Josè Saramago, un “comunista nel naufragio” che ci salva dalle tempeste

Josè Saramago, un “comunista nel naufragio” che ci salva dalle tempeste

Stefano Galieni

Capita raramente di leggere le opere di uno scrittore, di impararne, anche tradotto in italiano, la musicalità del suo raccontare parlando e di avere avuto anche il privilegio averlo potuto incontrare, di averci dialogato. Oggi, 16 novembre, avrebbe compiuto 100 anni e chissà quante altre opere ci avrebbe potuto regalare, se non se ne fosse andato anzitempo in quel 18 giugno 2010. Josè Saramago è stato, come amava definirsi, un “comunista nel naufragio”. Dopo un meritatissimo premio Nobel nel 1998 avrebbe potuto tranquillamente rientrare nel novero degli intellettuali graditi al potere, in particolare alla chiesa, invece rimase l’intellettuale che era, quello che, fino a che le forze lo hanno retto, andava ogni anno alla Festa do Avante a portare i suoi libri, ad autografarli con umiltà e con un sorriso che emanava profondità e dolcezza infinita. Veniva da una famiglia di agricoltori che aveva conosciuto la povertà, emigrata a Lisbona in cerca di lavoro e nel pieno della dittatura di Salazar. Fu giornalista, poeta, traduttore, nel 1969 si iscrisse, al Partito Comunista Portoghese allora clandestino, sempre col rischio di ritrovarsi nel mirino della temibile polizia politica. In Italia diviene noto dopo la pubblicazione nel 1984 del “Memoriale dal convento”, ambientato nel diciottesimo secolo in Portogallo, mentre fra conflitti e inquisizione, i protagonisti prendono parte, in maniera diversa, alla realizzazione di un grande convento appunto, da realizzare affinché il re Giovanni V riesca ad avere un figlio. I protagonisti sono Baltasar, un soldato rimasto monco dopo una guerra e che al posto della mano ha una specie di uncino, Bilimunda, una ragazza di origine africana che, a stomaco vuoto diviene veggente e un monaco in odore di eresia che (il personaggio è reale) ha realizzato una macchina volante. Storia violenta ed epica, in cui già Saramago manifesta il proprio ateismo strutturale e in cui emergono personaggi che ricorreranno in altre opere: un uomo dalle facoltà menomate, una donna che ha la capacità di vedere ciò che altro non immaginano, un animale che guida verso la giusta direzione. Il successo porta alla pubblicazione di altri romanzi che via via si snodano. Da Una terra chiamata Alentejo, (precedentemente pubblicato) in cui c’è una famiglia sfruttata ad essere protagonista, quella dei Mautempo (che per nome, vicenda, destino rimandano ai Malavoglia di Verga) e che si conclude in maniera commovente in una piazza nel giorno della Rivoluzione dei Garofani. Ma ogni suo testo meriterebbe una riflessione a se: da “La zattera di pietra”, in cui si immagina la penisola iberica staccarsi dal continente e navigare verso l’America Latina, a “Storia dell’assedio di Lisbona”, ambientata tanto nel Medio Evo che nel presente, al celebre “Cecità” in cui, all’improvviso tutti smettono di vedere e il mondo va in subbuglio all’ “Intermittenza della morte” quando a smettere di agire è proprio la fine della vita umana. Due opere, per non citarle tutte, hanno creato scompiglio nel mondo cattolico: il “Vangelo secondo Gesù”, ambientato in una Palestina tanto simile a quella odierna e “Caino” che rimanda alla notte dei tempi. In entrambi Saramago, ateo al punto da lasciare il Portogallo per non doversi scontrare ogni giorno con la propaganda clericale,  si scaglia contro un dio vendicatore, affamato di potere sull’umanità e di controllo della vita nel pianeta. Un dio che non conosce amore o clemenza e a cui non bisogna credere. Tre volte venne a Roma e per tre volte ebbi occasione di incontrarlo. La prima all’Istituto Latino Americano, dove avrebbe dovuto dialogare con Jorge Amado. Lo scrittore brasiliano non venne per ragioni di salute ma la serata si trasformò in un incontro con i protagonisti dei suoi romanzi, in una storia eternamente ripetuta in contesti diversi: un uomo menomato ma che in quanto tale è dotato di maggiore umanità, una donna che vede, anche quando il mondo sembra averne perso la facoltà, un animale, spesso un cane che, aiutato dal fiuto funge da guida per superare le difficoltà. Parlò in portoghese ma, avendo letto le sue opere, sembrava di poter comprendere una lingua sconosciuta. In un’altra occasione venne all’Università di Roma, nell’aula magna. Alle ragazze e ai ragazzi che lo ascoltavano rapiti strappò un applauso fragoroso affermando, alla fine dell’incontro, “Mi raccomando, quando farete la rivoluzione…chiamatemi”. Poi presentò il suo San Francesco, osteggiato dalla Chiesa che lo considerava blasfemo, al Teatro Argentina. Stupendo tutti venne a parlare di amore e di odio verso il potere, del valore di una libertà che non poteva essere tale col capitalismo. Va letto e riletto Josè Saramago, perché le sue storie trasudano di un comunismo libertario e liberatore, di cui in tante e tanti abbiamo bisogno. Con buona pace di chi, da morto, vorrebbe riportarlo nel pantheon dei grandi scrittori che hanno taciuto. Cento anni dopo è ancora scomodo al potere.


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