UN MOMENTO CRUCIALE DEL MARXISMO ITALIANO: IL CONTRASTO TRA PANZIERI E TRONTI.

UN MOMENTO CRUCIALE DEL MARXISMO ITALIANO: IL CONTRASTO TRA PANZIERI E TRONTI.

di Rino Malinconico

 

Dopo i fatti di Piazza Statuto del luglio ‘62, si avviò all’interno del gruppo–rivista dei Quaderni Rossi un dibattito serrato, che via via assunse toni aspri e alla fine determinò la rottura. Nel giugno del 1963 la contrapposizione si esplicitò plasticamente con due editoriali sul terzo numero. Il primo, firmato direttamente Quaderni Rossi è da attribuire a Panzieri. In esso veniva colta la progressione in avanti della coscienza operaia, ma mettendone in risalto anche le parzialità. Poi, a proposito del ciclo di lotte aperto dalla stagione contrattuale del 1962, si metteva in guardia dai pericoli di un’interpretazione immediatista delle potenzialità rivoluzionarie:

Un aspetto importante nella situazione di oggi è nel pericolo di scambiare in modo immediato la «feroce» critica verso le organizzazioni implicita, e spesso esplicita, nei comportamenti operai, o il grado più alto di consapevolezza che vasti gruppi di operai rivelano delle condizioni politiche delle lotte a livello di capitalismo organizzato e pianificato, per una immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale, ignorando il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia. Una strategia operaia non può essere preparata dall’accumularsi di una serie di rifiuti frammentari, non collegati tra loro in un disegno politico unitario virgola ma soltanto idealmente unificati in uno schema interpretativo del funzionamento del capitalismo contemporaneo. In tal modo diviene indifferente se l’esigenza operaia di «trascendere» il contenuto delle singole rivendicazioni si manifesti in forma anarchizzante, o nel senso di predisporre una linea anticapitalistica globale, secondo una dinamica controllabile. Si rende quindi necessaria oggi un rapporto più stretto tra l’elaborazione teorica e l’intervento, lasciando cadere sul nascere ogni illusione che basti fornire la «teoria» alla «classe» perché questa si ritrovi l’arma necessaria e sufficiente per condurre la sua lotta politica.[i]

Il secondo editoriale, firmato da Mario Tronti rivendicava, di contro, il primato della spinta rivoluzionaria sulla stessa analisi del capitalismo, per cui “l’azione politica di classe degli operai può anche non avere più il problema del settarismo. È il pensiero operaio che deve essere settario: deve farsi parte cioè di un sistema organico di potere nuovo, organizzato in nuove forme rivoluzionarie. Non ci sono più illusioni possibili: al livello di un capitalismo sviluppato, non si può continuare a seguire la legge di movimento del capitale se non nell’organizzazione di una decisiva lotta di classe contro tutta la società capitalistica”. La conclusione è tranchant:

L’analisi marxista del capitalismo non andrà più avanti se non troverà una teoria operaia della rivoluzione. E questa non servirà a niente se non avrà da incarnarsi in reali forze materiali. E queste non esisteranno per la società se non quando verranno politicamente organizzate in classe contro di essa … La pazienza della ricerca e l’urgenza della risposta. Il vuoto teorico che sta in mezzo è un vuoto di organizzazione politica. C’è un diritto all’esperimento, che è l’unico praticamente da rivendicare … siamo costretti a saltare in avanti. Facciamo a meno delle mediazioni per odio all’opportunismo.[ii]

Ancora qualche mese e si formalizzò l’uscita dalla redazione di un gruppo piuttosto ampio, che diede vita a una nuova rivista mensile, a partire dal gennaio del 1964, con il nome di Classe operaia. La firmava, come direttore, lo stesso Tronti, che nel primo numero dichiarava senza mezzi termini:

Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio della lotta di classe operaia. A livello di capitale socialmente sviluppato, lo sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie, viene dopo di esse e ad esse deve far corrispondere il meccanismo politico della propria produzione.[iii]

