L’utopia interrotta: l’attacco della Turchia contro la città curda di Afrin

TOPSHOT - Smoke is seen billowing from the northern Syrian Kurdish town of Afrin on January 31, 2018. Turkey and allied Syrian rebel groups launched operation Olive Branch on January 20 against the Kurdish People's Protection Units (YPG), which controls the Afrin region. / AFP PHOTO / Ahmad Shafie BILAL (Photo credit should read AHMAD SHAFIE BILAL/AFP/Getty Images)

di Dilar Dirik

Oggi ad Afrin è in gioco il futuro di una possibilità di coesistenza multiculturale e di una democrazia alternativa per la società e la politica del Medio Oriente

Il 20 gennaio lo Stato turco e l’Esercito Siriano Libero (ESL), suo alleato, hanno lanciato un’operazione militare transfrontaliera contro la regione di Afrin, a maggioranza curda, nel nord della Siria. Questa invasione di un altro Paese rappresenta una palese violazione del diritto internazionale e sta avendo luogo indisturbata sotto gli occhi della comunità internazionale. Inoltre, questa dichiarazione di guerra rappresenta un’atrocità nei confronti dello stesso popolo che è stato in prima linea nella lotta contro il fascismo dell’ISIS e che in contemporanea ha costruito un rifugio democratico, laico e rispettoso della parità dei sessi per tutte le comunità colpite dalla guerra.

Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno avallato tacitamente l’operazione dichiarando che la Turchia ha il diritto di difendere i suoi confini e la sua sovranità nazionale. La Russia, nel frattempo, ha cautamente dato il suo assenso all’attacco permettendo alla Turchia di usufruire della parte di spazio aereo sotto controllo russo, dopo che era stata rifiutata l’offerta di cedere il controllo dell’amministrazione di Afrin al regime di Assad.

Le stesse potenze che negli ultimi sette anni non sono riuscite a organizzare le trattative di pace per la Siria a quanto pare sono in grado di agire in sinergia quando si tratta di porre fine a un progetto politico alternativo e democratico e di venire incontro agli interessi del secondo più grande esercito della NATO, quello turco, senza badare al totale disprezzo di quest’ultimo per le preoccupazioni dei suoi stessi alleati geopolitici. Non solo questi stessi Paesi, uniti nella coalizione anti-ISIS, usano i curdi come “affidabili uomini sul campo”, ma hanno anche scelto volutamente di non fare nulla di fronte alle prove incriminanti che dimostravano il sostegno della Turchia verso forze reazionarie come l’ISIS. Questa impostazione mette a nudo l’ipocrisia degli attori internazionali, le cui politiche hanno contribuito attivamente all’escalation di guerre nel Medio Oriente per favorire i loro interessi.

Nel momento in cui l’ESL, alleato di Erdogan, e l’esercito turco provano a instaurare una “zona sicura” per difendere la Turchia “dal terrorismo”, l’apparato propagandistico dello Stato raggruppa le forze dei nativi curdi e gli assassini stupratori dell’ISIS sotto la stessa categoria e dichiara di combattere entrambi, nonostante l’ISIS non sia neppure presente ad Afrin. In ogni caso, ammettendo anche che fosse vero, la Turchia per anni non si è preoccupata del fatto che lungo il confine con la Siria l’ISIS eseguiva crocefissioni e teneva mercati di schiave sessuali.

Nonostante molti governi occidentali e lo stesso Joe Biden (ex vicepresidente americano dell’amministrazione Obama) abbiano criticato il ruolo della Turchia nell’ascesa della violenza jihadista in Siria (e anche del cosiddetto Stato islamico) tramite mezzi politici, finanziari e logistici, l’importanza strategica della Turchia in quanto membro della NATO per iniziative nella regione era troppo rilevante per essere messa a rischio. Come oggi è noto, la Turchia è stata la principale base dei killer jihadisti di tutto il mondo per i rifornimenti e i viaggi. In Turchia decine di membri dello Stato islamico sono stati scagionati, sono state comminate lunghe pene a pacifici dissidenti e attivisti antimilitaristi accusati di reati assurdi, alcuni persino per post pubblicati sui social media.

Ad Afrin, in altre parti della Siria settentrionale e in Kurdistan migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’invasione turca, vista come un tradimento storico da parte di tutti quegli Stati che li hanno sostenuti nella loro storica lotta contro l’ISIS. In tutto il Rojava la gente comune ha impugnato le armi e giura di respingere gli attacchi turchi, mobilitandosi esattamente come ha fatto contro gli attacchi ai civili da parte dell’ISIS e di altre forze.

