Sono contro la guerra, per un sindacalismo della vita

Sono contro la guerra, per un sindacalismo della vita

 

Alisa Del Re,

Festa Rossa, Giavera del Montello 15 settembre 2023

 

Vorrei prima di tutto chiarire la mia posizione rispetto alla guerra, come faccio ormai da tempo in molti interventi: sono contro la guerra, contro i confini, ma anche contro la pace sociale che ci viene imposta dalla guerra mentre ci troviamo in condizioni sociali, politiche ed economiche disastrose. Se la pace è la fine dei combattimenti che lascia intatto lo sfruttamento delle nostre vite e del nostro lavoro, l’oppressione patriarcale, il razzismo, non è una pace di cui posso accontentarmi, anche se reclamo la fine immediata della guerra.

Credo che il conflitto sociale sia fondamentale per modificare i rapporti esistenti tra i sessi e tra le classi e serva per immaginare un mondo radicalmente diverso. La guerra ripropone gli schemi di potere e di sopraffazione del più forte, mantiene esattamente la struttura esistente dei rapporti di forza e legittima una forma sempre più organizzata di violenza patriarcale. E tutto ciò a spese dei più deboli, le prime vittime.

Mi sembra necessario rivedere per noi (e soprattutto nell’educazione dei più giovani) il mito degli eroi, il mito nazionalista dovuto ad un revival di una cultura che ha riproposto rapporti di forza che è importante rendere obsoleti.

“Chi per la patria muor, vissuto è assai!”[1] No, è morto

 

Come vedo la guerra in Ucraina? E’ una tra le tante, ma la più vicina a noi e con esiti che hanno la possibilità di diventare disastrosi. In realtà quello che ci viene mostrato sono due eserciti che trucidano i civili, come ormai succede in tutte le guerre moderne. In Ucraina abbiamo già 500.000 morti, di questi i militari ucraini sono 70.000, non ho i dati dei militari russi, ma si può ben vedere la proporzione dei morti tra militari e civili. Il bilancio di 19 lunghi mesi di guerra in Ucraina a fronte di una situazione militare di sostanziale stallo è ogni giorno più pesante: oltre a centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini uccisi, vi sono 8 milioni gli ucraini registrati come rifugiati nei paesi europei e 5,4 milioni gli sfollati interni.

Il Vietnam costò agli americani 60.000 morti, l’Afghanistan 2.400, l’Iraq 4.500, ma in Ucraina sembra che gli “alleati” possano fare una guerra azzerando i costi umani, per interposti combattenti.

 

Non c’è pace e stabilità in Medio Oriente dopo le guerre d’Israele, dopo due guerre contro l’Iraq, dopo la distruzione della Siria. Non si sono assicurati all’Afghanistan democrazia e diritti umani dopo vent’anni di occupazione da parte degli Stati Uniti e degli alleati della Nato. Più vicino a noi, nei Balcani, non si è costruita la pace dopo l’intervento della Nato in Kosovo. La Bosnia è sempre a rischio di secessione. Confrontando le guerre nell’ex Jugoslavia e la guerra in Ucraina, vediamo che molti aspetti, strutturali e funzionali, queste guerre post-sovietiche appaiono simili, in particolare per le drammatiche conseguenze sulle popolazioni locali. Esse hanno prodotto un processo di costruzione nazionalista, hanno scatenato violenza a tutti i livelli, nazionalismi reciproci, dinamiche identitarie, militarizzazione e mascolinizzazione. Non sono paragonabili, invece, per quanto riguarda la loro dimensione. Infatti, le guerre nella ex Jugoslavia rimasero limitate all’ambito regionale e, nonostante lo sciagurato intervento NATO del 1999, non hanno rappresentato una minaccia per il resto del mondo, come accade oggi con la guerra in Ucraina.

 

Sulla base dell’esperienza di quanto è accaduto nel caso delle guerre nella ex Jugoslavia saremo di fronte al fatto di rispondere alla violenza con maggiore violenza escludendo qualsiasi altra opzione e questo continuerà anche dopo la fine del conflitto quando le politiche della ricostruzione seguiranno il modello liberale e aumenteranno la povertà, la corruzione, lo sfruttamento della terra, delle risorse e delle persone e non si costruirà né si sosterrà la pace. Per non parlare delle armi che sono affluite in Ucraina e che finiranno sul mercato nero, saranno rivendute in altre aree di conflitto e andranno ad incrementare l’escalation della violenza.

