Lula e noi

Si traduce un articolo di Jean-Luc Mélenchon, leader del movimento La France Insoumise” che richiama con forza l’attenzione sul peso mondiale dei preoccupanti recenti accadimenti antidemocratici e non di rado anticostituzionali dell’America Latina. È bene non dimenticare anche la “disattenzione” istituzionale dei singoli paesi europei e dell’Unione Europea nelle sue diverse istanze. L’Italia non fa eccezione, ed anzi nel caso del Brasile ha oggettivamente dato un aiuto alla eversione istituzionale con l’estradizione nel 2015 del banchiere italo-brasiliano Henrique Pizzolato per decisione del ministro della giustizia nonostante il parere contrario di tutti i gradi della magistratura (notizie su questa vicenda sono facilmente rintracciabili on line). T.I.

Lula e noi

di Jean-Luc Mélenchon

Prestare attenzione e seguire gli accadimenti in America del Sud è un dovere per una coscienza politica contemporanea. È proprio laggiù che è stato riacceso il fuoco dell’azione governativa anticapitalista nel periodo post sovietico. È laggiù lo spazio in cui si confrontano nel modo più aspro le strategie di conquista del potere fra oligarchia e popolo con una partecipazione diretta e scoperta degli Usa. È una specie di riassunto brutale di quello che in seguito ci può succedere sul vecchio continente in una forma adattata alle nostre latitudini.

Attualmente, di nuovo, dopo il decennio delle sconfitte delle oligarchie e dei loro padrini statunitensi, da un paese all’altro, si snoda una strategia revanscista di lotta dura contro la sinistra. E ciò sia che quest’ultima si trovi al potere o in lotta per riprenderlo come in Brasile.

I metodi variano spesso da un paese all’altro. Vedo firme diverse in base ai legami a Washington del proconsole degli Stati Uniti che officia in loco. La tecnica del bastone è sempre lì, come in Honduras dove il risultato dell’elezione è stato capovolto in modo altrettanto grossolano di come era avvenuto in Messico cinque anni fa contro Andres Manuel Lopez Obrador. … In seguito gli oppositori vi sono metodicamente perseguitati in tutti i modi possibili. Si sono anche visti metodi di destabilizzazione violenta e cospirativa come in Venezuela con l’appoggio di tutta la macchina mondiale del partito mediatico. L’ultimo numero di Match è un esempio recente, risibile per la sua grossolana manipolazione menzognera. Senza dimenticare le grida di rabbia del comandante Saul, ex capo della frazione rossa dell’armata rivoluzionaria del popolo dell’Argentina degli anni ’70, oggi “giornalista” presso Le Monde sotto il nome di Paulo Paranagua, militante politico che vomita odio di ultra destra.

Ma si nota anche come la guerra che viene mossa sul terreno prende ormai spesso la strada di una strumentalizzazione delle pratiche della giustizia. Si tratta allora, per abbattere il partito popolare, di mandarne i dirigenti in prigione o di metterli sotto la spada di Damocle di procedure giudiziarie infamanti e interminabili. Al limite nella sua forma più grossolana si può parlare di colpo di Stato istituzionale. È stato il caso del Paraguai contro il presidente in esercizio, Fdernando Lugo,  che il tribunale costituzionale ha puramente e semplicemente deposto (22 giugno 2012). Uno scenario simile è stato organizzato contro Manuel Zelaya in Honduras (28 giugno 2009). E naturalmente le destituzione di Dilma Rousseff  (31 agosto 2016) in Brasile è stata in questo campo un monumento.

Perseguitata da noti corrotti implicati in ogni sorta di procedure giudiziarie la presidente è stata destituita senza una parola di sostegno o un gesto di aiuto dei suoi nuovi amici dei partiti socialisti del mondo, che peraltro l’avevano tanto amata. A Parigi, dove aveva temuto di incontrarci per paura di indisporre il gentile François Hollande, siamo stati ben soli a difendere il suo onore e quello del popolo brasiliano che resisteva contro quel colpo di Stato.

Il Brasile non è solo la grande potenza del cono sud. Non ha solo la popolazione più numerosa di questo spazio. È anche una componente fondamentale del Brics, quell’ informale alleanza politico-economica di Russia, Cina, India e Africa del Sud, 40% del Pib mondiale. Un traino che ha deciso di commerciare al proprio interno in moneta nazionale senza passare dal dollaro. Una minaccia mortale per la superpotenza.

