La guerra in Ucraina viene da lontano

di Giovanni Santini

“In guerra, la prima vittima è la verità”. Quante volte in questi mesi abbiamo ascoltato o letto questo adagio attribuito addirittura ad Eschilo.

E la mancanza di verità può consistere, come il peccato, in azioni (notizie contraffatte o completamente false) o in omissioni.

È a quest’ultima categoria che si ascrive l’assenza pressoché assoluta, nei dibattiti sulla guerra in Ucraina, di un excursus storico sugli avvenimenti e situazioni che hanno portato alla crisi attuale.

La fine del Patto di Varsavia fu sancita dall’allora Presidente sovietico Michail Gorbačëv che, dal 1985, anno della sua elezione a Presidente dell’URSS, aveva intrapreso un cammino di cambiamento radicale, ideologico e politico, del Paese. Anche nelle relazioni internazionali si passò da una contrapposizione frontale con il blocco occidentale, tipica della guerra fredda, alla ricerca di un nuovo ordine internazionale, in cui USA e URSS fossero, se non proprio alleati, partner nella costruzione di un nuovo ordine mondiale improntato non più allo scontro, ma alla ricerca del benessere comune.

Gli interlocutori di Gorbačëv, in primis George Bush, Helmut Kohl e Margaret Thatcher, pur prodighi di pacche sulle spalle, non smisero mai, però, di considerare l’URSS come un rivale nel controllo del Mondo.

Uno dei casi più eclatanti fu il processo di riunificazione della Germania dopo la caduta del muro di Berlino. Nella Repubblica Democratica Tedesca erano di stanza circa 400.000 soldati sovietici. Gorbačëv accettò il loro ritiro per permettere la riunificazione sotto l’egida occidentale in cambio dell’assicurazione, riportata in tanti documenti ufficiali, anche se non sancita in un trattato, che la NATO non si sarebbe espansa verso est. Conosciamo tutti gli eventi successivi.

Boris El’cin, successore di Gorbačëv alla presidenza del Paese, esasperò questa politica di collaborazione unilaterale, cercando in ogni occasione di non deludere le aspettative statunitensi, alla continua ricerca di amicizia tra i due Paesi.

Ma i fatti continuarono in altro segno.

Alla fine del Patto di Varsavia non seguì neanche una revisione degli obiettivi della NATO, anzi, dal 1993 cominciò a prospettarsi l’idea di un allargamento dell’Alleanza. Addirittura, il Vice-Segretario di Stato Talbot, in un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Affairs, delineò un piano di aggregazione in tre fasi: nella prima Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, ormai entrate nella sfera d’influenza occidentale; nella seconda gli altri Paesi dell’Europa orientale, comprese le repubbliche baltiche, direttamente al confine con la Russia; ed infine… Georgia e Ucraina. E non fu solo una dichiarazione d’intenti su una rivista. Da allora si cominciò ad operare sottotraccia per questi obiettivi!

Al nuovo corso politico russo non corrispose un sostanziale cambiamento di rotta degli Stati Uniti, che continuarono ad avere come stella polare della politica estera il proprio interesse nazionale. Senza colpo ferire, si ritrovarono in un mondo unipolare, avendo l’Unione Sovietica, il principale antagonista per decenni, perso il proprio ruolo di attore protagonista sullo scenario internazionale. Il venir meno della contrapposizione con l’URSS consentiva di dedicare maggiori attenzioni ad altri fronti, con la Cina che iniziava a prospettarsi come principale competitore commerciale.

Dissolta l’URSS, la Russia, per contro, non solo perse la connotazione ideologica socialista, ma anche il proprio ruolo geopolitico e la propria rilevanza economica. Con l’ansia di entrare nel campo liberale, fu svenduta la grande proprietà pubblica, favorendo la nascita di una nuova classe di oligarchi che si arricchirono a dismisura, alle spalle della stragrande parte della popolazione, in ginocchio senza il precedente sostegno statale. La capacità militare non venne meno, ma si indebolì di conseguenza.

Questa era la situazione quando, nel 1999, Putin ascese al governo, inizialmente come Primo Ministro e poi, l’anno dopo, come Presidente. Se all’inizio Putin dimostrava una certa ambiguità di giudizio sull’esperienza del socialismo sovietico, in seguito prende sempre più le distanze da quel passato recente e anche da Lenin, una delle sue figure principali, condannandolo apertamente in diverse occasioni.

