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Care/i, compagne/i,

Riapriamo oggi uno spazio riservato alla discussione interna del e sul partito e la fase politica che vive il paese. Riteniamo opportuno che si sviluppi il dibattito in forme diverse da quelle tipiche dell’epoca dei social network in cui spesso si producono fraintendimenti e polemiche infinite, spesso distruttive invece che riflessione collettiva e scambio fecondo di analisi e proposte.

Il nostro proposito di essere “collante” fra tutte le forme di opposizioni antiliberiste, anticapitaliste realmente ecologiste, femministe e antirazziste, alternative ai poli esistenti, ribadito al Congresso, necessitano di queste elaborazioni. Su queste solide basi ci proponiamo di rilanciare il progetto della Rifondazione Comunista. In tal senso un Congresso che ha avuto il pregio di essere finalmente unitario, rende ancora più importante l’esistenza di uno spazio permanente di confronto.

Uno spazio in cui evidenziare criticità che si incontrano ma anche si avanzino soluzioni e avanzando proposte, evitando di far diventare la discussione un proseguo inutile di quanto si legge ogni giorno sui social network. In questo spazio le compagne e i compagni debbono trovare il luogo in cui articolare il proprio pensiero, i propri dubbi, le proprie analisi, per provare a rafforzare l’azione politica del partito tutto.

Da ultimo alcune avvertenze: si chiede di mantenere la lunghezza dei contributi nell’ambito delle 4000 battute, spazi inclusi, non si tratta di un vincolo ma di un suggerimento affinché si venga letti fino in fondo.

Chi curerà questo spazio cercherà nei limiti del possibile, di provvedere nei tempi più rapidi alla pubblicazione ma si tenga conto che a volte la pubblicazione avverrà qualche giorno dopo l’invio.

I pezzi vanno inviati a stefano.galieni@rifondazione.it

Ci auguriamo che questa opportunità venga colta ed utilizzata per favorire una migliore comunicazione e circolazione orizzontale delle idee e delle esperienze tra i territori, il nostro corpo militante e nei gruppi dirigenti.

Buon lavoro


DIBATTITO / Cosa ci stiamo a fare

Pubblicato il 24 giu 2018 in dibattito

Frank Ferlisi

Nelle nostre discussioni, spesso e volentieri, ci dimentichiamo di un particolare non secondario e cioè che il movimento operaio, in tutte le sue varianti (rivoluzionaria, riformista, filo-borghese) ha conosciuto negli ultimi trent’anni una sconfitta globale in quanto il mondo del lavoro è stato scompaginato, frammentato, disperso attraverso chiusure, ridimensionamenti, delocalizzazioni, privatizzazioni, precarizzazione, contenimento feroce dei salari, evaporazione dei diritti, creazione di nuove e originali figure lavorative assolutamente senza alcuna protezione. La classe operaia sul pianeta è divenuta più consistente, ma dall’occidente è stata trasferita a oriente dove abbiamo assistito a uno straordinario sviluppo delle forze produttive (Cina, India, Bangladesh, Indonesia, etc.) seppure con investimenti scarsissimi nella tecnologia e nella sicurezza e con un costo della manodopera bassissimo. E’ chiaro che in tale quadro partiti di sinistra e sindacati siano stati terribilmente strapazzati.

In Italia abbiamo avuto la disgrazia che il Partito comunista ha cambiato nome e col tempo natura, schierandosi con la borghesia finanziaria e facendo da cane da guardia dei trattati europei nel nostro paese. Questa scelta di classe non è stata mai chiara a tutti tanto è vero che sul rapporto col centrosinistra si sono accumulate sconfitte, scissioni, abbandoni. E si continua imperterriti su questa strada se una parte della Sinistra si allea con chi pensa che vi è stato nel nostro paese un centrosinistra “buono” contrapposto a una destra “cattivissima” guidata da Berlusconi. Che il padrone di Mediaset non fosse amico nostro, è chiaro, ma dovrebbe risultare, specialmente oggi, dopo i governi a guida Renzi, che anche il centrosinistra non poteva che essere considerato un avversario pericoloso per le lavoratrici e i lavoratori. In perfetta continuità con Clinton e Blair.

