“L’ordine mondiale unipolare è morto”. Il punto di vista del Sud del mondo

Rachid Nassouti- Majed Nehmè*

L’ex direttore della storica e prestigiosa rivista Afrique-Asie, il politologo Majed Nehmé ha rilasciato una lunga intervista a “The Sentinel” in cui legge e analizza gli sviluppi che hanno un impatto sul mondo. Egli analizza la crisi del mondo moderno sostenendo la tesi sviluppata dalla Russia, dalla Cina e da altri Paesi in merito alla creazione di un nuovo ordine mondiale basato su un approccio multipolare.

Nehmè parla del ruolo dell’Algeria come Stato cardine che assicura la stabilità regionale e internazionale alla vigilia di un importante vertice arabo ad Algeri ai primi di novembre. Analizza inoltre la situazione del Marocco (denominato Makhze nell’intervista, ndt) e l’esito drammatico che si prospetta dopo la firma degli accordi di normalizzazione con l’entità sionista di Israele. L’intervista è stata pubblicata da Investig’action.

The Sentinel: Il vertice arabo si terrà l’1 e il 2 novembre ad Algeri. Possiamo dire che l’Algeria è riuscita nella sfida di riunire le fila dei Paesi arabi?

Majed Nehmé: Tutto lascia pensare che sia così e noi lo speriamo. Le informazioni concordanti confermano che l’Algeria è sulla strada per riuscire in questa formidabile sfida, le conferme della presenza dei capi di Stato si susseguono e tutto ci porta a credere che questo vertice risponderà alle aspettative dei popoli del mondo arabo, più divisi che mai.

Dopo alcuni anni di interruzione a causa della pandemia di Covid-19, ma anche a causa del clima velenoso che grava sulle relazioni interarabe, il presidente Abdelmadjid Tebboune ha assunto il compito, arduo e ingrato, di riunire i ranghi arabi e di riformare il funzionamento stesso della Lega degli Stati arabi, che da decenni non brilla nella difesa degli interessi dei popoli arabi.

Tutt’altro. Infatti, la Lega Araba ha spesso calpestato il suo stesso statuto, come nel 2011 quando ha offerto un pretesto alla NATO per attaccare la Libia e rovesciare il suo regime, o escludendo illegalmente la Siria, un paese fondatore della Lega, dai suoi ranghi, o infine approvando l’intervento dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi e di molti altri, tra cui il Marocco, nella guerra civile yemenita…

Una minoranza di Paesi del Golfo ha fatto piovere e splendere il sole, ha violato allegramente la sacrosanta regola del consenso e dell’unanimità che dovrebbe essere alla base della sua azione e l’ha usata per servire interessi stranieri.

L’Algeria, come sempre, aveva rifiutato tali deviazioni e aveva chiesto il rispetto della Carta della Lega e del diritto internazionale. Si è opposto all’intervento di alcuni Paesi della Lega in Libia, Siria e Yemen. Sono ferite aperte che purtroppo continuano a sanguinare. Ha inoltre ricordato alla Lega il suo dovere di solidarietà nei confronti dei popoli della Palestina e del Sahara occidentale.

I risultati di questa deriva sono stati catastrofici e i leader che sono stati all’origine di questi disastri geopolitici, rendendosi conto oggi del prezzo esorbitante che i popoli della regione hanno pagato, stanno rinsavendo e aderendo nuovamente all’approccio pragmatico e realistico algerino alla risoluzione dei conflitti.

Il Presidente Abdelmadjid Tebboune, spinto dal suo impegno incrollabile per la solidarietà tra i Paesi arabi e musulmani, dal suo senso della realpolitik e dalla sua grande ambizione di restituire al suo Paese il ruolo di attore principale nel Maghreb, in Africa, nei Paesi del Sud e sulla scena internazionale, sta prendendo a cuore l’organizzazione e lo svolgimento di tale vertice.

Come interpreta il ruolo dell’Algeria nel riunire le fazioni palestinesi e nell’avviare il processo di riconciliazione per superare le divisioni che hanno colpito duramente l’OLP?