Alcuni decenni dopo la scissione, Mario Tronti scriverà che quella separazione avvenne per ragioni eminentemente politiche, non sull’analisi del neocapitalismo o sulla centralità della figura operaia nella sua storia e nel suo stesso sviluppo. È vero che contraddittoriamente, e con una certa civetteria, ci terrà anche a dire che mentre Panzieri era un socialista – “non era un uomo di partito, era piuttosto un movimentista prima dei movimenti” – lui, Tronti, era un comunista: “Se per lui un riferimento possibile era a posizioni socialiste-rivoluzionarie e luxemburghiane, per me il riferimento certo era a posizioni bolsceviche e leniniane”;[iv] ma nel complesso non c’erano reali diversità di vedute sul piano teoretico:

Il dissenso qui era sull’analisi della fase. Il ‘62 aveva squarciato il velo di una storica arretratezza delle lotte in Italia. Adesso finalmente le forze sociali più avanzate stavano l’una di fronte all’altra … davanti ai cancelli di Mirafiori, della Spa di Stura, del Lingotto, delle Ferriere: 60.000 fuori, il padrone solo dentro. Raniero vedeva l’esplosione della fabbrica, ma non pensava che potesse sfondare nella società.[v]

La conclusione si presenta piuttosto amara: “Nel breve periodo aveva ragione lui. Nel periodo medio avevamo ragione noi. Sul lungo periodo avevamo torto tutti”. I limiti decisivi dell’impianto operaista erano iscritti infatti, per il Tronti che ne parlava a distanza di qualche decennio, nella incomprensione delle dinamiche del post-fordismo e nella sottovalutazione delle risorse interne al sistema capitalistico; il quale sistema, dopo aver scomposto il lavoro del singolo operaio scomponeva anche i legami sociali di classe, riproducendo “una ripresa in grande di egemonia culturale capitalistica”.[vi]

Al di là della impegnativa autocritica sull’insieme dell’esperienza operaista, si può convenire sulla ricostruzione trontiana della rottura interna a Quaderni Rossi, ed in particolare sul fatto che, almeno fino al 1962, non ci fosse alcuna distanza teoretica fra i ragionamenti di Panzieri e l’elaborazione di Tronti. I due, peraltro, lavorarono per un biennio davvero fianco a fianco, abbozzando anche un ambizioso schema di Tesi, poi rimasto tale, che esemplificava, quasi con la concisione degli epigrammi, taluni punti fondanti della cultura operaista nell’analisi del capitalismo e nello scontro sociale.[vii]

Tra le affermazioni più significative di quell’abbozzo ci sono il ripudio dei concetti puramente ideologici e la necessità della ripresa della centralità della fabbrica dentro la stessa critica dell’economia politica, in quanto essa rappresenterebbe l’unità reale di “economia, sociologia e politica”. Viene soprattutto affermato che lo sviluppo capitalistico “nel quale prende corpo la scienza borghese come razionalità generalizzata del sistema” trova il proprio limite nella “insubordinazione rivoluzionaria”; che però non è tale in ogni lotta specifica, ma solo in quelle che contengono i tratti propri nella proiezione rivoluzionaria, ovvero contenuti ‘generalizzabili’ e parallelamente ‘determinati’ rispetto alla società capitalistica. Si parla perciò della insubordinazione come “astrazione determinata”, e di conseguenza “sono da considerare come falsi problemi sia quello della distinzione tra analisi microeconomica e macroeconomica (o microsociologica e macrosociologica) e sia quello della separazione tra azione a breve e a lungo periodo. Il primo di questi falsi problemi è tipico del pensiero borghese, il secondo della prassi riformista, anche nella sua versione anarchica”.[viii]

E a proposito del punto dirimente su cui Tronti ancora sembra insistere decenni dopo, e cioè la scissione dei Quaderni Rossi come questione di agire o meno da effettivo partito rivoluzionario in rapporto alla nuova insorgenza operaia, lo schema del giugno 1962 affermava convintamente che la “costituzione della classe tutta fuori dal capitale non è superamento del partito, ma anzi condizione della sua fondazione. Nella prassi riformista che cerca di costruire la classe dentro il capitale il partito politico di classe non esiste”. E però la funzione del partito non doveva essere quella di prefigurare l’autogestione operaia nella società capitalistica, bensì di fondare l’autogestione dentro il processo rivoluzionario; di conseguenza, “come la classe si costituisce fuori del capitale, così il suo partito politico si costituisce fuori dello Stato borghese”.[ix]