Alla vigilia di nuove elezioni presidenziali (ottobre 2018), la lotta per il potere in Brasile assume una dimensione geopolitica essenziale. Tutti i sondaggi danno vincitore Luiz Inácio Lula da Silva, Lula, il fondatore del Partito dei lavoratori/PT, che ha già governato prima di Dilma Rousseff e aperto il ciclo di vittorie popolari nel continente. Abbatterlo è quindi un obiettivo vitale per l’oligarchia e per gli Usa, Sopravvissuto a un cancro, Lula è dunque stato attaccato sul versante giudiziario come era avvenuto per Dilma Rousseff. E Lula è stato condannato in seconda istanza mercoledì 24 gennaio 2018 dal tribunale regionale di Porto Alegre a 12 anni di prigione. Questa sentenza appesantisce quella a nove anni che era stata pronunciata in prima istanza.

L’ex presidente del Brasile di nuovo candidato è accusato di corruzione. Tuttavia, tenuto conto della debolezza anzi inesistenza di prove presentate dall’accusa nel corso del processo, è chiaro agli occhi di qualunque osservatore che si tratta di una manovra per impedirgli di diventare di nuovo presidente. Lo stesso processo è intaccato da molte irregolarità. Giuristi di diversi paesi hanno puntato il dito. Delle “confessioni” di testimoni o di coimputati sono state scambiate con ricompense. La connivenza fra giudici di prima e di seconda istanza era visibilmente esposta sotto gli occhi del pubblico. Alcuni fatti che la sentenza cerca di dimostrare sono addirittura incompatibili con l’oggetto stesso dell’accusa portata contro Lula. Questo “processo” ben illustra il nuovo metodo del “colpo di Stato istituzionale”.

Come ho detto, prima di Lula è stata Dilma Rousseff, presidente del Brasile fino al 2016, che ne ha fatto le spese. Anche lei era, come Lula, espressione del Partito dei lavoratori/PT ed era stata eletta due volte, nel 2010 e nel 2014. Ma la presidente è stata destituita nel 2016 dal Senato, dominato dalla destra reazionaria. I cospiratori avevano allora preso a pretesto lo scandalo di corruzione che scuoteva la società brasiliana a causa della prossimità fra la compagnia petrolifera nazionale, Petrobras, e il mondo politico. Un pretesto totalmente fallace e che rende la procedura illegale dal momento che Dilma Rousseff non è implicata in questa faccenda. Viceversa, colui che è asceso al potere a seguito del colpo di Stato, Michel Temer, è stato qualche mese dopo accusato di corruzione proprio in quel processo! Naturalmente in questo caso il Parlamento in cui siedono i suoi amici ha votato a maggioranza l’immunità e ha rifiutato l’autorizzazione a procedere.

In ogni modo, attraverso questo metodo dal 2016 la destra revanscista e pro statunitense in Brasile occupa il potere senza essere per questo stata eletta.  È per rispondere a questa situazione che Lula ha deciso di ritornare in prima linea e di presentarsi alle prossime elezioni presidenziali che avranno luogo in ottobre. I sondaggi lo danno vincitore. Da qui l’urgenza per l’oligarchia e gli Usa di impedirlo. Lula tuttavia continuerà la sua campagna. Un ricorso davanti al Tribunale supremo federale è stato depositato. E Lula farà campagna, foss’ anche dalla prigione.

Il caso di Lua è importante. È una battaglia decisiva per contenere il tentativo di generale ripresa in mano dei governi dell’America Latina da parte degli Usa. Perché, come ho già detto, il Brasile non è il solo paese colpito dal metodo del “colpo di Stato istituzionale”.

In Honduras l’opposizione popolare si è fatta rubare la sua vittoria alle elezioni dello scorso novembre. Infatti, nel corso del conteggio dei voti, il vantaggio del suo candidato, Nasralla, si configurava tanto che il tribunale elettorale dichiarava “un risultato irreversibile”. A quel punto una opportuna interruzione dei computer impediva di caricare il 30% dei rimanenti risultati ancora da conteggiare. Il potere in carica inviava allora l’esercito a cercare e scortare le urne. Dopo quattro (4) giorni di silenzio sull’evoluzione dei risultati, veniva dichiarata la vittoria del presidente di destra, Hernandez, con un vantaggio dello 0,1% su Nasralla. È bene ricordare che Hernandez è egli stesso uscito da un colpo di Stato compiuto nel 2009 dalle forze armate. L’allora presidente Manuel Zelaya aveva voluto convocare una Assemblea costituente.