 

L’uso dell’uranio impoverito, le bombe a grappolo, i campi minati (ricordiamo dalle lezioni liceali di geografia: Ucraina granaio della Unione sovietica), le sostanze tossiche rilasciate dall’esplosione di missili, la distruzione di edifici, i veicoli militari abbandonati, le infrastrutture distrutte, i depositi di carburanti e le sostanze chimiche disperse nell’atmosfera e nelle acque e ormai penetrate nei suoli e nei terreni agricoli rendendoli infertili per decine/centinaia di anni a venire, delineano ormai un quadro di desolazione in cui l’umano fa fatica a sopravvivere.

Solo nei primi 8 mesi di guerra, l’impiego totale di carburante (da parte di entrambe le parti in campo) ha generato 6,37 milioni di tonnellate di gas CO2. Per fare un confronto, il totale delle emissioni dell’Unione Europea nel 2019 ammontava a poco più di 4 milioni di tonnellate.

Scrive l’Ispettorato ucraino per l’ambiente il 18 febbraio scorso che circa 48.500 miliardi di euro i danni ambientali sono stati causati finora dalle ostilità:

«Più di 280.000 m2 di terreno sono stati contaminati da sostanze pericolose; circa 14 km2 di territorio sono disseminati di resti di oggetti distrutti e munizioni esplose; 687.000 tonnellate di prodotti petroliferi sono bruciate a causa dei bombardamenti, inquinando l’aria con sostanze pericolose; più di 59.000 ettari di foreste e di altre aree agricole sono stati bruciati da razzi e granate; alcune di queste zone avranno bisogno di decenni (secondo i calcoli più ottimistici) per essere ripristinati, mentre il resto è perso per sempre; 1.597 tonnellate di sostanze inquinanti sono state rilasciate nei bacini idrici; 2.000.903 kg è il totale della massa di rifiuti che hanno raggiunto i bacini idrici».

In Ucraina, l’esercito russo ha distrutto l’unica banca di piante genetiche. È la banca dei semi, che ha una lunga storia, è sopravvissuta anche durante l’occupazione tedesca, è sopravvissuta a Hitler, ma non è sopravvissuta all’esercito russo.

E’ certo che nessuna forma di riparazione potrà porre rimedio alle estinzioni delle forme di vita e ai danni degli ecosistemi che, una volta distrutti, non ritorneranno mai più al loro stato originario

 

Su questo si innesta un colossale business della ricostruzione, perché è già chiaro che sarà l’Occidente a gestirlo e che la Cina rimarrà fuori. La Banca Mondiale ha stimato che serviranno 411 miliardi di dollari in dieci anni, il governo Zelensky ha buttato lì 750 miliardi, ma sono cifre che andranno riviste al rialzo. Già oggi amici ucraini mi dicono che appena un edificio viene distrutto è subito ricostruito: i soldi ci sono, è il gran mercato della guerra, oltre a quello delle armi.

 

La guerra nell’imaginario è pensata al maschile, è subita dalle donne, e questa condizione del subire gli andamenti, le distruzioni, gli insulti ai corpi inermi da parte dei guerrieri (assieme alla “popolazione civile” contrapposta ai soldati) è considerata un “effetto collaterale”, compresi gli stupri. Ma i disertori dalla guerra ci sono. In questa guerra nella vicina Ucraina disertano i giovani russi che non vogliono andare a morire, disertano (ma se ne sa meno ed è più difficile) anche i giovani ucraini. Giorgia Audiello in Lindipendente.online 8 febbraio 23 scrive che sempre più soldati ucraini si stanno ribellando alla legge, voluta dal presidente Zelensky ed entrata in vigore a gennaio, che prevede il rafforzamento delle pene del personale militare in caso di diserzione, inosservanza o critiche agli ordini: così oltre 25.000 militari ucraini hanno sottoscritto una petizione contro questa legge (L. 8271). Tutto ciò segnala che c’è un problema.

In Russia, secondo quanto riportato da diverse testate internazionali, a seguito della proclamazione da parte di Vladimir Putin della mobilitazione, molti giovani hanno cercato di abbandonare il paese con ogni mezzo. Sul tema i paesi europei si muovono in ordine sparso e se i governi di Estonia e Lettonia hanno deciso di impedire ai cittadini russi di entrare, il governo tedesco ha dichiarato “benvenuti” i disertori russi.

Le donne non disertano, scappano oltre i confini, ma la loro non è considerata diserzione: legata alla concezione esclusivamente riproduttiva della loro esistenza, l’espatriare delle donne è considerato salvezza della specie.

