Intervento di Pietro Pasculli alla Conferenza del Mediterraneo di Cipro

di Pietro Pasculli *

Cari compagni e compagne,

Il cambiamento climatico è sempre più riconosciuto come una minaccia esistenziale, che genera, attraverso effetti diretti e indiretti, profonde ripercussioni sulla sicurezza umana e statale e sui livelli di civiltà raggiunti. Sebbene le responsabilità storiche e attuali del riscaldamento globale appartengano all’Occidente e al Nord globale, il Medio Oriente e il Nord Africa sono la regione che sta soffrendo di più di questa eredità, caratterizzata da un’elevata vulnerabilità e dove i cambiamenti climatici possono avere impatti considerevoli.

Infatti, nonostante la quota storica e attuale di emissioni di carbonio della regione MENA sia inferiore all’1% del totale globale, è tra le regioni meno resilienti al clima del mondo. I cambiamenti climatici influenzeranno la regione in modo profondo, amplificando i problemi di governance di lunga data e aggravando le disuguaglianze socioeconomiche. Emerge quindi un legame causale tra l’instabilità sociale e politica dovuta agli effetti del cambiamento climatico, che potrebbe portare all’insicurezza umana e, in ultima analisi, a conflitti violenti.

Secondo un rapporto del Cyprus Institute for Climate and Atmosphere Research Center, la regione MENA sta già affrontando un forte incremento delle temperature, che si prevede aumenteranno più del doppio rispetto al resto del mondo. Secondo lo studio, ciò che rende la regione MENA più suscettibile agli aumenti delle temperature rispetto ad altre parti del mondo sono le caratteristiche geografiche, come le grandi distese desertiche e i livelli di acqua sotterranea più bassi.

La scarsità d’acqua è l’effetto più evidente del cambiamento climatico nell’area, tanto che la regione è stata costantemente descritta dagli esperti come “la più stressata al mondo”, con 12 dei 17 Paesi più “stressati” dal punto di vista idrico del mondo, secondo il World Resource Institute. In effetti, negli ultimi anni, l’acqua stessa è diventata una risorsa strategica per cui combattere. Solo pochi giorni fa, uno scambio di colpi d’arma da fuoco al confine ha causato la morte di alcune persone, provocata dalle tensioni sui diritti idrici tra Iran e Afghanistan. Teheran accusa Kabul di aver violato un accordo del 1973 che regola il flusso del fiume Helmand e ciascuno dei due governi ha inviato rinforzi militari sul confine.

L’effetto della siccità potrebbe alimentare tensioni armate e scatenare migrazioni. Un’importante fonte d’acqua per Palestina, Siria, Giordania, Libano e Israele è il bacino del fiume Giordano. Qui l’acqua disponibile non è condivisa in modo equo a causa di uno squilibrio di potere, infatti, ad esempio, Israele consuma molta più acqua per persona rispetto alla popolazione palestinese. Quando lo Stato Islamico controllava ampie porzioni di territorio in Iraq e Siria, ha strappato il controllo delle dighe che fornivano acqua potabile, elettricità e irrigazione a milioni di persone lungo i fiumi Tigri ed Eufrate. In ragione di una maggiore pressione idrica, il bacino dell’Eufrate, gestito principalmente dalla Turchia, potrebbe diventare un motore di tensioni politiche in Siria e in Iraq. In tutto il Medio Oriente, la Banca Mondiale stima che la scarsità d’acqua potrebbe far perdere alle economie della regione tra il 6 e il 14% del prodotto interno lordo (PIL) entro il 2050.

In riferimento agli impatti sulla sicurezza umana, la recente pandemia globale di Covid-19 ha evidenziato l’interconnessione tra degrado ecologico, cambiamenti climatici e sicurezza umana. Un recente studio ha confermato che in Medio Oriente il degrado delle riserve idriche, così come il declino della produzione agricola dovuto al cambiamento climatico, potrebbero potenzialmente portare a una maggiore esposizione alle malattie infettive nell’area.
Di fronte a questo, i regimi dell’area MENA dipingono coloro che affrontano le sfide sociali e ambientali come minacce, poiché le loro attività di informazione e denuncia sono percepite dagli Stati come una sfida all’ordine e allo sviluppo. A questo proposito, ci sono numerosi esempi recenti in cui le attività di scienziati e attivisti ambientali hanno portato ad azioni repressive. Il governo egiziano ha detenuto attivisti, fatto irruzione nei loro uffici e intentato cause contro importanti organizzazioni ambientali e sociali. Ricercatori e giornalisti che si occupano di questioni legate al fiume Nilo hanno ricevuto istruzioni dalla sicurezza di Stato di attenersi ai punti di vista ufficiali o di rimanere in silenzio. In Iran è stata attuata una repressione su larga scala nei confronti degli ambientalisti, con arresti e processi. Negli Emirati Arabi Uniti è vietata qualsiasi discussione pubblica sul fondo sovrano basato sui proventi del petrolio, per mantenere la stabilità dello Stato e proteggere gli interessi delle compagnie petrolifere.