Quindi siamo a terra e il risultato elettorale di Potere al popolo alle elezioni del 4 marzo ne è una dimostrazione plastica (1,13%). Ma non è solo una débâcle politica, ma anche culturale, etica e morale. La nostra cultura si è ammutolita, i nostri valori appaiono evaporati in favore di teorie e modi di pensare inimmaginabili negli anni settanta: razzismo, sciovinismo e altre amenità che saranno pure il prodotto delle paure e delle incertezze riguardo il futuro, ma sempre terribilmente in contrasto con le nostre idee. E l’isolamento ha prodotto, nel mondo, terribilmente ridotto, della Sinistra, una accentuazione del minoritarismo, del settarismo e dell’ideologismo che piuttosto che aiutarci nell’analisi del conflitto di classe in atto, ce lo occultano. Non solo, ma non pochi di noi si sono fatti influenzare da teorie grilline tipo la “sporcizia” della politica e la dannosità dei partiti.

Quelli della mia generazione, che forse si erano illusi cinquant’anni fa di essere lì lì per vedere sorgere il sol dell’avvenire, concluderanno la loro esistenza da sconfitti, almeno sul piano politico.

Questo è lo stato dell’arte. Ci piaccia o no.

Che fare? Intanto Rifondazione comunista deve continuare a esistere e a essere un soggetto politico con un suo Discorso e una sua organizzazione. Perché Potere al popolo è una grande opportunità, ma recando in sé i difettacci di cui sopra potrebbe anche non farcela. A oggi mi appare un po’ troppo “praticona” senza che si ponga il problema di capire in profondità la struttura del capitalismo italiano e allora giù a fare mutualismo, cortei, manifestazioni e quant’altro ossessionati dal fare, ma poco propensi a capire. Così facendo, rischiano di chiudersi in un recinto lontano dalle sofferenze sociali del mondo del lavoro e del non lavoro. O incapaci di coinvolgere larghe masse di lavoratrici e lavoratori nella battaglia politica e sociale da cui, oggi, appaiono lontani.

Solo Rifondazione appare, pur con tanti limiti, anche troppi, capace di sviluppare analisi, suscitare dibattito, elaborare ipotesi di lavoro, strutturare interventi di carattere politico e sociale, mobilitare risorse, anche se modeste. Insomma, Rifondazione è un partito, forse un’ombra di partito, ma lo è. Deve cambiare; questo è certo, ma non siamo a zero. Sento spesso da coloro che esprimono grandi perplessità verso Pap che occorre rafforzare il Partito. Benissimo; concordo, ma mica esprimono ipotesi di lavoro, indicano percorsi, etc. E’ un desiderio, ma non ci aiuta ad andare lontano.