Il sentimento prevalente nella società russa era quello di frustrazione per le cattive condizioni economiche in cui versava il Paese e per la perdita del prestigio e del ruolo di protagonista sullo scenario internazionale. Ma Putin vinse le elezioni anche grazie all’appoggio degli oligarchi che vedevano nel suo governo una possibilità di continuare indisturbati i loro affari.

Putin cambiò rotta rispetto ai due predecessori, ma lo fece in modo graduale, proponendo agli Stati Uniti di George Bush prima e di Obama poi, un rapporto non più di accondiscendente cooperazione, ma di leale confronto. Ma, al di là degli incontri formali e delle visite di cortesia, le risposte non furono incoraggianti.

Nel 1999 la NATO ammise formalmente tre Paesi dell’Europa dell’est: Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, quest’ultima fortemente ostile alla Russia.

Nel 2001 gli USA si ritirarono unilateralmente dal trattato missilistico ABMT (trattato sui missili anti-balistici) che era in vigore dal 1972 e che prevedeva che le due potenze non proteggessero l’intero territorio da un eventuale attacco missilistico, stabilendo così un forte deterrente ad una guerra nucleare. Il ritiro diede agli statunitensi un notevole vantaggio, sia pure temporaneo, nella corsa agli armamenti, anche se negli anni successivi, ancora caratterizzati dalla ricerca del confronto, vennero sottoscritti nuovi accordi sugli armamenti nucleari strategici.

Nel 2004 la NATO ammise altri Paesi dell’Europa orientale, tra cui l’Estonia, direttamente confinante con la Russia e nel 2008, nel corso di un vertice in Romania, annunciò l’intenzione di ammettere anche Georgia e Ucraina. L’annuncio fu percepito come una minaccia esistenziale dalle autorità russe e così quattro mesi dopo si arrivò alla breve, ma significativa, guerra in Georgia.

Il governo georgiano, già allora in attesa di entrare nella NATO e sostenuto finanziariamente e militarmente da Washington, attaccò l’Ossezia meridionale che, assieme all’Abcasia, si era proclamata autonoma all’indomani dell’indipendenza della Georgia. Il contingente di pace russo presente nella regione subì delle perdite e Mosca reagì militarmente, facendo fallire in cinque giorni l’attacco georgiano.

Significativo è il modo in cui fu presentata la vicenda all’opinione pubblica occidentale. Sorvolando sulla provocazione georgiana, che fu accertata (con il silenzio complice dei media), da una commissione d’inchiesta dell’Unione Europea, si addossò solo a Mosca la colpa del conflitto e si accusò Putin di violazione del diritto internazionale.

In realtà, come poi ammisero anche funzionari dell’amministrazione statunitense, si trattava della prevedibile risposta da parte russa alla violazione dei propri confini da parte di uno stato ostile candidato ad entrare nella NATO.

Nel 2011 scoppiarono due crisi: prima quella libica e poi quella siriana.

La prima diede ai russi un’ulteriore prova dell’ostilità ed inaffidabilità degli statunitensi e dei loro alleati.

Come è noto, il Consiglio di sicurezza dell’ONU aveva approvato una risoluzione che prevedeva una zona d’interdizione al volo e misure per proteggere i civili, a seguito di disordini e scontri tra manifestanti e forze dell’ordine libiche.

La Russia, pur essendo contraria alla risoluzione, in segno di distensione si astenne.

Subito fu scatenata una campagna mediatica per dipingere Gheddafi come un feroce dittatore reo di genocidio per aver fatto uccidere 6.000 persone che, secondo Human rights watch, furono 373, tra manifestanti e polizia.

Come in seguito divenne chiaro, il vero obiettivo della NATO era liberarsi di un regime ostile e di un leader che faceva molta presa nella popolazione africana.

Sappiamo tutti come finì. Stravolgendo la risoluzione dell’ONU, la Libia fu attaccata e Gheddafi brutalmente ucciso.

Forte di tale esperienza, la Russia si comportò diversamente di fronte al tentativo, iniziato pochi mesi dopo, di rovesciare, in Siria, il regime scomodo di Assad. Medvedev, allora Presidente, dichiarò con forza che non avrebbero permesso il ripetersi di uno scenario come quello libico.