Sempre a proposito del partito, si recuperavano da Marx, con indubbia efficacia, le tesi del superamento storico delle costruzioni politiche della fase rivoluzionaria, per cui il partito della classe operaia veniva chiamato ad essere “anche la cosciente organizzazione della sua propria estinzione”, così come “tratto caratteristico dello Stato operaio è il suo immediato processo di deperimento”. L’ultimo aspetto da annotare è il nesso strettissimo di “teoria e prassi”, nel senso che il lavoro politico dei Quaderni Rossi doveva programmaticamente escludere la contrapposizione dei due livelli, “quello della ricerca e quello dell’impegno pratico nelle lotte”.[x]

Che non ci fossero punti di divergenza neppure sulla questione (essenziale per Tronti) dell’autonomia operaia come dato di partenza delle contraddizioni sociali, ce lo conferma una lettera del maggio del ‘62 di Panzieri ad Asor Rosa. In essa il rivoluzionario romano chiariva con nettezza come i tratti della figura materiale dell’operaio collettivo non fossero “semplicemente celati nel grembo del capitale (per quanto questo stesso divenga collettivo e a suo modo autocosciente)”; erano invece “anticipati nelle lotte e in queste cresce la potenzialità unitaria e rivoluzionaria”. In altre parole, “non dalla pianificazione capitalistica nascono le nuove possibilità della rivoluzione, ma dall’anticipazione-rovesciamento operaio degli elementi decisivi della pianificazione capitalista”.[xi]

Fino a Piazza Statuto, in sostanza, non ci fu alcuna diversità di vedute tra Panzieri e Tronti; e la rottura dopo Piazza Statuto ebbe, come si è detto, caratteri essenzialmente politici. Ma quando la ricerca teorica si sviluppa sulla base di sollecitazioni che vengono dalle dinamiche sociali, è abbastanza inevitabile che si enucleino, quasi naturalmente, più corposi elementi di differenza teoretica dentro la difformità di opzione politica. E fu quello che progressivamente avvenne a proposito del nesso tra capitale e classe operaia.

Nella lettura più compiuta che ne darà Panzieri in Plusvalore e pianificazione, ma in realtà anche nei testi precedenti, la tesi è che si trattava di due realtà autonome l’una dall’altra, sia per genesi che per autoidentificazione. L’idea di fondo era che la modernità capitalistica fosse venuta avanti per linee dicotomiche, col capitale da un lato e la figura operaia dall’altro; ed anzi con una dicotomia che, nel suo stesso sviluppo, generava anche un irriducibile antagonismo.

Tuttavia, quella dicotomia tendeva poi ad attenuarsi quando si passava alla concreta fenomenologia dell’antagonismo. Pur senza convenire con le letture più o meno ufficiali del marxismo novecentesco, che volevano la classe operaia prendere origine dal movimento capitalistico della valorizzazione e seguirne contraddittoriamente l’evoluzione, per Panzieri restava pacifico che fosse comunque il livello del capitale a segnare i modi e i tempi dell’antagonismo. E tale specifica visione della contraddizione tra il capitale e la classe operaia aveva come conseguenza analitica e politica che i ‘contenuti socialisti’, anche quelli interni alla concreta e immediata lotta di classe, non scaturirebbero direttamente dalla “insubordinazione operaia”, bensì dal determinato stadio di sviluppo del capitalismo.[xii]

Per Tronti, invece, valeva esattamente il contrario. Anzi, non aveva senso neppure l’equivalenza ontologica tra la realtà del capitale e la realtà della classe operaia. Nella sua lettura era lo sviluppo capitalistico a dipendere linearmente dallo sviluppo operaio, che lo precederebbe costantemente sia sul piano logico che storico. Sarebbe, perciò, solo il lavoro vivo l’autentico soggetto del processo di costruzione non soltanto del conflitto sociale, ma dell’intera società capitalistica. Di più: la stessa storia del capitalismo non la si potrebbe mai comprendere senza partire dai movimenti materiali della forza lavoro, dalla sua soggettività fondante. La conseguenza politica era che la strategia del socialismo avrebbe acquistato vita in modo del tutto indipendente dal ciclo capitalistico e unicamente nel muoversi stesso della classe, nel suo rifiuto spontaneo del lavoro.