Un attacco contro un progetto democratico e di liberazione

Da quando nel 2011 è iniziata la guerra in Siria, Afrin è stata una delle zone più sicure di questo Paese devastato. Rifiutando di giocare secondo le regole del regime di Assad, dell’Esercito Siriano Libero e dei gruppi dell’opposizione siriana controllati dalle potenze regionali, dal 2012 quest’area a maggioranza curda del nordovest del Paese ha gettato le basi delle strutture di un autogoverno indipendente e fondato sulla democrazia di base, oltre a ospitare ad oggi centinaia di migliaia di rifugiati interni dalla Siria. Se da una parte la lotta militare contro l’ISIS ha ricevuto supporto tattico da forze esterne, soprattutto dagli Stati Uniti, dall’altra queste collaborazioni temporanee non erano accompagnate da alcun impegno politico. L’attuale tradimento dei curdi dopo la sconfitta dell’ISIS era stato quindi previsto da tempo.

Quando nel 2014 i consigli e le comuni autonome di Afrin hanno deciso di organizzarsi in un cantone nell’ambito del sistema del Confederalismo Democratico, assieme ai cantoni di Kobane e Jazeera, proclamarono “un sistema politico e un’amministrazione civile fondati su un contratto sociale che riappacifica il ricco mosaico della Siria attraverso una fase di transizione dalla dittatura, dalla guerra civile e dalla distruzione, verso una nuova società democratica in cui la vita civile e la giustizia sociale sono salvaguardate”. Oggi, Afrin fa parte del Sistema Federale Democratico della Siria del Nord, che si regge su un regime di auto-governo federale e laico basato sui valori della democrazia radicale, dell’ecologia e della liberazione della donna per i curdi, gli arabi, i turcomanni, i siriaci, gli assiri, i ceceni e gli armeni della regione. Tutto ciò è particolarmente significativo dal momento che Erdogan in Turchia si fa promotore di una supremazia nazionalista e usa il linguaggio della pulizia etnica quando rappresenta in maniera falsata la demografia della Siria settentrionale e dichiara che bisogna “restituire Afrin ai suoi legittimi proprietari”, rievocano così le politiche razziste del partito Ba’ath, che risalgono agli anni ’60.

In anni recenti, soprattutto dopo la storica battaglia per la città di Kobane del 2014, le politiche emancipatrici del nord della Siria, che i curdi chiamano Rojava, hanno rappresentato una luce di speranza in una regione altrimenti distrutta da guerra, caos e massacri. Le donne hanno preso il comando in tutte le sfere della società e hanno introdotto una rappresentanza equa nelle strutture di governo tramite quote al 50% e tramite il principio della co-presidenza, unitamente a un movimento di liberazione della donna di massa, radicale, popolare e radicato tra la gente comune mediante unità di autodifesa femminili autonome, comuni, assemblee, accademie e cooperative economiche.

Questa coscienza politica emancipatrice è stata la forza trainante della resistenza curda a Kobane che ha spinto l’amministrazione Obama a collaborare con le YPG e le YPJ e con le multietniche Forze Democratiche Siriane, nate più tardi, che fungevano da alleati sul campo nella lotta contro l’ISIS. Le opposte posizioni ideologiche hanno reso evidente che nessuna delle due parti avrebbe potuto lavorare con l’altra al di fuori della cooperazione contro il nemico comune. Oggi ad Afrin è in gioco il futuro di una proposta di coesistenza multiculturale e di democrazia alternativa per la società e la politica del Medio Oriente.

L’attacco contro Afrin rafforzerà l’autoritarismo di Erdogan

Come è noto agli osservatori della guerra di Erdogan contro i curdi, l’attacco in corso contro Afrin va inserito nel contesto dell’antica ostilità razzista verso ogni possibilità di autodeterminazione dei curdi, compresi i diritti democratici all’interno degli attuali Stati. Etichettando ogni tentativo di autodeterminazione come “separatismo” e “terrorismo”, la Turchia cerca di legittimare i suoi crimini di guerra agli occhi della comunità internazionale.

Da quando, nell’estate del 2015 il processo di pace tra lo Stato turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) si è interrotto, e soprattutto dopo un tentativo di colpo di Stato nel luglio 2016, lo Stato ha commesso molti massacri contro i civili curdi, decine di migliaia di persone sono state arrestate e molte altre aggredite, licenziate, ferite o destituite.

I co-presidenti del Partito Democratico dei Popoli (HDP) e molti tra parlamentari democraticamente eletti, membri del partito e sindaci sono in prigione dal 2016, diversi senza alcun capo d’imputazione. Centinaia di giornalisti sono nelle prigioni turche, cosa che, secondo Reporter senza frontiere, fa del Paese “la più grande prigione del mondo per i lavoratori dei media”. Dal fallito tentativo di colpo di Stato del luglio 2016 quasi 150 mila funzionari pubblici sono stati licenziati, più di 100 mila civili fermati dalla polizia, 50 mila arrestati. Più di 8 mila accademici hanno perso il lavoro. Se da un lato molti sono stati accusati di attività golpiste, il giro di vite contro gli accademici ha preso forma soprattutto dopo l’adesione del primo migliaio di accademici alla petizione che chiedeva allo Stato di interrompere la guerra contro i curdi e di riprendere il processo di pace. Avvocati, difensori dei diritti delle donne, attivisti delle comunità e altri dissidenti fanno parte del migliaio di persone imprigionate con l’accusa di terrorismo.

