Stare, a testa alta, dall’altra parte

Stare, a testa alta, dall’altra parte

Stefano Galieni*
 

Le tracce restano, la storia non si cancella con un colpo di mano. Strappare manifesti, coprire o imbrattare murales, cercare di rimuovere le tracce di un passato recente e vitale, non può essere affidato né a magistrati, a prefetti zelanti, a leghisti in carriera destinati loro sì a finire nell’oblio. Neanche il revisionismo becero, da cui non sono immuni sedicenti progressisti che agitano posizioni viziate da un tristo giustizialismo che poco ha a che spartire con l’idea di giustizia. Ce se ne accorge arrivando a Riace, un tempo il “Paese dei Bronzi”, poi il “Modello dell’accoglienza” e che ora si vorrebbe rimandare nel dimenticatoio delle utopie da dimenticare. Ma è impossibile.
Riace superiore, il bel borgo a 300 mt di altezza sul Mar Jonio, è ormai indelebilmente segnato da una storia, quella dell’accoglienza, iniziata nel lontano 1998 e che continua a riaffermarsi, non solo come ipotesi di convivenza pacifica ma in quanto motore di sviluppo.
Mimmo Lucano, come è noto, fino a 5 anni fa considerato esempio di come l’accoglienza dei richiedenti asilo potesse divenire esempio di riscatto sociale in grado di affrontare tanto il trauma dell’esilio quanto la marginalità in cui sono costretti tanti paesi del nostro Sud, strangolati da criminalità e indifferenza. Poi governi e procure di diverso segno politico hanno deciso che quell’utopia andava rimossa in quanto platealmente capace di tradursi in messaggio politico. Guai a far immaginare che da esperienze di accoglienza integrata potessero nascere forme di vita economica e sociale alternative a quelle che vedono prevalere la logica del profitto. Guai a dimostrare che un utilizzo pubblico delle risorse dell’allora Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati), possa tradursi in ricchezza e benessere.
Una vittoria del genere, riconosciuta a livello internazionale, si traduce nella smentita clamorosa di false esperienze da terzo settore, di accoglienza emergenziale e in quanto tale priva di controllo e di prospettive, di accaparramento di beneficiari in funzione di arricchimento privato. Oggi ci si ricorda soltanto e con scarsa memoria “Mafia capitale”, le intercettazioni di criminali in cui si diceva che con gli immigrati si guadagna più che con l’eroina ma si potrebbe tornare indietro fino agli anni Novanta per rintracciare esempi di appropriazione indebita di denaro pubblico, da parte di enti privati pagati per mantenere persone già reduci da profondi traumi in oggetti parcheggiati, malnutriti e malvestiti, spesso anche mal curati, utili solo a garantire profitto. Mimmo Lucano, prima da fondatore dell’Associazione Città Futura e poi da sindaco, per tre mandati, del paesino calabrese, ha mostrato che si può cambiare paradigma. Basta anteporre alla logica liberista, imperante anche nell’accoglienza, quella del garantire prima i diritti delle persone, sia richiedenti asilo che operatrici e operatori. E mentre il borgo si ripopolava, le case rimaste vuote venivano ristrutturate, si riaprivano botteghe di antichi mestieri che creavano occupazione non solo ai rifugiati ma ai riacesi rimasti e a quelli che addirittura tornavano perché il paese riprendeva vita, c’era già chi lavorava per boicottare il meccanismo virtuoso realizzato. Dal 2017 sono iniziate ispezioni mirate e a tappeto, tentativi spesso smaccati di trovare il pelo nell’uovo per bloccare un progetto che già cominciava a trovare piccole imitazioni, non solo nel Sud e che veniva studiato come fenomeno mondiale.
