Il valore della cultura non si misura al botteghino

Il valore della cultura non si misura al botteghino

Stefania Brai*

Puntuale come sempre con ogni governo di destra torna anche l’attacco al cinema italiano e alla cultura. Questa volta addirittura da Bruno Vespa che, in una trasmissione del servizio pubblico radiotelevisivo – e quindi con i soldi dello Stato – sembra sottintendere che il “complotto” contro il ministro Sangiuliano sia stato orchestrato dagli autori cinematografici “amici della sinistra” perché colpiti nei loro interessi.

Senza entrare qui nel merito del comportamento di un ministro dello Stato e del suo uso “maschile” del potere che gli derivava dal posto che occupava, è invece necessario ancora una volta rispondere nel merito delle argomentazioni e ribadire alcuni punti fermi. Rifondazione lo fa da più di trent’anni, ma oggi è forse più necessario che mai ripeterli.

Sarebbe intanto fin troppo facile rispondere che la maggior parte dei capolavori del cinema italiano sono andati male al botteghino. A cominciare da “La terra trema” di Luchino Visconti (che è quello stesso “Lucchini” di cui parlava la Santanché) che fu anche fischiato a Venezia. E ancora più facile ricordare che quei capolavori hanno segnato la storia del cinema italiano e del cinema mondiale e che grazie a quei capolavori il nostro cinema è studiato in tutto il mondo.

Così come è orami dimostrato da tutti gli studi di settore che ogni euro investito in cultura ne restituisce, sotto varie forme, almeno 3 allo Stato. L’Anac (l’Associazione nazionale degli autori cinematografici) già nel 2008 pubblicò un dossier in cui si dimostrava con dati e documenti come ogni euro investito nel cinema ne restituisse due allo Stato.

Ma il punto vero messo in discussione, e non solo dai fascisti e dalla destra al governo, è un altro: il ruolo dello Stato nella produzione culturale e artistica è quello di premiare le opere già premiate dal botteghino e quindi sostenere solo gli autori e le imprese che incassano e che sono già forti sul mercato? Oppure quello di sostenere, anzi di dare la possibilità stessa di nascere e di esistere a tutte quelle opere – cinematografiche, teatrali, musicali – che con i soli meccanismi di mercato non potrebbero mai vedere la luce? Sostenendo quindi le opere di qualità e i produttori indipendenti?

Inoltre forse bisognerebbe chiedersi come può un film incassare se esce – quando riesce a trovare una distribuzione – in una sala solo per due o tre giorni e in pochissime città? Non è compito dello Stato promuovere le opere che ha finanziato garantendo loro una effettiva visibilità?

Quello che serve è una riforma complessiva del cinema che torni a sostenere le opere e la cultura cinematografica invece di ridurle a merce come fanno le attuali leggi sul cinema.

Gregoretti proprio nella prefazione a quel dossier dell’Anac ha scritto: “… l’idolatria del mercato è, a mio giudizio, la peggiore minaccia per il cinema d’autore. Quel cinema che l’Anac ha sempre difeso e continuerà a difendere …. e che ha bisogno del sostegno pubblico, altrimenti non può vivere”.

Siamo ancora tutti d’accordo su questo? Siamo ancora tutti d’accordo che lo Stato deve sostenere il cinema “come mezzo di espressione artistica, di formazione culturale e di comunicazione sociale”?

Ora più che mai è necessario riprendere le battaglie in difesa di una produzione artistica liberata dal mercato e contro le politiche di questo governo, ma anche contro tutti i tentativi di mercificazione della cultura e dei saperi.

 

* responsabile nazionale cultura Prc/Se


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