “governo del popolo per il popolo”.

Manipolando la verità, usando il potere dei simboli, dell’oratoria, delle immagini e dei social network, Donald Trump, fin dal suo discorso di insediamento, il 20 gennaio 2017, si è definito un leader carismatico, un leader messianico eletto per salvare gli Stati Uniti. Questo milionario, figlio di un miliardario, ha denunciato l’establishment e le élite politiche di Washington per essersi arricchiti e salvaguardati, secondo lui, senza occuparsi dei cittadini: “Le loro vittorie”, ha detto ai suoi elettori, “non sono state trionfi per voi”. Si è presentato come salvatore e rifondatore della patria: “Saremo protetti da Dio”, ha promesso, come se Dio stesso lo avesse garantito.

Per toccare il cuore delle persone ha convinto i suoi ascoltatori che, per lui, erano “molto speciali” e che li capiva. Ha formulato slogan semplici, concreti e toccanti (“Sarò il più grande creatore di posti di lavoro inventato da Dio”), spesso conditi di razzismo (“Quando il Messico manda qui la sua gente, manda persone che portano droga, portano crimine, e sono stupratori”) e machismo (“Quando sei una star, [le donne] ti lasciano fare qualsiasi cosa, prenderle per la figa, qualunque cosa”). Ha saputo imporre formule e luoghi comuni (“Rendiamo di nuovo grande l’America!”, “Sono il presidente della legge e dell’ordine!”, “Costruiamo il muro!”) che i suoi fan ripetono facilmente come mantra che soffocano qualsiasi questione critica.

Più che un’autorità indiscutibile, l’egomaniaco repubblicano, in un limbo populista, ha voluto essere un mito che governava il paese avvolto in un’aura di narcisismo, deificazione e venerazione pubblica (“Potrei sparare alla gente sulla Quinta Strada e non perderei voti”). Con un linguaggio scioccante e confuso, un misto di espressioni volgari, gergo tecnocratico e vaghe promesse, non ha avuto scrupoli a incoraggiare i crimini d’odio. Ha saputo oscurare le verità per dividere gli americani in un “noi” e un “loro”. E inculcare una detestabile ideologia del “fine giustifica i mezzi”.

Donald Trump ha costruito con cura una sofisticata immagine pubblica di leader-guru in grado di creare con il linguaggio un mondo su misura per lui (“Se non dici alla gente che hai avuto successo, probabilmente non lo saprà mai”). E’ riuscito a far sì che milioni di persone si sottomettessero liberamente a lui, accettassero il suo dominio e si abbandonassero completamente alla sua volontà. È noto che la gente, come massa, ha spesso un’intelligenza inferiore a quella di ciascuna delle sue parti componenti. I sostenitori di Trump costituiscono una vera e propria setta, si identificano con lui al limite della frenesia. Obbediscono ai suoi dettami. Credono alle loro storie. Lo idolatrano. Sono al suo servizio. Pronti, se necessario, a imbarcarsi in qualsiasi avventura per riportare in ultima istanza il proprio idolo al potere, magari anche con la forza.

La verità è che Trump ha diviso il Paese in due. Dopo aver spinto i suoi fanatici seguaci a prendere d’assalto il Campidoglio, a Washington, il 6 gennaio 2021, esistono due gruppi di popolazione in aperto disaccordo sull’ex presidente repubblicano. Una parte parla di un ex presidente che probabilmente merita la prigione. L’altro parla di un patriota, deciso a salvare la nazione. Non possono avere ragione tutt’e due. Solo una può averla. Ma l’altra non lo accetta. Il che rappresenta una minaccia decisiva per l’unità degli Stati Uniti. E un ulteriore pericolo di guerra civile.

La guerra in Ucraina non sembra evolvere in nessuna direzione. Come pensa che veniamo informati in Europa sullo sviluppo di questa guerra, sugli interessi in gioco, sul contesto e sui precedenti?