A questo proposito, rimane inspiegabile la decisione di aver organizzato la COP 27 in Egitto e di organizzare la prossima COP 28 negli Emirati Arabi Uniti.
Da parte sua, l’Unione europea ha una grande responsabilità per l’attuale situazione della regione. Nelle sue relazioni con il resto del mondo l’UE aspira da tempo a una leadership ambientale globale, ma molto spesso le ragioni economiche sembrano prevalere sugli obiettivi etici e ambientali. La crisi del gas e dell’elettricità causata dai recenti sviluppi del conflitto russo-ucraino ha evidenziato come i Paesi dell’UE siano ancora eccessivamente dipendenti dalle importazioni di combustibili fossili, e il rinnovato interesse dell’UE per le riserve africane potrebbe rendere i Paesi africani riluttanti ad abbracciare alternative più verdi nel prossimo futuro, rafforzando la percezione che la transizione avviata dall’UE, anziché essere un’opportunità, limiti lo sviluppo economico dell’Africa. Inoltre, il Green Deal europeo (EGD) presentato nel dicembre 2019 per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 comporterà un cambiamento fondamentale nel sistema energetico e produttivo europeo, generando conseguenze anche sulle relazioni tra l’UE e i suoi partner e incidendo profondamente sull’assetto geopolitico. Per evitare questi effetti, l’UE dovrebbe ridurre le potenziali tensioni che potrebbero emergere dall’attuazione del GEG, soprattutto con i Paesi in via di sviluppo. Con questi ultimi, così come con i Paesi produttori di combustibili fossili, l’UE dovrebbe collaborare per aiutarli a diversificare le loro economie e renderle più resistenti ai futuri shock climatici. Infatti, alcuni Paesi partner dell’area MENA hanno accusato l’UE di minare i mezzi di sussistenza tradizionali e di favorire l’instabilità sociale attraverso i propri forti obiettivi di riduzione delle emissioni.

A questo proposito, sebbene l’UE sia il principale donatore mondiale per le transizioni energetiche e di adattamento climatico per i Paesi in via di sviluppo, la regione MENA è uno dei più piccoli beneficiari di finanziamenti per il clima al mondo. All’interno della regione i fondi non sono distribuiti equamente tra i Paesi, con Egitto e Marocco che ricevono complessivamente il maggior numero di aiuti, mentre le nazioni più colpite dai conflitti e dai cambiamenti climatici come Yemen, Iraq e Siria, ricevono una quantità di aiuti tra le più basse.
Al contrario, nessun taglio viene predisposto in materia di spese militari e con il conflitto russo-ucraino in corso la spesa è aumentata in modo significativo. Un rapporto della Sinistra europea sui settori militari europei presentato nel febbraio 2021 ha mostrato come l’impatto delle emissioni di carbonio della spesa militare dell’UE nel 2019 era equivalente alle emissioni annuali di circa 14 milioni di automobili. In particolare è emerso che la Francia contribuisce a circa un terzo delle emissioni totali di carbonio delle forze armate europee, seguita da Germania (18%), Spagna (11%) e Italia (9%). Nel pacchetto “Fit for 55″ annunciato dalla Commissione nel luglio 2021 con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra nell’UE di almeno il 55% entro il 2030 rispetto al 1990, il settore militare non è menzionato come settore in cui ridurre le emissioni. L’attenzione alla riduzione dell’impronta di carbonio deve essere analiticamente sfaccettata e coinvolgere molteplici misure e aree politiche.

La crisi climatica non produce solo straordinari cambiamenti geofisici che impongono costi terribili agli esseri umani e agli animali, ma comporta anche notevoli ripercussioni sulla stabilità e sulla sicurezza tra gli Stati. Il capitalismo e l’imperialismo non sono verdi e non possono essere altrimenti. Imporre una seria critica anticapitalista e antimperialista significa affermare chiaramente che non possiamo superare questa crisi climatica senza abolire questo modello di produzione e le pratiche di dominio militare. La pandemia e il cambiamento climatico hanno approfondito una crisi decennale del capitalismo e dell’imperialismo che minaccia di cambiare per sempre il mondo come lo abbiamo conosciuto. Ma questa lezione è stata imparata da pochi. Qualche settimana fa, il Commissario europeo Breton ha parlato favorevolmente della possibilità di utilizzare parte dei fondi del “Piano di ripresa e resilienza” per aumentare la produzione di munizioni, principalmente a sostegno dell’Ucraina. Secondo le stime dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma nel 2022 gli investimenti militari globali sono aumentati del 3,7% in termini reali rispetto all’anno precedente. La spesa militare europea è aumentata del 13% nel 2022, il più grande aumento annuale nella regione nel periodo successivo alla Guerra Fredda, in contraddizione con i miliardi promessi per mitigare la crisi climatica.
Concludo il mio intervento riaffermando ancora una volta l’importanza dell’interconnessione delle lotte e dell’internazionalizzazione dei nostri movimenti per combattere il legame tra capitalismo, razzismo, sessismo, cambiamento climatico e imperialismo. Carl Marx, due secoli fa, ha correttamente evidenziato il duplice sfruttamento della natura e dei lavoratori da parte del capitalismo, e la critica anticapitalista del XX secolo ci fornisce tutti gli strumenti per essere adeguatamente preparati a questa battaglia.

*Rifondazione Comunista, Componente Gruppo di lavoro sul Medio Oriente del Partito della Sinistra Europea