Esse nei loro comportamenti rappresentano l’istinto antieroico di sopravvivere. Non mi sono scandalizzata quando una donna ucraina che viveva in una cantina perché senza più casa, intervistata da Francesca Mannocchi, ha detto: “non mi interessa se quando uscirò da qui ci saranno russi o ucraini, purché la guerra finisca”.

Nel Corriere della sera dell’11 settembre 23, Marta Serafini racconta di Liuba e di molte altre donne ucraine che si muovono avanti e indietro dalla Russia, superando il muro della guerra. Lo fanno per affari o motivi di famiglia, ci mettono oltre 24 ore per attraversare i confini, che per la loro vita e le loro relazioni non hanno senso di esistere.

Il fatto che agli uomini tra i diciotto e i sessant’anni sia vietato andare all’estero spiega perché il 68 per cento dei profughi ucraini – in totale sei milioni di persone – sia formato da donne e perché la ripresa del paese sarebbe molto più difficile senza il loro ritorno.

Il governo di Kiev sta pensando a una serie d’incentivi per far tornare le donne, tra cui delle nuove misure che riducano il divario salariale con gli uomini e aiuti a fondo perduto per chi ha il marito al fronte e vuole avviare un’attività economica. L’obiettivo non sarà facile da raggiungere: da un sondaggio condotto a luglio su settemila profughi ucraini in Germania è emerso che il 44 per cento vuole restare nel paese per qualche anno e cercarsi un lavoro.

E questo anche se le donne ucraine nella democratica Europa hanno trovato solo la possibilità di lavorare come badanti, lavoratrici sessuali, stagionali, oppure nel settore dei servizi, notoriamente il settore lavorativo meno pagato e spesso salariato al nero.

Per correttezza bisogna comunque notare che nel mondo femminista ucraino la volontà di sostenere il paese con le armi è stata forte, forse prevalente, ma sono le voci non violente, messe a tacere, respinte o diffamate, quelle che alla fine salveranno le vite. Invece, nonostante la repressione che si è abbattuta sulle voci contrarie alla guerra, nel femminismo russo sono prevalse forme di protesta nonviolente, proteste delle donne, delle femministe del FAR (Feminist Resistance Against the War) e delle artiste.

 

Per concludere, anche se la guerra vincola le aspettative, le arruola nei suoi schemi e soprattutto le abbassa al minimo, noi ci troviamo di fronte a situazioni di lotta che ci pongono serie riflessioni sul che fare.

Abbiamo visto la rabbia degli scioperi francesi contro una vita interamente messa al lavoro e di quelli inglesi e tedeschi contro l’inflazione a due cifre. Vi sono scioperi femministi e transfemministi che combattono ostinatamente la violenza maschile del patriarcato (e un pensiero va alle donne iraniane che mettono in gioco la loro vita per viverla senza compromessi) e azioni ecologiste che contestano un capitalismo che sta portando il pianeta al collasso.

Negli Stati Uniti ci sono scioperi dei metalmeccanici e degli attori del comparto cinematografico.

E, ancora, ci sono i migranti che lottano ogni giorno per mettere piede in Europa, per un permesso di soggiorno e non accettano di essere classificati, ammessi o respinti, sulla base del colore della loro pelle o della loro utilità. E poi ci sono coloro, in Ucraina come in Russia, che non vogliono vedere il proprio futuro ridotto in macerie.

Come catalizzare queste lotte? Come trasformarle in un progetto politico nonostante la guerra? Come affrontare una violenza di genere sistemica, che non può essere gestita con misure penali? Come trattare la questione delle nuove generazioni, senza passare per decretazioni di pene repressive dopo anni di retoriche sulle difficoltà psicologiche derivate dal Covid? Come far fronte alla questione ecologica, evitando la repressione degli attivisti del clima e accettando le loro proposte e analisi?

Dobbiamo smarcarci dall’alternativa tra il discorso securitario e quello umanitario con cui l’EU si definisce nella cornice della guerra. Rovesciare questo blocco significa guardare al modo in cui la guerra è diventata parte del governo razzista dei movimenti del lavoro migrante, essenziale per la riorganizzazione della produzione e riproduzione sociale dopo la pandemia, significa affrontare un discorso sul reddito di autodeterminazione incondizionato e non accettare l’impoverimento in cui questa e altre guerre ci costringono a vivere.

Pensare alla pace come progetto di trasformazione è la sfida che abbiamo davanti, affinché possa aprire uno spazio di politicizzazione di condizioni altrimenti invisibili.

 

 



[1] Canzone: testo di Paolo Pola, musiche di Saverio Mercadante, 1826


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