Lo Steccato di Cutro

Lo Steccato di Cutro

Stefano Galieni*
 

Pensarci a freddo è impossibile. Non passa quasi giorno che dal mare calabrese, da quella spiaggia bella, da quel mare turchese, non riaffiori quanto resta del corpo di una persona dispersa, troppo spesso bambini. I sopravvissuti chiedono inutilmente che si proseguano le ricerche in mare, che siano i sommozzatori a restituire almeno una salma su cui piangere, ma ottengono solo silenzio. Sono trascorse ormai più di tre settimana dalla strage della barca partita da Smirne in Turchia, col suo carico umano e, come i corpi, ogni giorno emergono frammenti di verità sullo svolgimento dei fatti. Lo scaricabarile continua. Nelle alte sfere ci si rimpallano le responsabilità ma elementi sempre più incontestabili sembrano comprovare che il cinismo della politica ha scelto di non obbedire alle leggi del mare, a non fare ciò che andava fatto. L’agghiacciante video, di pochi giorni fa, realizzato grazie ad Alarm Phone, l’associazione di volontari che raccoglie le segnalazioni di imbarcazioni in difficoltà è un manifesto politico dell’Italia di Piantedosi, Salvini e Meloni. Il gommone chiede aiuto, la Guardia costiera libica di Bengasi dichiara di non avere imbarcazioni per poter intervenire, si cerca l’intervento di quella italiana. Prima la risposta è che quella zona di mare è di competenza libica, poi di fronte alle notizie provenienti da Bengasi la risposta è “Grazie per l’informazione. Ciao”. Quando arriva il soccorso mediante uno dei mercantili, avvisati, il gommone si ribalta. 18 persone vengono raccolte, le altre risultano “disperse”. Un modo ipocrita per non dire affogate. Rivolgersi allora a Bruxelles? Da quanto risulta nella riunione del prossimo Consiglio europeo, non ci saranno nuovi atti significativi in merito all’immigrazione ma unicamente “una discussione” per aggiornare rispetto all’operato della Commissione europea e dalla Presidenza di turno svedese. Il 13 marzo, la portavoce della Commissione, Dana Spinant, rispondendo a domande dei giornalisti ha affermato che la presidente Ursula von der Leyen, vuole evitare ogni morte e a tale scopo la Commissione continuerà il sostegno europeo alla Libia “per stabilizzare la situazione e potenziare le loro capacità di gestione delle frontiere”. In pratica altre imbarcazioni alla cosiddetta Guardia costiera libica. Personalità importanti dei vertici di questa Guardia e persino del governo libico in carica, sono al centro di inchieste in quanto accusati di essere i veri boss del traffico di esseri umani, da anni, ma questo poco conta. Guai a chiamarli “scafisti”.