Provo a dare io qualche indicazione che possa servire ad aprire una discussione. Intanto la Conferenza d’organizzazione deve prendere atto del nostro ridimensionamento numerico e ripensare una forma organizzativa più adeguata alle nostre forze reali ma che non inibisca la capacità d’intervento nel mondo del lavoro e nel territorio. E poi la Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori che non solo deve essere un momento di analisi –che pur ci vuole- ma non perdersi nel tifo verso le sigle sindacali che sono tutte col sedere per terra e magari qualcuno, in tale contesto, si è accomodato e qualcun altro si è pure venduto. Occorre rilanciare la nostra presenza in fabbrica e nelle aziende sul piano politico, culturale, organizzativo. Come? Rilanciando i “consigli di fabbrica” di Lenin e Gramsci. Non si tratta di farne degli organismi sindacali al posto delle Rsu, che sarebbe l’ideale, ma mancano assolutamente le condizioni per proporlo. Si tratta di aggregare gruppi di lavoratrici e lavoratori, azienda per azienda, fabbrica per fabbrica, per stimolare, incalzare, criticare, anche insultare se necessario le sigle sindacali e le Rsu. Non solo, ma devono essere portatori di una visione politica, di una idea del mondo. Lo dico così: devono prefigurare il Socialismo.  Perché ha ragione Tronti quando scrive che la sconfitta all’est ha tra le sue radici il fatto che la classe operaia non si è fatta Stato che, purtroppo, nonostante i grandi propositi di Lenin, è rimasto in mano della burocrazia che, col tempo, ha subordinato i soviet. Quindi la classe deve farsi Stato e, nello stesso tempo, restare autonoma dallo Stato attraverso una sua istituzione (assemblea nazionale dei delegati di fabbrica e d’azienda) che agisce e legifera in parallelo e in concorrenza con l’istituzione della democrazia rappresentativa. Non è questa la sede per approfondire la questione, ma sarebbe necessario, a parere di chi scrive, incominciare ad affrontare seriamente la questione: cosa è il Socialismo, come si configura, come si realizza l’assunto che deve essere il mondo del lavoro a decidere cosa, quanto e come produrre. Altrimenti cosa ci stiamo a fare? Perché <<rifondazione comunista>>?  Solo attraverso l’elaborazione di un Progetto di transizione e di programmi specifici possiamo “fare partito” , costruire il partito, dargli una organizzazione adeguata. Che significa, per esempio, privilegiare l’intervento politico presso i posti di lavoro. Oggi non siamo utili alle lavoratrici e ai lavoratori né nel presente né per il futuro. Possiamo sperare di ritornare a esserlo solo con un duro lavoro di elaborazione e militanza attraverso linee guida condivise almeno dalla stragrande maggioranza degli iscritti.

E Potere al popolo? E’, da un lato, una opportunità, dall’altro, una necessità. Rompere l’isolamento e aggregare una militanza larga che, ci piaccia o no, non lega col partito come strumento in sé e con Rifondazione per gli errori commessi negli ultimi dieci, quindici anni. Ci sono tante compagne e tanti compagni, anche di giovane età, che vanno tenuti insieme, spinti ed educati alla politica attiva, alla riflessione su ciò che si fa. Non si possono perdere; non si devono perdere. E quando cadono nell’estremismo infantile o nel pressapochismo, si fa battaglia politica, anche aspra se necessario.

Credo che questi siano i nostri compiti.

DIBATTITO / Porte aperte al popolo di sinistra

Pubblicato il 24 giu 2018 in dibattito

Franco Cilenti

Noi come PRC lavoriamo da almeno un decennio alla costruzione di una unità della sinistra plurale, non per opportunismo elettorale o paura della nostra insufficienza organizzativa. Questo tortuoso cammino l’abbiamo fatto, e continueremo a farlo, perché questo è il nostro DNA culturale che ci porta ancora oggi a lavorare dentro quello che vorremmo fosse un movimento in itinere, aperto alle realtà e ai singoli della sinistra diffusa e dispersa in mille rivoli e diatribe che sui social non potranno mai trovare sintesi.

Ho sempre considerato ogni tentativo di costruzione unitaria come un laboratorio di lavoro politico per analizzare la grave patologia che rende inferma la sinistra antiliberista/anticapitalista e determinare un farmaco condiviso che permettesse di individuarne le problematiche prioritarie, tenendo conto, comunque, dei possibili effetti collaterali contro i quali abbiamo preventivamente proposto un vaccino “Stiamo insieme se concordiamo sull’ottanta per cento”. Mi riferisco a tutti i tentativi, dalla Sinistra Arcobaleno in poi, ovviamente con tutti i distinguo determinati dalle fasi politiche e dai soggetti promotori e partecipanti. Bene, mi pare che l’unica costante dentro questi laboratori, sconfitti dal punto di vista elettorale e quindi naufragati, sia stata la pretesa, dichiarata o meno, dello scioglimento del PRC tramite ipocrisie nascoste dietro mantelli unitari e vere e proprie pugnalate alla schiena, nonostante la nostra disponibilità piena e coerente dal punto di vista organizzativo, in primo luogo sui territori, lavoro di elaborazione e dispendio di energie del gruppo dirigente nazionale. Ho una lettura manichea del passato? Non credo, come non credo che la nostra attuale sofferenza dentro il percorso di PaP abbia motivazione diverse!