La Palestina è sempre stata nel cuore degli algerini e dell’Algeria. Fa parte del loro DNA. La rivoluzione algerina, da parte sua, ha affascinato i palestinesi e ha rappresentato per loro un esempio da seguire. Il Presidente Abdelmadjid Tebboune ha appena ricordato questa realtà in occasione della 77a Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

La questione palestinese, ha ribadito, è per l’Algeria una “questione essenziale e nazionale“, sottolineando che il suo Paese non accetta la colonizzazione e che “la Palestina appartiene ai palestinesi e a nessun altro“. Portato a stento alla suprema magistratura dalle urne, aveva commentato la serie di defezioni di alcuni Paesi  che avevano accettato, sotto il diktat americano, di “normalizzare” le loro relazioni con Israele, senza alcuna contropartita, dichiarando: “Non stiamo correndo, non stiamo normalizzando” con un Paese occupante, colonizzatore e segregazionista.

L’Algeria, ha sottolineato, è impegnata nel piano della Lega Araba adottato all’unanimità al vertice arabo di Beirut del 28 marzo 2002, un piano basato su una soluzione globale, giusta e duratura, che prevede uno Stato palestinese sovrano entro i confini del 1967, il ritiro di Israele da tutti i territori siriani e libanesi occupati, la soluzione della questione dei rifugiati, l’acqua, i confini e lo smantellamento degli insediamenti.

La normalizzazione tra tutti i Paesi arabi e Israele avverrà solo una volta soddisfatte queste condizioni minime. Sappiamo cosa è successo dopo. L’entità sionista rifiutò questo piano, la colonizzazione dilagante continuò, lo stato palestinese promesso divenne irraggiungibile…

È quindi normale che l’Algeria rifiuti in queste condizioni qualsiasi idea di normalizzazione, un eufemismo che nasconde malamente una capitolazione e una svendita dei diritti dei palestinesi.

Il presidente Tebboune, che si definisce figlio di novembre, persegue, nei confronti della Palestina, la stessa politica che è stata dell’Algeria fin dalla sua indipendenza. In particolare quella del compianto Houari Boumediene, al quale dobbiamo la famosa formula: “Con la Palestina a qualsiasi costo e in qualsiasi circostanza“.

In un momento in cui il mondo arabo aveva appena subito l’amara sconfitta del 1967, ha anche affermato che “la causa palestinese è sacra, siamo solidali con il popolo palestinese“. Pretendere più di lui è demagogia, accettare meno di lui è tradimento….

Dopo una relativa assenza dalla scena internazionale dovuta a una difficile situazione interna, il Presidente Tebboune si è impegnato con successo a schierarsi sulla scena internazionale per recuperare il tempo perduto. Fin dall’inizio aveva fissato il campo d’azione: raccogliere i cocci di un mondo arabo in guerra con se stesso e aiutare i palestinesi a unire le loro fila per farsi sentire di fronte alla serie di defezioni e tradimenti di alcuni leader arabi.

La sua iniziativa di riunire tutte le fazioni palestinesi, che facciano o meno parte dell’OLP (come nel caso di Hamas e della Jihad islamica), rientra in questa prospettiva generale e anche in vista del vertice arabo che si terrà ad Algeri all’inizio di novembre.

Un messaggio molto deciso ai suoi colleghi: la Palestina non deve essere svenduta. Rimarrà il cemento di qualsiasi azione araba congiunta. Con questa iniziativa, l’Algeria, senza sostituirsi agli stessi palestinesi, intende esprimere una solidarietà reale e concreta con loro.

Questo è ciò che ha sempre fatto fin dall’indipendenza. Vale la pena ricordare che l’Algeria, allora membro del Fronte di Resistenza Arabo (Jabhat al-Soumoud Wal Tassadi), aveva speso innumerevoli ore per aiutare la resistenza palestinese in termini di accoglienza, addestramento alla guerriglia, armamento, mobilitazione, comunicazione e sostegno diplomatico.

L’ex leader palestinese Yasser Arafat ha potuto rivolgersi al mondo intero il 13 novembre 1974 dal palco dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite solo grazie all’Algeria. Un altro promemoria: l’Algeria ha accolto alcuni dei combattenti palestinesi evacuati dal Libano nel 1982.