Questo atteggiamento trovò consenso nella società russa che, grazie anche ai notevoli progressi registrati negli ultimi anni in campo economico, vedeva il proprio Paese tornare a giocare un ruolo da protagonista in campo internazionale, abbandonando posizioni di assoggettamento prima e di disponibilità poi, che a nulla erano valse per frenare l’espansionismo della NATO verso i propri confini e l’imperialismo statunitense ovunque nel mondo.

Sono gli eventi degli ultimi anni che hanno condotto alla crisi ucraina.

Ad inizio 2014, a seguito di proteste di piazza fomentate come al solito da elementi esterni, fu rovesciato il governo del Presidente filorusso Yanukovich, democraticamente eletto, sostituto da un governo che il professore statunitense Mearsheimer, dell’Università di Chicago, descrive come profondamente filo-occidentale e anti-russo e composto da almeno “quattro figure di spicco che possiamo legittimamente definire neofasciste”.

Gli Stati Uniti ebbero sicuramente una parte determinante in questi eventi, come rivelato, involontariamente, dall’allora Vicesegretaria di Stato, Victoria Nuland, in una conversazione privata intercettata con l’ambasciatore statunitense a Kiev.

La risposta russa non tardò ad arrivare. Temendo che il nuovo governo potesse bloccare l’accesso alla vitale base navale di Sebastopoli, concordato con il precedente governo, la Russia annesse rapidamente la Crimea.

Lo scontro era ormai dichiarato.

Dal 2014 al febbraio 2022 è stato tutto un succedersi di provocazioni statunitensi e NATO ai confini della Russia.

Secondo il Servizio di ricerca del Congresso USA, in tale periodo gli aiuti all’Ucraina sono ammontati ad oltre 4 miliardi di dollari.

Sono state messe in funzione due basi missilistiche in grado di colpire Mosca ed altri obiettivi all’interno della Russia: una in Romania nel 2016 e l’altra di recente in Polonia, grazie all’annullamento del trattato ABM, di cui abbiamo parlato.

Nel 2017, l’amministrazione Trump, seguita dai propri alleati europei, ha iniziato a vendere armi letali all’Ucraina.

Negli ultimi tempi, la NATO ha realizzato ogni anno almeno una quarantina di grandi esercitazioni di addestramento in Paesi limitrofi alla Russia e simulazioni come quelle del 2020 e 2021 in Estonia, con lancio di razzi in grado di colpire obiettivi della Russia.

Un mese prima dell’invasione, la Russia aveva chiesto una garanzia scritta che l’Ucraina non sarebbe mai entrata a far parte della NATO. In risposta, il Segretario di Stato, Antony Blinken, ha dichiarato: “Non c’è alcun cambiamento. Non ci sarà alcun cambiamento”.

Nel 2019, gli Stati Uniti si sono ritirati dal trattato del 1987 sui missili nucleari a raggio intermedio, potendone così installare liberamente in Europa.

Mosca ha percepito tale evento come una minaccia letale, in quanto rende possibile un primo attacco missilistico contro i propri centri di comando, con il rischio di compromettere una reazione.

Per decenni il rischio di una guerra nucleare è stato considerato remoto grazie al sistema di deterrenza creato con vari trattati, da cui gli Usa si stanno ritirando.

L’importanza di tale trattato per i Russi è testimoniata dalle loro reiterate proposte di negoziare nuove restrizioni. Tutte ignorate.

A tal proposito, sono interessanti le dichiarazioni di Putin nell’ottobre 2021: “Qualcuno ha avuto la minima reazione alla nostra dichiarazione che non dispiegheremo questo tipo di missili nella parte europea se ci assicureranno che nessuno di loro lo farà, negli Stati Uniti o in Europa? No. Non hanno mai risposto”. E due mesi dopo, nel corso di una conferenza stampa: “Stiamo posizionando i nostri razzi vicino ai confini statunitensi? No, non lo stiamo facendo. Sono gli Stati Uniti che con i loro razzi arrivano alle nostre porte”.

Rimangono pochi dubbi sul fatto che questo sia stato uno dei punti fondamentali che hanno spinto Putin alla scellerata invasione dell’Ucraina, anche lisciando il pelo a un sentimento nazionalista fortemente diffuso nella popolazione russa. È anche con questo che il movimento pacifista deve fare i conti, per fermare questa tragica guerra.