Due ricordi di Franco Ottaviano

Due ricordi di Franco Ottaviano

Alcuni giorni fa è stato ricordato a Roma, in Campidoglio, Franco Ottaviano, importante dirigente del PCI e intellettuale di prestigio, recentemente venuto a mancare. Abbiamo ritenuto giusto scrivere a riguardo due ricordi complementari.

 

Ci ha lasciati il compagno Franco Ottaviano, conosciuto da tutti i compagni romani (e non solo), stimato e amato da tutti quanti lo hanno conosciuto. Franco è stato un comunista, sempre e anzitutto un comunista. La sua biografia politica coincide con quella della parte migliore della sua generazione: studente di Architettura e militante del ’68, abbandonò la vita accademica per divenire, sulle orme di Petroselli, prima funzionario di partito e successivamente parlamentare del Pci. Fu poi Direttore (l’ultimo) della scuola delle Frattocchie e dopo lo sciagurato soffocamento anche di quella esperienza dovuto allo scioglimento del Pci, diresse a Roma la Casa delle Culture, facendone un centro prezioso di apertura e discussione, che ci manca molto. Chi scrive ricorda la sua disponibilità costante, la sua pazienza rivoluzionaria, la sua capacità di ascolto che si coniugava sempre con la sua cultura profonda, e con la forza di una scelta comunista mai abbandonata né attenuata. Non c’era iniziativa di compagni/e che Franco non sostenesse o promuovesse, dai tentativi nostri più marginali e velleitari fino all’impegnativa proposta di Asor Rosa di una Camera di Consultazione della Sinistra di cui Franco fu la vera anima, una proposta che coinvolse in una memorabile assemblea diverse migliaia di compagni/e e decine di organizzazioni (oggi è facile dire che, senza la miopia settaria anche nostra, quella proposta sarebbe potuta diventare l’inizio di una vera risposta politica unitaria in alternativa alla nascita del PD). In molti libri Franco Ottaviano ha lasciato riflessioni storiche e teoriche sulla lotta politica a cui ha partecipato, ma la sua ultima impresa è un ricchissimo archivio della vita politica della Repubblica, che Franco ha costruito per anni con passione e con metodo, impegnando con la consueta generosità la sua persona e anche le sue personali sostanze. Un’impresa non deve finire con la sua morte, e questo è l’impegno che si assumono i suoi compagni e le sue compagne. Quelli/e di Rifondazione Comunista conserveranno per sempre memoria di lui, fatta di stima, di gratitudine e di affetto.

Raul Mordenti

 

Ho conosciuto Franco, molto prima di entrare in Rifondazione Comunista, quando uscì il suo “La rivoluzione nel labirinto” che ebbe il coraggio di venire a presentare in un centro di documentazione vicino ad Autonomia Operaia, Il Circolo Valerio Verbano. Quello, in due volumi, come tante delle sue opere, furono libri “scomodi” perché affrontavano una complessità che aveva ormai radici antiche e che non potevano essere tradotte in sintesi semplificanti. Mi resi conto di avere di fronte una figura complessa, da una parte il dirigente di un Partito che si andava estinguendo, dall’altra quella dell’intellettuale che si interrogava sul passato e sul presente, con gli occhi rivolti al futuro. Negli anni Novanta, forse orfano come lui di un’appartenenza, ci rintanammo nella Casa delle Culture – per entrambi il plurale era fondamentale – sia perché guardavamo con interesse alla scomposizione a sinistra auspicando una nuova ricomposizione fondata sull’oggi, sia perché vedevamo, forse in anticipo, la società italiana che cambiava, l’emergere di figure, provenienti da altri contesti culturali, che provano a decolonizzare il nostro triste presente. Fu un esperienza vivace e feconda, attraversata da tante splendide persone, alcune smarrite, altre che si sono affermate nei diversi campi di loro competenza. Nacque in quello spazio strappato all’incuria il gruppo “Scritti d’Africa” che coniugava l’agire di una molteplicità di persone in grado di porre uno sguardo diverso sul provincialismo italiano, con la dimensione globale che ormai faceva parte del presente e del futuro. Uno spazio che fu luogo, anche aspro, di confronto di incontro e persino di scontro, che poteva rappresentare una prospettiva di futuro. La miopia delle varie amministrazioni romane, impedì di proseguire il proprio lavoro a quella formidabile esperienza di produzione culturale che oggi sarebbe stata considerata di avanguardia. Posso affermare con certezza che Franco aveva compreso il futuro e cercava, con la sua tenacia, di trasmetterlo a noi, di fatto ancora o almeno in parte vincolati al passato. Chiusa quell’esperienza ci siamo incontrati raramente, ognuno preso dalla propria vita, dal proprio tentativo di trasmettere altro. Ne conserverò sempre il calore, l’onestà intellettuale, virtù assai rara di questi tempi e la determinazione sincera, profonda, che non si traduceva in affermazione dell’io ma nel tentativo di ricostruire spazi di “intellettuale collettivo”, legato in maniera concreta al presente, ai cambiamenti, refrattario alla staticità. Gli debbo molto e, a distanza di troppo tempo, ne sento una mancanza che non può restare malessere personale ma deve riprodursi in cultura comunista dell’XXI secolo. Lo debbo personalmente a Franco, lo dobbiamo, ognuna/o di noi alle tante e tanti che cercano ancora una strada.

Stefano Galieni

 

 


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