Sei anni dopo, fu proprio ad Algeri che il Consiglio Nazionale Palestinese (il parlamento di tutto il popolo palestinese dell’interno e della diaspora) dichiarò, il 13 novembre 1988, la creazione dello Stato palestinese sulla terra di Palestina. Uno Stato riconosciuto nel 2019 da 138 Paesi membri dei 193 membri dell’ONU.

Le questioni regionali e internazionali hanno permesso all’Algeria di riposizionarsi sullo scacchiere geopolitico che caratterizza il mondo. Si tratta di una nuova riconfigurazione strategica in cui l’Algeria sta diventando una potenza regionale d’elezione?

L’Algeria, nonostante un brevissimo periodo di ritiro interno, è sempre stata più di una potenza regionale. Secondo molti geopolitologi riconosciuti, tra cui Paul Kennedy, appartiene al ristretto club degli Stati con caratteristiche da “pivot” (Algeria, Sudafrica, Turchia, Indonesia, Egitto, Messico, India, Pakistan e Brasile).

Per ricordare che uno Stato cardine è un Paese chiave nel suo ambiente regionale e internazionale, una forza che conta per la sua importanza geopolitica, geografica e demografica, il suo potenziale economico e la sua stabilità. Un’altra caratteristica importante è che, secondo le parole di Kennedy, “uno Stato cardine è così importante a livello regionale che il suo crollo può significare una destabilizzazione transnazionale: migrazioni, violenze comunitarie, inquinamento, epidemie e così via“. Si tratta quindi di un Paese le cui scelte e sviluppi hanno una grande influenza ben oltre i suoi confini.

La stabilità interna dell’Algeria, a prescindere dalle sfide socio-economiche e di sicurezza che deve affrontare, è quindi essenziale per la stabilità regionale (Maghreb, Africa, Mediterraneo) e, oltre a ciò, per l’ordine internazionale.

L’Algeria, grazie alla sua politica estera, basata sul rispetto del diritto internazionale, sulla non ingerenza e sostenuta da uno Stato forte, ha svolto perfettamente questa missione. A differenza di alcune potenze occidentali e regionali che hanno cercato di destabilizzare il Maghreb, il mondo arabo e l’Africa con la loro ingerenza politica e di sicurezza, in particolare durante l’ondata di primavera (le cosiddette “primavere arabe”) che ha attraversato la regione con la loro complicità, l’Algeria è riuscita a impedirlo. Aveva anche avvertito queste potenze delle conseguenze dei loro atti criminali.

Lo abbiamo visto con l’invasione della Libia, il caos nel Sahel e altrove. Oggi tutti riconoscono la validità dell’approccio algerino. Con il presidente Tebboune, il corso è stato impostato per tornare in forze sulla scena internazionale. Una delle sue prime azioni faro è stata la creazione di un’agenzia di cooperazione internazionale, incentrata principalmente sull’Africa.

Il prossimo vertice arabo, a prescindere dalle sue risoluzioni, segnerà senza dubbio il ritorno dell’Algeria come attore centrale sulla scena regionale e internazionale.

Il gas e il petrolio sono visti come strumenti strategici per avere un posto nel nuovo mondo multipolare che sta prendendo forma. Come può l’Algeria trasformare questa nuova situazione in una “manna” strategica per i suoi interessi e per quelli della sua regione?

L’Algeria ha sempre compreso l’importanza strategica dell’energia (petrolio e gas in particolare) sulla scena internazionale. Si è sempre battuta per ottenere prezzi equi per questa risorsa insostituibile ma esauribile. Ricordiamo che è stato uno dei primi Paesi produttori a nazionalizzare l’industria petrolifera, del gas e mineraria il 24 febbraio 1971. Come membro dell’Opec, ha lavorato instancabilmente per la coesione dei Paesi produttori ed esportatori di petrolio e gas. L’Opep+ (Opep + Russia), ormai imprescindibile, è nato in Algeria nel 2016.

Certo, l’Algeria non è un grande produttore di oro nero e di gas, ma il suo sottosuolo e il suo offshore sono ben lontani dall’aver rivelato tutte le sue riserve. Appena il 3% del suo immenso territorio è stato esplorato.

Ma quella che voi chiamate “manna” può diventare una maledizione, come abbiamo visto negli anni ’80 quando il prezzo del barile si aggirava intorno ai 6 dollari a causa della guerra dei prezzi iniziata dall’Arabia Saudita per mettere in ginocchio i Paesi produttori, tra cui l’Unione Sovietica, l’Algeria, l’Iraq, l’Iran e la Nigeria.