Il resto è storia nota: indagini effettuate come se si trattasse di annientare una delle tante cosche di ‘ndrangheta che continuano ad affamare la Calabria, ricerca pedissequa di criticità, un documento di identità che non doveva essere rilasciato, la gestione, attraverso due asinelli della raccolta porta a porta dei rifiuti, fatture ritenute non correttamente compilate, intercettazioni di quelle che neanche si riservano ai boss mafiosi. E lo Stato, nella sua geometrica potenza, ha colpito. Il 2 ottobre 2018 viene messo agli arresti domiciliari per accuse che vanno dalla concussione, al peculato, al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, pochi giorni dopo il provvedimento viene revocato ma gli viene imposto di non dimorare a Riace. Costretto a dimettersi come sindaco è condannato in primo grado, il 30 settembre 2021 a 13 anni e due mesi di reclusione. Il PM aveva chiesto una pena molto più bassa ma il tribunale giudicante di Locri aveva deciso di sommare i capi di imputazione comminandogli una pena impensabile. Si attende la sentenza di appello, la richiesta è di 10 anni e 5 mesi, entro la primavera il tribunale si dovrà pronunciare.
Domenica 26 febbraio, a seguito di un appello firmato ad oggi da quasi 2000 persone, ci siamo ritrovate/i a Riace al fianco di Mimmo Lucano. Un appello semplice ma impegnativo che chiedeva di schierarsi, di tornare nel suo paese per un presidio pacifico, di massa, allegro e pieno di testimonianze.
È stata un’occasione per ripercorrere quei vicoli in cui la convivenza fra popoli e persone non è stata, malgrado una violenza politica travestita da legalità, distrutta. Mancando da anni a Riace ha fatto bene agli occhi rivedere botteghe di prodotti artigianali provenienti da mezzo mondo, spazi rimasti ancora integri con i mille messaggi di pace che alludono ad un futuro che lì si è già fatto presente, di assenza di confini. Hanno ripreso a funzionare, dopo che il tribunale per alcuni anni ne aveva chiesto la demolizione, in quanto “costruzioni abusive”, le fattorie sociali dove si allevano animali, in cui si è ricostruito un ecosistema non solo funzionante ma bello a vedersi e che garantisce reddito a 5 lavoratori rifugiati. In una regione dove l’abusivismo edilizio è la normalità, dove persino edifici ad uso dello Stato non possiedono l’idoneità alloggiativa, si è chiesto di abbattere pollai realizzate con i muri a secco, con le antiche modalità a terrazza. Dopo il sequestro, durato anni, la struttura è stata riconsegnata ai legittimi proprietari che l’hanno risistemata e le hanno ridato vita. Mimmo Lucano raccontava del senso di questa cattiveria con cui si voleva colpire al cuore il modello Riace. Le fattorie erano state realizzate con fondi per l’accoglienza e per le persone ospitate, in maniera tale che anche il passo successivo, previsto dall’allora Sprar (oggi si chiama Sai “Sistema accoglienza e integrazione”) venisse portato a compimento. Ma dimostrare che con poche risorse si può creare coesistenza, lavoro buono, economia solidale, in Italia è un crimine, da questo l’accanimento contro il progetto.
Quando ci si è ritrovati poi in tante e tanti nella piazzetta di Riace in cui si è tenuto il presidio, ci si è immersi in un clima di compattezza sociale e umana difficile da descrivere. In tante/i sono (siamo) intervenuti, portando non solo solidarietà ma impegno e dichiarandoci, in attesa della sentenza, complici di Mimmo Lucano. Fra i presenti Luigi de Magistris, esponenti della sinistra vera, del sindacato dell’Anpi, di un tessuto associativo più forte della cattiveria istituzionale. Lo ha ricordato bene l’ex sindaco di Napoli e attuale portavoce di Unione Popolare dicendo “bisogna fare i conti col fatto che Mimmo Lucano ha fatto la Storia”. Particolarmente toccante l’intervento di Peppino Lavorato, giunto nonostante l’età avanzata a lasciare un proprio ricordo carico di competenza e passione. Peppino Lavorato, uno dei più noti sindaci anti ‘ndrangheta, a Rosarno, dell’allora PCI che nel giugno del 1980 si vide morire fra le braccia, ucciso a colpi di lupara, il compagno di lotta Giuseppe Valarioti, non ha mai smesso di stare dalla stessa parte. Nel suo intervento ha denunciato in maniera impietosa il fatto che il potere della destra attuale derivi dalla lunga assenza di una sinistra di opposizione, democratica e popolare, degna di questo nome.