Un passo indietro e torniamo a Steccato di Cutro. L’11 marzo si è tenuta una manifestazione imponente nella piccola località dello Jonio. L’antirazzismo venuto da mezza Italia, le persone attive nelle ong, su cui tanto fango si continua a gettare, persone impegnate nel sindacato, nel terzo settore, nei movimenti, in alcune forze politiche, ma anche tanti volti di popolo calabrese indignato e carico di vergogna, quelli che ti fermano e ti dicono “a noi il governo non ci rappresenta”. È stata una lunga marcia di dolore, di rabbia e di denuncia a cui hanno partecipato anche alcune delle persone sopravvissute alla strage. Momenti toccanti ma non consolatori. Il simbolo della croce, portata in spalla da Mimmo Lucano, simbolo vivente di come la solidarietà è perseguitata, e costruita con i pezzi del relitto, era un pugno nello stomaco, il primo e neanche il più potente fra quelli giunti. Giunti davanti alla spiaggia si è formato un capannello, un cerchio affettivo che ha unito le persone. Alcune personalità se ne erano già andate, prese da altri impegni, altri preferivano osservare dall’alto di dune la scena. Ma in quel cerchio, in cui si sono mescolati canti e preghiere nelle lingue delle vittime, alle parole dei sopravvissuti, si è palesata una realtà forse nuova. Si sono alternate al microfono voci provenienti dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Siria e i messaggi non erano di pace. “Sono fuggito dai talebani e li ho ritrovati qui” ha affermato sommessamente un ragazzo che ha lasciato fra i flutti il fratellino di 6 anni che gli era stato affidato dalla madre e per cui non si dà pace. “Ringrazio voi che ci state vicini. Voi siete il popolo e soffrite con noi. Chi vi governa neanche ci aiuta a recuperare i nostri morti”. Giovane anche un altro, proveniente dalla Siria che, dopo aver intonato un canto in arabo di preghiera ha spiegato. “È una richiesta perché i nostri morti vadano in paradiso ma – ha aggiunto interrompendosi per il dolore – ho aggiunto una strofa, la richiesta che altri vadano all’inferno”. Le storie raccontate si sono incrociate raccontando un universo fitto di relazioni spezzate, di ferite che rimarranno aperte, di cinismo del potere e di affetto ricevuto dalle persone sconosciute giunte in spiaggia. Sono state lette lettere di bambini calabresi, profonde come mai le menti gelide che decidono nei palazzi saranno mai in grado di realizzare. Un pescatore che è riuscito a salvare alcuni naufraghi, si è avvicinato al microfono poi… non è riuscito a parlare, la morte vista da vicino toglie anche la possibilità di parlare.

I pensieri si affollano e, forse per cercare un varco nella tristezza e nella vergogna, provano ad andare oltre. Questa strage, che si ripeta è di Stato e forse premeditata, difficilmente troverà colpevoli. Oltre 40 associazioni hanno già presentato un esposto alla Procura della Repubblica perché si risponda a domande precise. Un altro esposto, che tenga conto delle novità che stanno emergendo, verrà presentato a breve da Rifondazione Comunista. E poi? Poi, forse più importante, si intravvede un segnale flebile. Il governo, con il suo stile comunicativo fascistoide e gelido, con la disgustosa protervia che ha portato ad accusare le vittime e i loro parenti come responsabili della strage, stavolta sembra aver commesso un errore non solo comunicativo.

Sembra esserci una inaspettata connessione sentimentale, un afflato emotivo fra le vittime, forse perché in gran parte bambini, forse perché perite a poche decine di metri dalla salvezza e il pensiero comune diffuso. Certo stampa e tv, tanto restie ad alzare il tiro quando al governo c’erano i Draghi, i Letta, i Gentiloni e i Monti, stavolta non si è tirata indietro nell’accusare il palazzo. Ma non si tratta solo di questo. Sembra quasi che tante persone, stanche di sentirsi raccontare idiozie in merito ad invasioni, sicurezza, presunti “buonismi” eccetera, cominci a comprendere che il malessere delle proprie condizioni di vita non abbia nulla a che fare con chi cerca salvezza sulle coste italiane. Come se anche, di fronte ai corpi di bambini, anche la cattiveria inutile abbia stufato, i balbettii patetici dei governanti risultino poco credibili e viziati da una propaganda tanto reiterata da palesarsi come menzogna. Paradossalmente potrebbe essere anche uno dei prodotti, non negativi dell’astensionismo alle urne, della noia con cui si seguono i talk show televisivi, dell’inutilità quando non della pericolosità dell’azione politica. L’indifferenza verso le istituzioni e il loro comportamento pare riempirsi attraverso il coinvolgimento emotivo per le vittime innocenti. C’è chi non si riconosce più nel veleno che ancora da alcuni quotidiani e da gelidi funzionari dello Stato, vengono propagati e sente più affini i volti dolenti di chi è sopravvissuto. Fosse vero e non un momento transeunte, ci si potrebbe augurare un salutare risveglio della coscienza collettiva, una parte di Paese che scopre di essere stato obnubilato – ed è avvenuto anche nel nostro mondo delle sinistre – dallo spettro di una falsa e inesistente “guerra fra poveri” e abbia scoperto, ad occhi aperti, che in realtà, da sempre la guerra che si combatte è contro i poveri, non solo quelli che arrivano da lontano.