Il vero “guadagno” è la diversificazione dell’economia, l’uscita dalla dipendenza da questa manna. Il sottosuolo algerino è ricco di risorse minerarie. In termini di agricoltura, ha i mezzi per raggiungere l’autosufficienza alimentare, come abbiamo visto quest’anno.

Nella sua strategia di sviluppo, il Presidente Tebboune, che aborrisce l’economia del contante basata sul trabendismo, l’export e la corruzione, ha posto la diversificazione al centro della sua azione. L’Algeria dispone delle risorse umane e naturali necessarie per affrontare questa sfida.

L’alleanza Makhzeno-sionista non cessa di essere un guastafeste per la stabilità della regione in generale e per quella dell’Algeria in particolare. Quali sono le carte che l’Algeria potrebbe usare per contrastare queste agende espansionistiche e neocoloniali?

Il Makhzen (Marocco in italiano), guidato da una monarchia corrotta, alleata di fatto e da sempre dell’entità sionista, e tagliato fuori dal popolo, è oggi un regime in grave difficoltà. In passato, più precisamente nel 1975, quando fu messo alle strette a livello popolare, Hassan II fece leva sulla fibra sciovinista invadendo il Sahara occidentale. Cercò di deviare la rabbia popolare inventando una “sacra” causa nazionale, quella di annettere la colonia spagnola.

Si basava sul progetto espansionistico del Grande Marocco del partito nazionalista Istiqlal, che mirava ad annettere non solo il Sahara, ma anche la Mauritania, metà dell’Algeria e il Mali! Naturalmente, questa visione demagogica ha incontrato una forte resistenza (la guerra delle sabbie nell’ottobre 1963, l’indipendenza della Mauritania nel 1959, nonostante le incursioni armate marocchine, e lo stesso per il Mali…).

Nelle sue memorie, l’ex numero due libico Abdessalam Jalloud rivela che quando, nel 1972, incontrando a Rabat il re Hassan II, gli chiese di aiutare la lotta per l’indipendenza dei Saharawi, la risposta dell’autore della Marcia Verde fu inequivocabile: Mi rispose dicendo che aveva già abbastanza bombe da disinnescare e che, in ogni caso, i Saharawi non sono marocchini.

Questa impresa di diversione e recupero si è rivelata costosa per i Makhzen. La “marocchinità” del Sahara è ancora rifiutata dall’ONU, dall’Unione Europea e da gran parte dei membri delle Nazioni Unite. La Spagna, sottoposta al ricatto migratorio dei Makhzen, ha infine ceduto, ma non per molto.

D’ora in poi, il riconoscimento del falso piano di autonomia è subordinato, secondo il primo ministro spagnolo, “all’accettazione dei Saharawi”. Lo stesso vale per l’amministrazione Trump, che ha riconosciuto illegalmente la “marocchinità” del Sahara in cambio della normalizzazione delle relazioni tra Marocco e Israele.

Ma l’attuale amministrazione democratica si comporta come se questo famigerato accordo non esistesse più, poiché richiede ancora l’approvazione del comitato di decolonizzazione delle Nazioni Unite, che a sua volta richiede l’organizzazione di un vero e proprio referendum. Morale della favola: il Makhzen ha venduto l’anima, ha tradito la Palestina per niente. Prima o poi il popolo marocchino straccerà questo accordo, come ha già fatto la Mauritania.

Va ricordato che l’odiato regime di Ould Tayeh credeva che la normalizzazione con Israele gli avrebbe dato un’assicurazione sulla vita. Invano: non solo è stato spazzato via dal potere come una tabula rasa, ma l’ambasciata israeliana a Nouakchott sarà rasa al suolo.

Per quanto riguarda l’immaginaria assicurazione sulla vita israeliana nel Makhzen, essa sarà a sua volta fatta a pezzi. Israele, incapace di vincere la resistenza palestinese e libanese, è solo in grado di offrire al Marocco vergogna e infamia.

L’Algeria, da parte sua, pur rimanendo vigile, dispone di tutte le risorse popolari e militari per contrastare le manovre di un makhzen in preda alla disperazione.

