Colpi di Stato nel Sahel

Strumento di emancipazione popolare o di avvicendamento di “classi dirigenti”?

di Piero Sunzini * –

È difficile scrivere della realtà saheliana senza rischiare la smentita, nel giro di qualche settimana. Le cose cambiano in maniera repentina e gli avvicendamenti nella gestione della cosa pubblica sono frequenti, soprattutto negli ultimi anni.

Ci sono molti elementi che legano il Mali, il Burkina Faso e il Niger, e non soltanto a livello territoriale. Pur nelle loro significative differenze culturali, infatti, hanno una lingua veicolare comune, il francese, retaggio di un periodo coloniale nel quale erano parte integrante della Africa Occidentale Francese (AOF). Pur avendo situazioni climatiche differenti, in funzione delle latitudini, subiscono allo stesso modo fenomeni importanti di desertificazione. Pur avendo un approccio differente all’islam, e alla religione in generale, condividono un’area geografica, il   Liptako-Gourma – detta appunto la zona delle tre frontiere –, dove si riscontrano le azioni più efferate del terrorismo jihadista. Pur avendo attuato politiche autonome di sviluppo, almeno dal periodo post indipendenza, sono tutti e tre collocati nella parte più bassa della classifica dei Paesi sviluppati delle NU, anche se stilata con l’indice di sviluppo umano; con livelli di povertà significativi che interessano ampi strati della popolazione.

Potremmo continuare con altri elementi di contiguità, ci limitiamo, però, al fenomeno che è tornato prepotentemente all’ordine del giorno: l’utilizzo dei colpi di Stato militari come strumento di “lotta e cambiamento politico”.

Ad agosto 2020, in Mali, la cattiva gestione dell’emergenza del terrorismo jihadista determina il terreno di coltura del primo colpo di Stato del colonnello Assimi Goita che assume la carica di vicepresidente. Nel seguente “periodo di transizione”, però, il presidente Bah Ndaw e il primo ministro Moctar Ouane vengono accusati di collusione con gli interessi francesi. Causa scatenante del secondo colpo di Stato di Goita (maggio 2021) che assume, infine, la carica di Presidente del Mali.

In Burkina Faso, il Presidente Rock Christian Kaboré, rieletto per un secondo mandato nel novembre 2020, non riesce a dar seguito al programma elettorale che definisce la lotta al terrorismo come priorità. E’ destituito dal suo incarico con la forza – “… solo i militari possono sconfiggere i jihadisti!”  – dal tenente-colonnello Paul-Henry Damiba, nel gennaio 2022. Il perdurare di attentati terroristici e la manifesta incapacità di governo di Damiba, tuttavia, generano conflitti all’interno delle stesse forze armate che saranno prodromici al nuovo colpo di Stato (settembre 2022) del capitano Ibrahim Traorè, attuale Presidente ad interim.

In Niger, infine, nel luglio del 2023, cogliendo di sorpresa tutta la comunità internazionale, il generale Abdourahamane Tiani s’insedia come capo della giunta militare del Niger, dopo aver arrestato il presidente Bazoum eletto al ballottaggio nelle elezioni dell’aprile 2021.

Pur nella differenza dei contesti, questi colpi di Stato hanno un denominatore comune: il sostegno popolare e il profilo endogeno del fenomeno. Il putsch militare è letto “come un momento di rottura e per il cambiamento di uno status quo non più accettabile da gran parte della popolazione”. In altri termini, è la messa in discussione del modello politico basato sul “multipartitismo e le elezioni libere” che, importato e spesso imposto, non ha garantito il superamento della povertà nella maggioranza delle popolazioni di questi paesi, a differenza di quanto promesso.  Nessun governo ha fatto politiche popolari. Hanno garantito, invece, le rendite di un’élite ridottissima, spesso corrotta e autoritaria, in stretta connessione con partner internazionali che non hanno mai lesinato ogni forma d’appoggio, in maniera anche spregiudicata, se funzionale ai loro interessi.

Il continuo impoverimento delle popolazioni in Mali, Burkina Faso e Niger può essere letto, quindi, come crisi verticale dei modelli di democrazia rappresentativa associati a schemi di sviluppo economico iperliberisti. In questo contesto, il golpe militare è accettato e sostenuto da ampi strati delle popolazioni locali, come strumento di liberazione da una classe dirigente corrotta, antipopolare e asservita a interessi stranieri. Sarà compito dei militari golpisti validare questa chiave di lettura: le attuali “fasi di transizione” per gestire le emergenze (terrorismo) devono avere un termine certo, per riaffidare, pertanto, la gestione della cosa pubblica ai rappresentanti della società civile, liberamenti scelti dal popolo con libere elezioni.

Il contrario, un processo di mera sostituzione di classe dirigente, sarebbe un’ennesima occasione persa.

 

Fonte: https://latitudini.tamat.org/3d-flip-book/latitudini-n-6-gennaio-2024/