Mentre in tutto il Paese dopo il tentativo di golpe del 2016 è stato proclamato lo “stato di emergenza”, le regioni curde hanno subito una crescente militarizzazione e provvedimenti extragiudiziali basati sulla legge marziale, legittimando la pulizia etnica, le uccisioni indiscriminate e la distruzione sistematica di interi insediamenti. Secondo un rapporto dell’OHCHR, tra i 355 mila e il mezzo milione di civili curdi sono stati trasferiti forzatamente, mentre centinaia di civili sono stati uccisi dall’esercito turco. Queste sono stime prudenti, in quanto le autorità non hanno consentito un accesso adeguato alla delegazione nelle regioni colpite. Il rapporto descrive le città sottoposte a coprifuoco con parole come “apocalittiche”.

L’attuale caccia alle streghe contro chi si oppone alla guerra rievoca le politiche degli ultimi anni. Il governo ha annunciato “un’operazione sui social” per individuare gli utenti dei social media che esprimono il loro dissenso nei confronti della guerra e portarli in tribunale. I programmi TV parlano delle celebrità che non hanno dichiarato pubblicamente il loro sostegno alla guerra e le prendono di mira. Centinaia di persone sono state arrestate per essersi dichiarate a favore della pace.

Dov’è il movimento contro la guerra?

Come dovrebbe essere evidente dalla natura dell’operazione avviata dalla Turchia e dalla complicità delle potenze coinvolte nella guerra tramite consenso tacito o diretto o tramite il commercio d’armi, gli attacchi contro Afrin sono la rappresentazione di un’alleanza militare internazionale contro un’enclave democratica, multietnica, multireligiosa e governata dal popolo, in cui la lotta per la liberazione delle donne viene portata avanti attivamente e di fatto istituzionalizzata in tutte le sfere della società. In una regione segnata da nazionalismo, estremismo religioso e violenza settaria, alimentati da gruppi genocidi come l’ISIS, Afrin è stata un rifugio per yazidi, cristiani, aleviti e musulmani di tutte le etnie. Perché questo sistema fosse instaurato migliaia di persone hanno sacrificato le loro vite o continuano a metterle a rischio. Per chi non vuole consegnare il destino di un’intera regione a regimi dittatoriali e sfruttatori imperialisti, è di importanza cruciale mobilitarsi e fare fronte comune contro questa guerra internazionale mossa contro un destino diverso del Medio Oriente, libero dalla morte e dal caos.

Esattamente come nel 2014 durante l’assedio di Kobane, dall’inizio dell’attacco contro Afrin centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in tutto il mondo. Tra le persone che oggi hanno occupato strade, stazioni ferroviarie, aeroporti, piazze e autostrade in tutta Europa per protestare contro l’attacco turco ad Afrin c’erano migliaia di rifugiati scappati dalla Siria e dall’Iraq per sfuggire a morte e distruzione. Oggi, protestano contro il fatto che molti governi che ritraggono se stessi come difensori dei diritti umani sono gli stessi che forniscono sostegno politico e militare a Stati apertamente fascisti e antidemocratici, un comportamento che oggi rafforza ulteriormente la tenuta di forze come l’ISIS che sono state la ragione per cui la gente ha abbandonato le proprie case. Ma tra le centinaia di migliaia di manifestanti c’erano anche ex rifugiati curdi, fuggiti negli ultimi decenni dalle guerre sostenute con il commercio delle armi occidentali. Così come negli anni ’90 la Turchia usò carri armati tedeschi per distruggere 5 mila villaggi curdi, per perpetrare massacri contro i civili e trasferire intere popolazioni, e così come Saddam Hussein in Iraq usò contro i curdi armi chimiche fornite dai Paesi europei, oggi i Leopard tedeschi sono usati in un’invasione transfrontaliera che viola il diritto internazionale. La comunità curda vede la storia ripetersi con la complicità dei governi occidentali nella morte di milioni di civili.

L’attacco contro Afrin è uno degli esempi in cui le più influenti potenze occidentali del mondo fanno improvvisamente fronte comune per attaccare i nativi di una regione e il loro tentativo di organizzare la propria vita secondo principi di dignità, giustizia e libertà. Opporsi ai crimini di guerra della Turchia dovrebbe essere un imperativo categorico per tutti coloro che si oppongono alla guerra e al militarismo.

 29 gennaio 2018

Dilar Dirik è un’attivista del movimento curdo delle donne. Scrive testi sulla lotta per la libertà in Kurdistan per un pubblico internazionale e sta attualmente concludendo un dottorato presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Cambridge.

https://newint.org/features/web-exclusive/2018/01/29/turkey-assault-afrin

traduzione di Angelica Bufano

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