Stiamo assistendo a una nuova riconfigurazione dello scacchiere mondiale in cui i centri decisionali internazionali si sposteranno in altri poli al di fuori degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali?

Siamo infatti sull’orlo di uno scossone all’ordine unipolare nato dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e dominato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. È il culmine di un lento processo iniziato 15 anni fa, il 10 febbraio 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

In un discorso storico, il presidente russo Vladimir Putin, stufo di tanto egemonismo occidentale, umiliazione e arroganza nei confronti della Russia e del mondo non asservito agli Stati Uniti, ha detto senza mezzi termini: “Cos’è un mondo unipolare? È un unico centro di potere, un unico centro di forza, un unico centro di decisione. È il mondo di un unico padrone, di un unico sovrano”. E ha continuato con fermezza: “Credo che nel mondo contemporaneo il modello unipolare sia non solo inaccettabile, ma anche impossibile”.

Nello stesso discorso, ha denunciato la continua espansione della NATO verso i confini della Russia, in contrasto con gli impegni presi nel 1991 al momento dello scioglimento dell’URSS. In cambio dello scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti si erano impegnati a non includere gli ex Paesi dell’Europa orientale in questa alleanza, che non ha più ragione di esistere, essendo finita la Guerra Fredda e crollata l’Unione Sovietica.

Tuttavia, non solo questi impegni non sono stati rispettati (dal momento che tutti gli ex membri del Patto di Varsavia hanno aderito all’alleanza), ma la NATO si è permessa di attaccare la Jugoslavia senza un mandato delle Nazioni Unite e di smembrarla.

A questo proposito, V. Putin si è chiesto: “Mi sembra ovvio che l’allargamento della NATO non abbia nulla a che fare con la modernizzazione dell’alleanza o con la sicurezza in Europa. Al contrario, è una provocazione che mina la fiducia reciproca e possiamo legittimamente chiederci contro chi è diretto questo allargamento“.

La risposta a questa domanda non si è fatta attendere. La Libia sarà il nuovo obiettivo nel 2011. Si ricorda la rabbia di Putin, quando era solo Primo Ministro, che la Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza sulla Libia è un “appello medievale alle crociate“.

Nello stesso anno, nell’ottobre 2011, Russia e Cina hanno posto il veto a una bozza di risoluzione occidentale contro la Siria. È stata la fine del consenso tra i principali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È la guerra globale contro la Siria che ha di fatto riacceso la fiamma della Guerra Fredda, annunciando la fine dell’unanimità americana e la nascita di un nuovo ordine internazionale…

Dieci giorni prima dell’inizio della guerra in Ucraina, il 4 febbraio 2022, è stata rilasciata a Pechino una lunga dichiarazione congiunta russo-cinese (5300 parole). È un manifesto che chiede un nuovo ordine mondiale. Le stesse idee saranno riprese dai BRICS, che hanno accettato l’adesione dell’Algeria, adesione che, sottolinea il presidente Tebboune, “proteggerebbe l’Algeria, Paese pioniere del non allineamento, dal braccio di ferro tra i due poli“.

La dichiarazione finale del vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai tenutosi a Samarcanda, che riunisce più della metà della popolazione del pianeta, chiede anche un nuovo ordine mondiale multipolare, rifiutando la politica dei blocchi, le interferenze straniere, le rivoluzioni cromatiche made in USA e le sanzioni non autorizzate dall’ONU…

Tutti questi indizi dimostrano che il vecchio ordine mondiale unipolare è ormai morto. La domanda è: cosa lo sostituirà? Questo ci ricorda la famosa frase dell’intellettuale e attivista progressista Antonio Gramsci, pronunciata dal carcere nel 1938: “Il vecchio mondo sta morendo, il nuovo mondo tarda ad arrivare, e in questo buio sorgono i mostri“. Speriamo che questi mostri vengano presto neutralizzati.

* Nehmé è l’ex direttore della storica e prestigiosa rivista Afrique-Asie

Fonte: Contropiano – https://contropiano.org/news/internazionale-news/2022/10/15/lordine-mondiale-unipolare-e-morto-il-punto-di-vista-del-sud-del-mondo-0153388 – Fonte originale The Sentinel