La stessa grottesca difesa messa in atto per scongiurare tale risveglio appare confusa e sconclusionata. Il ministro della Difesa, in passato venditore di armi, Crosetto, ha annunciato, anche lui compiangendo i morti con lacrime di coccodrillo, che le responsabilità degli arrivi vanno addebitate ai mercenari russi del battaglione Wagner, che spingerebbero i migranti, come arma di ricatto verso l’Europa. Peccato che a Steccato di Cutro siano giunti afghani in fuga dal regime talebano tornati al potere anche con la compiacenza dei governi occidentali, dalla Siria dilaniata da 12 anni di guerra civile per cui non si è mai operato un tentativo di diplomazia. Quella Siria devastata dal sisma del 6 febbraio e invasa, nel nord, dalle truppe di Erdogan, ovvero da un Paese NATO. E poi dal Pakistan, paese soggetto a catastrofi naturali come non mai, dall’Iran in rivolta formalmente condannato ma con cui si continuano a fare buoni affari per restare in competizione commerciale con la Federazione Russa. Il battaglione Wagner, di cui nessuno prende certamente le difese, già additato anni fa da Salvini, poco o nulla a che fare con la scelta di fuggire verso l’Europa. Certo la sua presenza militare aumenta le tensioni ma le motivazioni basilari delle fughe sono, ci risulta, da altre parti. Dalla Tripolitania, (Piantedosi dixit) c’è il maggior numero di partenze. Il governo di Tripoli è quello finanziato e armato dall’UE e dall’Italia, quello in cui l’omologo libico del nostro ministro dell’Interno, Imad al Trabelsi, dopo essere transitato al Viminale il 21 febbraio scorso è stato fermato all’aeroporto di Parigi, sembra con 500 mila euro in valigia. Trattasi di persona già inquisita per il contrabbando di petrolio e da tempo sospettato di essere al centro della gestione del traffico di essere umani. E cosa c’entra Wagner in Tunisia, dove il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed, ha scatenato la “caccia al nero” dichiarando che “in Tunisia si sta tentando la sostituzione etnica (si copia il made in Italy) e causando tanto la fuga precipitosa di cittadini dell’Africa Sub Sahariana che nel paese rivierasco lavoravano, quanto quella di sindacalisti e oppositori al centro delle azioni repressive portate avanti, contemporaneamente, dall’esercito del Presidente. In Mali, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana e Sudan, la presenza del Wagner sembra comprovata, si è inserita nei conflitti interni, in particolare contro le forze jihadiste, ma da quei Paesi si fuggiva, si fugge e si continuerà a fuggire a prescindere. I mercenari russi sono presenti anche nell’est della Libia, nella Cirenaica del maresciallo Haftar, avversario del governo libico e ad oggi non al centro delle rotte migratorie. Fumo negli occhi quindi, come i numeri sparati sui quotidiani di coloro che si preparano a tentare di fuggire. Le missioni nei Paesi africani del Presidente del Consiglio Meloni, aventi lo scopo di fermare le partenze, premiando i governi che meglio controllano le frontiere e garantendo cooperazione in cambio di facilitazione nei rimpatri, somigliano ad un disco rotto. I governi non sono in grado di garantire tali richieste, le persone che non hanno nulla da perdere continueranno a cercare di bruciare le frontiere ben sapendo di mettere a rischio la vita. Il tentativo di esternalizzare le frontiere dei paesi africani va avanti da almeno 10 anni, vertice dopo vertice, non basta garantire soldi e motovedette alle mafie libiche, sovente complici o allo stesso tempo in grado di gestire ad alto livello il traffico di esseri umani. Non sono bastati i miliardi UE versati ad un governo apparentemente forte come quello turco, per fermare le persone, quanti ne occorrerebbero per sostenere almeno 20 Paesi dell’Africa settentrionale e Sub Sahariana? Non sono sufficienti gli illegali respingimenti collettivi praticati verso la Libia dal 2017 in poi, quasi 100 mila persone rimandate nei lager, non funziona neanche l’inibizione alle azioni di soccorso che provocano solo vittime, non ha sortito effetto eliminare gli assetti navali di Frontex, (agenzia europea che dovrebbe fermare l’immigrazione “illegale”) sostituendoli con droni e aerei che segnalano ai Paesi delle “zone SAR” corrispondenti (Search And Rescue) le barche da intercettare. Malta non interviene e la Libia lo fa soltanto se e quando le operazioni risultano convenienti. Non funziona neanche la criminalizzazione delle navi umanitarie delle ong che intervengono, mai metafora fu più appropriata, per salvare una goccia nel mare dell’indifferenza e della propaganda. E non funzionerà neanche l’ennesimo decreto proposto dal governo che non solo fa rientrare in scena il peggior Salvini ma che risulta, come il cinquantenne ministro dei Trasporti, pasticciato, illeggibile, cattivo, inutile e spesso inapplicabile. Una per tutte le attività che dovrebbero essere introdotte per informare, nei paesi di provenienza, dei rischi che si corrono a imbarcarsi e a mettersi nelle mani dei trafficanti. Il colonialismo si esprime anche riaffermando l’inferiorità dell’altro, al punto che anche l’ovvio va spiegato, perché si sa, “altrimenti, da soli, non capiscono”.