In Equador il successore di Rafael Correa, eletto come suo erede e con il suo appoggio, Lenin Moreno, si è lui stesso incaricato di tradire e riallineare il suo paese con gli Stati Uniti. Governa insieme alla destra, applicando politiche contro le quali Rafael Correa era stato portato al potere dal popolo ecuadoriano. E contro le quali lui stesso era stato eletto. Gi osservatori sono rimasti costernati per il suo voltafaccia. Si è allineato improvvisamente e in modo così grossolano e brutale sugli interessi statunitensi che ci si può domandare si è realmente libero nelle sue decisioni.

Anche lì le forme giuridiche sono chiamate alla riscossa per legare l’avversario. Moreno dunque ha convocato un referendum il cui solo obiettivo è impedire a Correa di ripresentarsi contro di lui. La battaglia imperversa. Passa in buona parte attraverso le aule dei tribunali. Il 17 gennaio 2018 il Comitato nazionale elettorale ha respinto la registrazione ufficiale del nuovo partito creato da Correa con il pretesto di “non rispetto dei regolamenti”. Quindi l’ex presidente a questo puto conduce una campagna attiva contro il referendum costituzionale convocato da Lenin Moreno per il 2 febbraio (e vinto da Moreno stesso) con il movimento “Rivoluzione cittadina”. In una recente intervista al giornale spagnolo El Mondo anche Correa definiva la situazione in Equador dome tentativo di “colpo di Stato”. Infatti, già prima di prendere di mira l’ex presidente Rafael Correa, il gruppo d Moreno aveva fatto arrestare il vice presidente eletto insieme a Moreno stesso per “corruzione”. Si capisce quindi che questo assalto mira ad una vittoria per KO.

La congiunzione fra la reazione e il ricorso a forme istituzionali per travestire i colpi di forza si diffonde adattandosi a ciascun paese. Ma la firma operativa è dovunque la stessa. In Argentina Cristina Kirchner è anch’essa colpita dallo stesso tipo di accusa con lo stesso obiettivo di impedirle di ripresentarsi. Conto tuttavia di riceverla a breve a Parigi, se il giudice la lascia uscire dall’Argentina. Perché so che l’onda democratica del precedente decennio non si è esaurita nel continente. Anzi. Certo degli osservatori superficiali applicano schemi di analisi euro centrati. Secondo loro, l’alternanza è inevitabile come qualunque altro ciclo della natura. È lo sguardo che hanno già applicato all’Europa a dispetto di tutte le complesse smentite che i fatti hanno loro opposto. …

La tecnica del colpo di Stato istituzionale è il complemento indispensabile del colpo di Stato sociale che si scatena in tutti paesi in cui esiste uno stato sociale, pur poco sviluppato. In Francia si osserva questo fenomeno in versione soft, ma ciò nonostante netta. Il potere esecutivo cerca in ogni possibile modo di rafforzare il suo ruolo. La riforma istituzionale annunciata prevede infatti un ulteriore indebolimento del potere legislativo a favore dell’esecutivo. Questo indurimento passerà attraverso una ventilazione delle istituzioni politiche. In realtà si tratterà di un supplementare accerchiamento per chiuder la volontà popolare in un sistema rappresentativo sempre più bloccato dal lucchetto della predominanza presidenziale. Con sorriso acido è quello che si chiama “dittamolle”. Parola che ci giunge dall’America del Sud dove alla “dictadura” si oppone la “dictadulce”. Fra le due, la frontiera si passa più in fretta che fra dittatura e democrazia, come si è appena visto in Honduras.

(Fonte: 3 febbraio 2018, blog di Jean Luc Mélenchon L’ère du peuple; https://melenchon.fr/2018/02/03/lula-et-nous/Si ricorda che Mélenchon è stato candidato alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del 2017 per il movimento  La France Insoumise sfiorando il 20% dei consensi. Traduzione di Teresa Isenburg)

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