Il comportamento dei grandi media riguardo alla guerra in Ucraina, iniziata il 24 febbraio 2022, conferma che non non sono affidabili. Come è noto, quando inizia un conflitto armato, parte una narrazione mediatica piena di disinformazione volta a conquistare i cuori e ad affascinare le menti.

Non si tratta di informare. Di essere obiettivi. Nemmeno di essere neutrali. Ogni parte cercherà di imporre – servendosi della propaganda e di ogni sorta di trucchi narrativi – la propria cronaca dei fatti. Allo stesso tempo cerca di screditare la versione dell’avversario. Le menzogne che entrambe le parti diffondono sul conflitto in Ucraina non sono, in fondo, molto diverse da quelle che abbiamo già visto in altre guerre. Si ripete la solita isteria bellica nei media, la proliferazione della censura, delle fake news, delle post-verità, dell’intossicazione, delle manipolazioni.

La conversione dell’informazione in propaganda è ampiamente nota ed è stata studiata, in particolare nei conflitti degli ultimi cinquant’anni. Con la guerra in Ucraina, i mass media, in particolare i principali canali televisivi, sono stati nuovamente arruolati – o si sono volontariamente arruolati – come combattenti o come un ennesimo militante nella battaglia.

Va aggiunto che i laboratori strategici delle grandi potenze, nel quadro della riflessione sulle nuove “guerre ibride”, stanno anche cercando di conquistare militarmente le nostre menti. Uno studio del 2020 su una nuova forma di “guerra della conoscenza”, intitolato Cognitive Warfare (Guerra cognitiva), del contrammiraglio francese François du Cluzel, finanziato dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), afferma: “Mentre le azioni condotte nei cinque domini militari (terra, mare, aria, spazio e cyber) vengono eseguite per avere un effetto sugli esseri umani, l’obiettivo della ‘guerra cognitiva’ è quello di trasformare ogni persona in un’arma”. Gli esseri umani sono ora il dominio conteso. L’obiettivo è quello di hackerare l’individuo sfruttando le vulnerabilità del cervello umano, utilizzando le risorse più sofisticate dell’ingegneria sociale in un misto di guerra psicologica e guerra dell’informazione.

Quella guerra cognitiva non è solo un’azione contro ciò che pensiamo, ma anche un’azione contro il modo in cui pensiamo, il modo in cui elaboriamo le informazioni e come le trasformiamo in conoscenzaIn altre parole, guerra cognitiva significa militarizzazione delle scienze del cervello. Perché questo è un attacco al nostro processore individuale, alla nostra intelligenza. Con un unico obiettivo: penetrare nella mente dell’avversario e far sì che ci obbedisca. “Il cervello”, sottolinea il rapporto, “sarà il campo di battaglia di questo ventunesimo secolo”.

Nella guerra in Ucraina, i social network hanno un ruolo senza precedenti. Non credi?

Durante il conflitto in Ucraina, negli Stati Uniti e in Europa, i media mainstream stanno combattendo – e non informando – a favore essenzialmente di quella che potremmo chiamare la posizione occidentale. Tuttavia, all’interno di questa normalità propagandistica, abbiamo potuto assistere a un nuovo fenomeno. Per la prima volta, nella storia dell’informazione di guerra, in prima linea nei media sono intervenuti i social network. Fino ad ora, in tempo di guerra, le reti non avevano avuto la stessa importanza.

Con la guerra in Ucraina, i cittadini non solo sono posti di fronte alla solita isteria di guerra dei media tradizionali, il loro discorso corale uniforme (e in uniforme), ma tutto questo viene loro servito, per la prima volta, sui loro telefoni. Lo schermo TV nel soggiorno non ha più la stessa posizione di protagonista. Non sono più solo i giornalisti, ma anche gli amici e parenti a contribuire, attraverso i loro messaggi sulle reti, ad amplificare l’incessante narrazione corale di un discorso unico.