Non mi dilungo sulla nostra indispensabilità organizzativa e capacità politica resistente e propositiva ma pare evidente la fragilità della nostra alterità se nella sinistra, a destra e a manca, tutti lanciano petardi che nelle loro intenzioni si possono declinare come Opa per acquistare un terreno che loro giudicano come un “orticello che nulla conta più” tanto da permettersi l’arroganza, o l’infantilismo, che tutti noi abbiamo sentito nel “famoso” videoappello al voto della Carofalo in questa ultima tornata amministrativa.

Sarebbe ridicolo se non fosse tragico, per le sorti del percorso intrapreso dopo il “Brancaccio”, questo atteggiamento che non definirei politico ma semplicemente fuori dalla realtà dello stato di cose presenti. Quindi leggo questi comportamenti, esplicitati dalle piccole componenti in quasi tutti i territori, come un boicottaggio dell’idea originaria che ci ha portati come PRC a promuovere con l’ex OPG questo nuovo progetto. Un’idea e una pratica che noi dobbiamo continuare testardamente portare avanti per radicare la convinzione dell’utilità di PaP come laboratorio proponitore di un polo con le porte aperte a tutte/i quelle/i, organizzazioni e singoli, che oggi vagano altrove.

Mentre scrivo leggo una dichiarazione di Acerbo “Oggi a Napoli abbiamo fatto una bella discussione con Luigi de Magistris, Eleonora Forenza Viola Carofalo e tante/i altri su come costruire un’alternativa in questo paese. Forte sintonia tra noi. Credo che ne verranno buone cose.” Bene, resta comunque urgente, per dare concretezza alle intenzioni dei nostri interlocutori e compagni di strada, un altro agire nelle relazioni e nelle iniziative di militanza che sono l’unica verifica realistica dello stato del progetto. Senza illudersi che questa verifica la possiamo avere sui social e dalla “democrazia” digitale.

 

DIBATTITO / La radicalità non è settarismo

Pubblicato il 22 giu 2018 in dibattito

Roberta Fantozzi

Credo sia tempo di aprire una discussione libera e pubblica su di noi, su Potere al Popolo, e sulle prospettive di quel polo della sinistra antiliberista e di alternativa che abbiamo detto essere un nostro obiettivo.

Avrei preferito che si aprisse uno spazio per un dibattito organizzato subito dopo le elezioni politiche. Un dibattito in cui le diverse posizioni potessero esprimersi in modo il più possibile sereno, diversamente dalle battute che si scambiano sui social,  e per questo in grado di dare spazio a riflessioni ed argomentazioni. Mi dispiace che così non sia avvenuto, ma in ogni caso è bene che quello spazio di discussione si sia, ora, aperto.

L’ultima  cosa che è successa è un brutto video, il messaggio pre-elettorale di PaP (che ho visto solo ieri) in cui si dice “ se andate al seggio del vostro Comune a votare, e Potere al Popolo non c’è, annullate la scheda..”.

Dunque a Pisa, o ad Ancona, o nelle tante realtà dove si sono presentate liste connotate inequivocabilmente per essere alternative a tutti i poli esistenti (la destra, il 5Stelle, il PD)  in nome dell’uguaglianza e del contrasto al liberismo, si sarebbe dovuto annullare la scheda. Lo stesso, in tutti quei luoghi in cui si sono presentate liste della sola Rifondazione che pure di PaP fa parte.

A questo si accoppia una valutazione iper positiva sugli esiti delle elezioni amministrative, non so dove discussa, ma che celebra il fatto che Potere al Popolo, “cresce”, “si rafforza, va avanti”, senza fare i conti con i tanti luoghi in cui non si sono presentate liste né di PaP né di sinistra alternativa, e senza neppure fare i conti con il fatto che ci sono realtà in cui magari si passa dal 9% delle elezioni del 2013 (ovviamente per liste di sinistra, non esistendo PaP) al 2% del 10 giugno, e pure omettendo i luoghi in cui ci sono arretramenti vistosi rispetto allo stesso voto delle politiche.