Il clima però non poteva essere di festa. Poco prima che iniziasse il presidio era giunta la notizia che nello stesso mare, ad un centinaio di chilometri di distanza, si era verificato l’ennesimo naufragio causato dalla fortezza Europa. Un’imbarcazione carica di richiedenti asilo, partita dalle coste turche e giunta 4 giorni dopo in acque italiane, si era fracassata poco prima di giungere a riva. Il bilancio delle vittime aumentava di ora in ora, mentre si svolgeva la manifestazione a Riace. E lentamente emergevano, come i corpi, come i pezzi del relitto, le prime verità. Un velivolo di Frontex, l’agenzia europea che ogni cittadina/o UE finanzia per “proteggere i confini”, aveva comunicato sin dalla sera precedente il naufragio della presenza del natante. Non era stato chiesto intervento di soccorso ma quando si sarebbe ancora potuto intervenire, non lo si è fatto, secondo alcuni per le avverse condizioni metereologiche, secondo altri perché nessuno si è assunto la responsabilità di intervenire. Da lì una ridda di oscenità impossibile a descriversi. Mentre ancora si raccoglievano i corpi, soprattutto donne e bambini, si apprestavano soccorsi ai superstiti e con un bilancio delle vittime ancora incerto, partiva la controffensiva ministeriale. Prima l’accusa rivolta unicamente agli scafisti, i soli ritenuti responsabili del disastro e tutt’ora così considerati anche nei media mainstream, poi le dichiarazioni vergognose dell’inquilino del Viminale che ha avuto l’impudenza di accusare le madri che lasciavano partire i figli, che ha parlato di “vocazione alle partenze” stimolata, per forza di cose dalla disponibilità italiana ad accogliere. Dimenticando che chi aveva sfidato il mare aveva conosciuto prima e durante il viaggio via terra, dolori e privazioni fino alla catastrofe del sisma già rimossa dalla nostra memoria. Al di là di una visione politica miope e priva di prospettive, per cui, in nome di qualche voto in più, ci si adopera, non solo in Italia, per inutili politiche securitarie, fa paura sentire il disprezzo per la vita umana dimostrata, ancora una volta dal nuovo ministro dell’Interno. In lui, come in altri della compagine post-fascista che governa oggi il Paese, accanto ad elementi di continuità con l’atlantismo dei precedenti emerge un rigurgito repressivo di cui forse non si è ancora compresa la portata. Nonostante a definire la nuova maggioranza parlamentare sia stata una percentuale minoritaria degli aventi diritto va registrato il fatto che stia emergendo da anni in Italia e non solo, in piena connivenza con le tecnocrazie liberiste e dell’antipolitica del passato, una cultura ed un’antropologia sociale nuova e pervasiva.
I nuovi quadri dirigenti di FdI, che oggi sono al potere possiedono un impianto ideologico in cui si mescolano nostalgie da ventennio, autoritarismo 2.0, oscurantismo reazionario, rimandi ad una tradizione in cui i ruoli sociali delle persone devono restare confinati in una gerarchia immutabile. Una mutazione più profonda di quanto appaia e che, anche per un insieme di concause, non ultima l’assenza di una reale prospettiva di alternativa, sembra star portando questo Paese verso una deriva passivizzante e radicalmente votata all’individualismo come una chiave di lettura del presente in assenza di futuro possibile. Paure e insicurezze, invece di tradursi in una ricostruzione di vincoli, diventano ragioni per cui arroccarsi nei propri piccoli fortini domestici da rendere puri e inespugnabili, scaricando rabbia, ferocia, frustrazione, in una riproduzione della guerra contro i poveri come patetica parodia della guerra permanente a pezzi che lambisce l’Europa.
Forse è anche per tale ragione che faticano a farsi strada movimenti pacifisti anche nell’ambito della sinistra, in grado di reggere più di una manifestazione e capaci di veicolare messaggi in grado di rompere la bolla del mondo politicizzato. Ed è anche per tale ragione che la guerra in Ucraina poco o nulla influisce rispetto alle scelte politiche ed elettorali. Si tratta di un tema percepito come ineluttabile, secondario rispetto al mantenimento dei propri piccoli privilegi rimasti da paese industrializzato. C’è da capire se e quando altre questioni, che toccano più da vicino direttamente la vita delle persone, dal welfare, alla sanità, al lavoro, al reddito, potranno riproporre segnali di conflitto sociale significativi.