Con la guerra in Ucraina emerge una nuova dimensione emotiva, un nuovo fronte della battaglia della comunicazione e simbolica che fino ad ora non esisteva. Inoltre, per la prima volta, c’è stata la decisione di Google di rimuovere dalla piattaforma i media dell'”avversario russo” come RT (Russia Today) e Sputnik. Nel frattempo, Facebook e Instagram hanno dichiarato che avrebbero tollerato “discorsi di odio” contro i russi. Twitter ha preso la decisione di “mettere in guardia” su qualsiasi messaggio che diffondesse notizie provenienti dai media affiliati a Mosca e ha ridotto significativamente la circolazione di tali contenuti, cosa che non ha fatto con coloro che hanno sostenuto l’Ucraina e la NATO, rivelando l’ipocrisia sulla presunta libertà di espressione o sulla neutralità delle reti.

Tutto ciò ha confermato che se il conflitto in Ucraina era una guerra locale, nel senso che il teatro delle operazioni si trovava effettivamente in un preciso territorio geografico, per il resto è stata una guerra globale, in particolare a causa delle sue conseguenze digitali, di comunicazione e mediatiche. Su questi fronti Washington, come nell’era del maccartismo e della “caccia alle streghe”, ha arruolato i nuovi attori della geopolitica internazionale, cioè le mega-imprese dell’universo digitale: le GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft…) Queste iper-imprese – il cui valore di borsa è superiore al prodotto interno lordo (PIL) di molti stati del mondo – si sono ritirate dalla Russia e si sono volontariamente arruolate nella guerra contro Mosca.

Questa è una novità. Fino a questo conflitto conoscevamo l’atteggiamento partigiano e militante dei grandi media che, in caso di guerra, si allineavano con uno dei belligeranti e abbandonavano ogni senso critico per impegnarsi unilateralmente e difendere gli argomenti di una sola delle potenze avversarie. La novità è che, per la prima volta, i social media stanno facendo la stessa cosa. Il che conferma che i veri media dominanti oggi, quelli che effettivamente impongono la storia, sono i social network.

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Intervistato

Ignacio Ramonet (Redondela, Pontevedra, 1943), dottore in semiologia e storia della cultura all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha sviluppato una vasta e prestigiosa carriera giornalistica. Dal 1990 al 2008 ha diretto l’edizione francese di Le Monde diplomatique e da quell’anno l’edizione spagnola della pubblicazione. Co-fondatore dell’organizzazione non governativa Media Watch Global (International Media Observatory), fondatore e presidente onorario dell’organizzazione ATTAC, è uno dei promotori del World Social Forum di Porto Alegre. Ramonet è autore o coautore di una ventina di libri, di cui, tra gli altri, sono stati pubblicati in Spagna: Un mundo sin rumbo (1997), La tiranía de la comunicación (1998 – pubblicato in italiano col titolo La tirannia della comunicazione), La golosina visual (2000), Marcos, la dignidad rebelde (2001 – pubblicato in italiano col titolo: Marcos, la dignità ribelle), Guerras del siglo XXI (2002), Irak: historia de un desastre (2005 ), Fidel Castro: biografía a dos voces (2006 – pubblicato in italiano col titolo: Fidel Castro: biografia a due voci), París rebelde: guía política y turística de una ciudad (2008 – pubblicato in italiano col titolo: Guida alla Parigi ribelle) e La catástrofe perfecta: crisis del siglo y refundación del porvenir (2010), La explosión del periodismo: de los medios de masas a la masa de medios (2011 – pubblicato in italiano col titolo: L’ esplosione del giornalismo. Dai media di massa alla massa dei media) e Hugo Chávez: mi primera vida (2013).

Intervistatore

*Pascual Serrano Jiménez (Valencia, 1964) è un giornalista e saggista spagnolo. Collabora con diversi media spagnoli e latinoamericani rivolgendosi ai media e alla politica internazionale.

Fonte: ENTREVISTA A IGNACIO RAMONET: “El objetivo es ‘piratear’ al individuo con una mezcla de guerra psicológica y de guerra de la información” Pascual Serrano. (wordpress.com) – traduzione a cura di Rifondazione/Esteri

Foto: Ivan Tamas su Pixabay

Fonte: Ctxt.es