I SOCIALISTI E LA GUERRA

I SOCIALISTI E LA GUERRA

Alberto Benzoni

Il socialismo, mondiale e italiano, è nato all’insegna del ripudio della guerra e della cultura della guerra.  Le sue date simbolo sono state il primo maggio ( data della repressione sanguinosa di uno sciopero) e, per quanto riguarda il parallelo processo di emancipazione femminile, la morte di oltre cento lavoratrici tessili chiuse, durante una serrata padronale, in un opificio poi divenuto preda delle fiamme.

 Si ricorda una tragedia sognando un mondo in questa non abbia a ripetersi mai più. E, per altro verso, si afferma il legame inscindibile tra socialismo e pace per opporsi con sempre maggiore efficacia ai ripetuti tentativi del Potere di dividerlo e ricacciarlo indietro con la violenza e la guerra.

Nell’esperienza italiana dietro ad ognuna di queste parole c’è un’immagine concreta.  Un’esperienza di vita vissuta. Una manifestazione pacifica o un eccidio proletario. Un imponibile di mano d’opera accettato o respinto. Il successo o il fallimento di uno sciopero. L’unione che porta con sé la libertà oppure la divisione foriera di sconfitta e di regressione. Lo sciopero per ottenere o quello per dimostrare.

E, come riflesso di queste esperienze, una sensibilità acutissima al mutamento del clima. Che porterà il socialismo italiano a cogliere prima di molti altri, dei seguaci di Bernstein come di quelli di Kautsky, i segni premonitori della tempesta che si avvicinava. Così da separarsi , in occasione della guerra di Libia, dai Bonomi e dai Bissolati che ritenevano che la missione del partito socialista non avesse più ragion d’essere. Così come, nel dopoguerra, da quanti sognavano di fare come in Russia in un contesto in cui le possibilità di successo di un movimento rivoluzionario erano pari a zero e il consenso per lo squadrismo fascista cresceva giorno dopo giorno. In un contesto in cui appariva ben chiara una cosa che, a ben vedere, non era  affatto scontata. E cioè il fatto che la cultura della guerra non era una conseguenza bensì una premessa per l’esplosione del conflitto vero e proprio e per il consenso iniziale da cui sarebbe stato accompagnato.

Un dato centrale, quest’ultimo, per capire la realtà di oggi. Dove, almeno, nella vecchia Europa e negli stessi Stati Uniti, nessuno vuole essere coinvolto direttamente in una guerra ma tutti ( o quasi) usano la cultura della guerra non solo per perpetuare i conflitti in corso o alimentare surrettiziamente nuovi razzismi ma anche per costruire schieramenti  e coprire subalternità ( Nato, europeismo, atlantismo) o, come in Italia ma non solo, per finalità di politica interna. Con l’obbiettivo di ridurre, in una regressione ormai senza limiti, i diritti collettivi e gli spazi stessi della democrazia; magari rendendoli inutili agli occhi stessi di chi intenda esercitarli.

 In questo universo  immaginato e immaginario, la stessa politica non è altro che una guerra condotta con altri mezzi e la moneta cattiva caccia invariabilmente la buona. Con la prevalenza pressoché automatica della menzogna sulla verità, dei commenti sulle notizie e delle veline sulle inchieste; e, in un quadro più ampio, delle contrapposizioni sul dialogo, del privato sul pubblico, dell’individuo sulla collettività, dell’egoismo  sulla solidarietà , della paura sulla speranza e del razzismo più bieco sulla conoscenza dell’Altro. Mentre il Progresso è servito in piccolissimi bicchierini di carta mentre la Regressione non sembra conoscere limiti.

Come reagire ? Come abbiamo brevemente ricordato, i socialisti di una volta e non solo in Italia avrebbero avvertito da subito l’avvicinarsi della tempesta, dal Kosovo alle guerre per la democrazia che hanno segnato, da subito, il nuovo secolo. Ma i loro mediocri epigoni, nella convinzione che il mondo nato dopo il I989 fosse il migliore dei mondi possibili e il legame tra capitalismo e democrazia acquisito una volta per sempre, hanno seguito passivamente la corrente fino a essere incapaci di tornare a riva.

Eccoli allora a esaltare la guerra in Ucraina come guerra per la democrazia. E a solidarizzare con Israele come proiezione dell’occidente contro la barbarie antisemita. Salvo a chiedere, quando la situazione sta precipitando, di non andare troppo oltre.

In questo quadro, e questa è l’unica conclusione possibile, qualsiasi recupero concreto del grande messaggio del passato è esistenzialmente legato  alla centralità dell’impegno per la pace. Prima ma soprattutto dopo l’appuntamento del prossimo mese di giugno. Un impegno che si incarna nella lista Pace, terra e dignità, con l’immagine della colomba.


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