Soluzioni da proporre ce ne sarebbero, sarebbero meno onerose per gli Stati, garantirebbero meno vittime, meno denaro lordo di sangue per scafisti e i loro protettori in divisa, maggiore sicurezza per tutti. Ma si potrebbero realizzare avendo istituzioni europee e anche italiane radicalmente diverse, in grado di accettare la sfida degli ingressi sicuri, di veri corridoi umanitari, di accoglienza solidale cogestita a livello continentale. Nessuno sembra in grado di investire politicamente su queste soluzioni. Forse proprio per questo, l’indignazione e il dolore popolare per le vittime di Steccato di Cutro potrebbero segnare una timida inversione di tendenza. Sono vittime la cui responsabilità non può ricadere unicamente su questo governo se non si tiene conto degli elementi di continuità con i precedenti anche se apparentemente connotati in maniera diversa dal punto di vista politico. Il governo attuale ha fatto il salto di qualità, ha tolto ogni velo di ipocrisia, ha pensato di avere a che fare con un Paese ormai normalizzato al punto da tifare per i carnefici o quantomeno capace di restare indifferente.

Potrebbe, è presto per dirlo, essere accaduto qualcosa di nuovo. Sulla spiaggia di Steccato di Cutro, mentre eravamo raccolti ad ascoltare le voci di chi reagiva, giungeva una notizia. A poche centinaia di metri era stato rinvenuto il corpo di una bambina di 5 anni. Una frustata per chi era presente – ancora è impossibile avere un computo esatto dei “dispersi” – che laicamente ci ha fatto inginocchiare, non di fronte ad una divinità ma in nome e per conto di un altro delitto compiuto. In questi giorni a chi scrive è capitato, con stupore di sentire in treno, al bar, per strada, persone normali che commentavano con costernazione le altre notizie simili, che sembravano investite da autentico dolore, quello che non penetra nei palazzi del potere. Sguardi diversi, forse prepolitici, ma che non dobbiamo né possiamo ignorare. Riscoprire, anche da lontano, il dolore, è segnale di una società più viva di quella che ci viene propinata ogni giorno, più viva e che forse potrebbe scoprirsi meno sola.

*Resp. Nazionale immigrazione PRC-S.E. da https://transform-italia.it/


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