Ma, tornando al naufragio di Cutro e partendo dal presupposto che dopo il sisma che ha sconvolto Siria e Turchia, l’aumento di sfollati derivanti dal combinato disposto di guerra e catastrofe naturale porterà presto la molte persone a riprendere il largo dalla rotta turca. Il viaggio verso l’Europa, reso difficoltoso, più che dalle condizioni del mare dall’assenza di vie sicure di ingresso, dall’assenza di assetti di soccorso, di un piano europeo per far fronte ad un’emergenza umanitaria che non contempli il versamento di altri miliardi di euro al carceriere Tayyp Erdogan, rischia di produrre altre catastrofi annunciate. Basterebbe iniziare, spostando verso l’Egeo, le imbarcazioni della “Missione Irini”, che stazionano nei pressi della Cirenaica, non per fermare le fughe ma per garantire salvezza a chi è costretto a scappare. L’Europa si volta dall’altra parte e l’Italia diventa esemplare in questo cinismo macabro. Oggi si può affermare, con relativa certezza, che il naufragio poteva essere evitato. Lo afferma, insieme ad altri autorevoli, persino il comandante della Capitaneria di porto di Crotone Vittorio Aloi che, intervistato ha dichiarato: «Quel giorno c’era mare forza quattro, non sei o sette. Le nostre motovedette avrebbero potuto navigare anche con mare forza otto». L’invio di mezzi di soccorso sarebbe stato possibile e se ciò non è avvenuto secondo il comandante: «Bisogna riferirsi ai piani operativi, agli accordi ministeriali che ci sono». L’Ufficiale ha confermato che la prima segnalazione di allarme per la Guardia costiera è giunta alle 4.30 del mattino di domenica, a naufragio avvenuto. Cosa si è fatto dall’avvistamento di Frontex (ore 20.00 circa del sabato) e l’arrivo del sos? C’è da augurarsi che i ministeri competenti, Interno e Infrastrutture siano chiamati a risponderne in sede legale nazionale e internazionale perché questo crimine non deve, come altri in passato, restare impunito.
Senza ancora sapere questo, mentre si svolgeva il presidio a Riace, assistevamo indignate/i al solito tentativo di scaricare le responsabilità sugli “scafisti” (che spesso sono soltanto persone che sapendo guidare la nave, non pagano il biglietto) e alle prime accuse del ministro dell’Interno a chi si era permesso di partire. In un Paese normale, come l’Italia non è mai stato, il suddetto non avrebbe mai avuto tale incarico o, altrimenti, sarebbe stato dimissionato senza diritto di replica. Ma la fascistizzazione viene da lontano, lo stesso Marco Minniti, sedicente di sinistra, ebbe il coraggio di dire nel 2017, che le misure di contrasto all’immigrazione erano necessarie per la “tenuta democratica del Paese. Tutte/i coloro che negli anni passati hanno occupato il Viminale con simili politiche, violando ogni convenzione internazionale e causando direttamente morti e respingimenti illegali, dovrebbero, loro si, finire alla sbarra della Corte penale internazionale, la sola adeguata a giudicare certi crimini. E mentre buona parte del mondo politico italiano era presa a dirimere questioni di potere, un segnale piccolo ma necessario, giunge da un professore di periferia, scrittore, autore della web serie Cose da prof, Enrico Galiano. In un lungo post sui social, l’animatore del gruppo #Poeteppisti, che dipinge poesie sui muri delle periferie, ha scritto: «Io glielo dirò, domani, cosa avete fatto. Entrerò in classe e leggerò ai miei studenti le dichiarazioni del ministro che ha detto: “Io non partirei se fossi disperato perché sono stato educato alla responsabilità”.

Contrastare i flussi incontrollati e la rete dei trafficanti. Questa la linea politica, il resto sono vuote strumentalizzazioni». «Le leggerò e mi siederò lì ad ascoltare cos’hanno da dire. Hanno dodici anni, i miei studenti. Ed è giusto che sappiano.[…] Glielo dirò che avete costretto in porto le navi che avrebbero potuto salvarli. Glielo dirò che sono anni che usate la vita delle persone per raccattare quattro voti in più. Glielo dirò che cosa avete fatto. Cosa abbiamo fatto, in realtà. Perché siamo tutti responsabili. Glielo dirò che quelli che c’erano prima non erano così diversi, solo che sapevano nasconderlo meglio. E mandatemi la Digos, mandate chi volete, toglietemi la cattedra, la classe – ha concluso Galiano – Alla fine è tutto quello che sapete fare: usare la forza con i più deboli. Con quelli davvero forti non ci provate neanche. Sospendetemi pure: voglio poter dire a mia figlia, quando sarà grande e vedrà cosa stava succedendo in questi giorni, in questi anni, quando mi chiederà dov’ero, voglio l’orgoglio di poterle rispondere, a testa alta: dall’altra parte».

Grazie prof.

*Resp. immigrazione PRC-S.E. da Transform Italia


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