Questa diversità di impostazione si allargava, di fatto, alla questione della conoscenza. Per Panzieri lo studio della classe operaia, la famosa “inchiesta operaia”, costituiva una indispensabile premessa dell’intervento politico, ed anzi lo facilitava in quanto metteva in luce il livello reale della coscienza dei lavoratori. Esisterebbe, perciò, uno specifico spazio della conoscenza, in qualche modo separato dallo spazio dello scontro vero e proprio e dagli stessi processi di trasformazione. Persino sul piano temporale la conoscenza specifica dei rapporti sociali tenderebbe a collocarsi prima della loro trasformazione.

Di contro, per Tronti e Asor Rosa l’analisi della coscienza operaia si sovrappone linearmente alla concreta dinamica della sua trasformazione da coscienza immediata a coscienza storica. Ma poiché tale dinamica, nella logica degli operaisti, prenderebbe forma unicamente nella lotta, avverrà che soltanto agendo direttamente nel fuoco del conflitto si potrà realmente avanzare sul piano della conoscenza. Il paradosso è che in tal modo dovrebbe essere proprio Panzieri, con buona pace di Tronti, ad apparire “leninista”: costruendo il movimento conoscitivo in maniera non chiusa sul conflitto, ma con modalità sia interne che esterne alla classe concretamente in lotta, il movimento politico operaio tenderebbe a prendere forma reale esattamente nell’incontro del socialismo, ovvero della cultura socialista in senso lato, con il movimento spontaneo delle lotte.

Ma la questione, come è ovvio, non riguarda la fedeltà o meno a Lenin; tanto più che, nel caso di Panzieri (e in realtà anche di Tronti) si tratterebbe di un leninismo molto sui generis, poiché per entrambi non aveva alcun senso la subordinazione della classe al Partito, ed aveva invece grande valore proprio la spontaneità operaia. E, ad ogni modo, la separazione non significò, per nessuno dei due, una stasi della elaborazione; anzi, si può persino dire che funzionò da ‘rafforzativo teoretico’ in quanto costrinse a precisare da più lati l’impianto unitario dell’operaismo, ovvero quella originale “rivoluzione copernicana” che faceva del conflitto l’elemento preponderante dei processi storici e dello sviluppo capitalistico l’elemento subordinato.

 

NOTE



[i] “Piano capitalistico e classe operaia”, Quaderni Rossi, n. 3, Giugno 1963, pp. 5 – 6.

[ii] Cfr. M. Tronti, “Il piano del capitale”, Quaderni Rossi, n. 3, cit., p. 73.

[iii] Cfr. Editoriale “Lenin in Inghilterra”, in Classe operaia, n. 1, gennaio 1964.

[iv] Cfr. l’intervento di M. Tronti in AA. VV., Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, cit., p. 238 e p. 243. Una tale sottolineatura non sembra affatto rinviare a una semplice differenza di visione politica. Se il tema diventa quello della dicotomia tra spontaneità e direzione, tra autoorganizzazione e organizzazione, tra consigli e partito, è evidente che in gioco entrano molte questioni nettamente teoretiche. Ma, per avventurarsi in un simile cammino bisognerebbe accettare senza discussioni la lettura che il Tronti post-operaista dà di Panzieri, di se stesso, di Lenin, di Luxemburg, del comunismo e della politica in generale. Che non è tema da discutere in questa sede.

[v] Ibidem, p. 241.

[vi] Ibidem, p. 242.

[vii] Le “Tesi Panzieri-Tronti” sono state pubblicate con questo titolo da Dario Lanzardo, assieme ad altri inediti di Panzieri, nel numero speciale di Aut Aut del 1975. La stesura finale dello schema, frutto delle discussioni di alcuni mesi, è del giugno 1962, ed è di Panzieri.

[viii] Cfr. “Tesi Panzieri-Tronti”, in Aut Aut, cit., pp. 6 – 10.

[ix] Ibidem, p. 9.

[x] Ibidem, pp. 9 – 10.

[xi] Cfr. Aut Aut, nn. 149 -150, cit., p. 15.

[xii] Sandro Medici leggerà, in questa precisazione, una palese contraddizione con l’analisi panzieriana del neocapitalismo, che aveva individuato come principale soggetto storico dei rapporti sociali capitalistici non il capitale ma proprio il lavoro vivo; e può essere che abbia ragione, poiché in un pensiero complesso gli elementi di contraddizione sono pressoché inevitabile. Cfr. l’introduzione di S. Medici a R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Einaudi, Torino 1976 p. XXIX.


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