Non mi piace scrivere queste cose, non mi piace perché sono consapevole che c’è da costruire e non da distruggere, e diversamente da quel che si dice in quel video, continuo a credere che la soluzione sia nel riconoscimento reciproco e nella valorizzazione dei diversi percorsi, nel sapersi non autosufficienti e nel connettere tutto quel che di positivo c’è in campo: esperienze, pratiche, saperi, volontà di cambiamento.

Ma proprio qui sta il problema, e non da oggi. E c’entrano solo parzialmente i risultati elettorali.

L’appello iniziale delle compagne e dei compagni dell’Ex-Opg, dopo la brusca fine del percorso del Brancaccio, aveva molte caratteristiche condivisibili: parlava di una maggioranza della società non rappresentata, di percorsi di autorappresentazione e della ricostruzione di un rapporto tra impegno sociale e politica, tra conflitti e rappresentanza, esprimeva una generazione nuova che prendeva finalmente parola, e sapeva farlo persino con leggerezza.

Evocava per me la necessità di uno spazio ampio, di una soggettività capace di misurarsi con la ripoliticizzazione di una società impoverita e atomizzata per ricostruire  legami e relazioni sociali e insieme senso di sé, una soggettività capace di parole nette e allo stesso tempo inclusiva  per rappresentare quella maggioranza.

Non è stato così a mio avviso il percorso che ne è seguito: il rifiuto di votare su nome e simbolo della lista, come si era fatto ad esempio con l’esperienza di Altra Europa,  le forzature perché si arrivasse a una definizione tanto del simbolo quanto delle figure più rappresentative, escludendo ogni alternativa che non fosse internissima, una discussione successiva al risultato elettorale in cui in nome dell’ “entusiasmo” ogni riflessione anche solo vagamente critica diventava di fatto “disfattismo”, il rifiuto di relazionarsi con altri percorsi nella pretesa di essere in sostanza l’unico, la gestione del sito che avrebbe dovuto essere di tutti come proprietà esclusiva di alcuni, la selezione degli interlocutori ad esempio sul piano sindacale di fatto ristretta ad una organizzazione …

La costruzione di uno spazio e di una soggettività politica ampia sono diventate sempre di più evocazioni, a cui hanno corrisposto nei fatti logiche minoritarie e settarie, fino all’appello ad annullare in una cabina elettorale i percorsi di chi magari si è dato da fare per anni, per costruire partecipazione, conflitto, saperi diffusi, pratiche e cultura del cambiamento.  Percorsi da cancellare, perché non hanno accettato di  annullarsi, a tre mesi dal voto, e confluire nella pretesa totalitaria di “Potere al Popolo”.

Non ci sto. Non ci sto alle pretese totalitarie, non ci sto alla assenza di modalità laiche della discussione che non significano piangersi addosso ma che non significano neppure cancellare ogni critica e ogni possibile autocritica sotto l’obbligo dell’”entusiasmo”, non ci sto all’annullamento dei percorsi positivi, né alla delimitazione delle interlocuzioni quasi costruissimo una gabbia.

Non mi piace dire queste cose, ma le dico, perché non è questa la strada. Non è questa la strada per costruire la sinistra di alternativa, di cui c’è bisogno oggi più che mai, di fronte al governo Salvini- Di Maio, non è questa la strada per connettere i conflitti e ricostruire diritti sociali e del lavoro, né per provare ad invertire l’egemonia del discorso delle destre così pervasiva nella nostra società.

Non è questa la strada neppure per Rifondazione Comunista, che sa i propri limiti, ma sa anche di avere compagne e compagni, che hanno continuato ad agire assieme la radicalità di un punto di vista non allineato – né alla fine della storia né ad un sistema politico fatto apposta per cancellare ogni alternativa -  con la ricerca e le pratiche unitarie.

Non credo affatto che questo significhi buttare alle ortiche le relazioni che si sono costruite, perché continuo a pensare che ci sia bisogno di tutti, che insieme agli aspetti negativi ce ne siano di positivi, ma che vadano ridiscussi percorsi e modalità, certamente sì. Radicalità significa andare alla radice dei problemi, ed al settarismo non assomiglia neanche un po’.

 

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