Quale tutela per quali profughi

Quale tutela per quali profughi

Stefano Galieni*

La direttiva europea 55/2001 approvata il 20 luglio di quell’anno, è definita in gergo una “dormiente”. Nata per far fronte a due anni di esodo di massa delle popolazioni kosovare successivo ai bombardamenti NATO su Belgrado, era servita per affrontare, anche togliendo impacci burocratici, a quelle che potevano essere emergenze future. Stabiliva una “protezione temporanea” nel caso di arrivo massiccio nell’UE di stranieri che non possono rientrare nel loro paese, in particolare a causa di una guerra, violenze o violazioni dei diritti umani. La normativa stabilisce una tutela immediata e transitoria di tali persone sfollate e assicura un equilibrio degli sforzi realizzati tra gli Stati membri che ricevono tali persone e subiscono le conseguenze di tale accoglienza. Si trattava di una di quelle leggi che poteva contribuire a “fare l’Europa”. Superando infatti egoismi nazionali, la tutela – secondo la direttiva – quando il Consiglio adotta, su proposta della Commissione, una decisione che specifica i gruppi di persone a cui si applica la protezione, questa vale per tutti gli Stati membri. Una protezione di un anno, prorogabile per altri due ma che può interrompersi laddove secondo il Consiglio, sempre su iniziativa della Commissione, avrà accertato che la situazione nel paese di origine consente un rimpatrio sicuro e stabile agli sfollati. Secondo il testo approvato “Possono essere escluse dal beneficio della protezione temporanea le persone sospettate di crimine contro la pace, crimine di guerra, crimine contro l’umanità, reato grave di natura non politica, azioni contrarie alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite e le persone che rappresentano un pericolo per la sicurezza dello Stato membro ospitante”.

Da 21 anni di crisi umanitarie che hanno investito l’Europa ce ne sono state così tante che è impossibile ricostruirle tutte. Ma vuoi che non accadevano in un territorio ritenuto, al di là delle convenzioni, Europa, vuoi che non sempre se ne è raccontata la portata, la direttiva 55 è stata rimossa dalla cassetta degli attrezzi cui poter ricorrere. A dir la verità ci ha provato l’Italia quando, dopo la caduta di Ben Alì in Tunisia e nell’esplodere delle Primavere Arabe, decine di migliaia di persone si riversarono su Lampedusa con lo scopo di raggiungere altri Paesi europei. Si chiese di attivare la direttiva ma la risposta fu negativa. Tante le ragioni, anche termini come “arrivo massiccio” e “promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri” permettevano di rendere discrezionali le interpretazioni, col risultato che la direttiva non venne applicata. Lo fece l’Italia del ministro dell’Interno Roberto Maroni che la applicò unilateralmente, scatenando poi polemiche con le autorità transalpine perché migliaia di giovani cercarono di uscire dall’Italia. Il nostro stesso paese fece una scelta umanitaria ma gestita in maniera, come al solito emergenziale. Fu in quella stagione che si svilupparono infatti i maggiori guadagni illeciti sull’accoglienza e che si realizzò l’operazione criminosa nota come Mafia capitale. Nella riunione del 4 marzo 2022, i ministri dell’Interno dei 27 Paesi hanno comunemente deciso, in ragione della guerra in Ucraina, di risvegliare la direttiva. Del resto i numeri di coloro che premevano ai paesi confinanti era già elevato e aveva superato il milione e mezzo di persone, in maggioranza donne, anziani e bambini. Una decisione da apprezzare – su cui poi però tornare, ma che, per pressione degli Stati del gruppo Visegrad e dell’Austria, ha subito subito una particolare torsione. In Ucraina su 44 milioni di abitanti, ci sono 5 milioni di cittadini immigrati, molti anche da paesi africani e che regolarmente lavoravano fino allo scoppio della guerra. La direttiva si applicherà soltanto a chi ha la cittadinanza ucraina e può dimostrarlo, chi è solo residente, non importa da quanto, dovrà affidarsi alla benevolenza della legislazione dei singoli stati in cui, se riusciranno a uscire, finiranno. Come se su di loro non si abbattessero i bombardamenti.

Ma torniamo alla direttiva e consideriamola alla luce degli ultimi avvenimenti. Gli Stati membri dovranno rilasciare alle persone ammesse alla protezione temporanea un titolo di soggiorno valido per tutta la durata della protezione. All’occorrenza, gli sfollati devono disporre di qualsiasi agevolazione per ottenere i visti prescritti, con formalità e costi ridotti al minimo. Alle persone ammesse alla protezione temporanea saranno accordati: il diritto di esercitare un’attività di lavoro subordinato o autonomo;  di partecipare ad attività nell’ambito dell’istruzione per adulti; della formazione professionale e delle esperienze pratiche sul posto di lavoro; ad ottenere un’abitazione adeguata; a ricevere l’aiuto necessario in termini di assistenza sociale, contributi al sostentamento, qualora non dispongano delle risorse necessarie, e di cure mediche; per i minori, accedere al sistema educativo al pari dei cittadini dello Stato membro.

I componenti di una stessa famiglia che sono stati separati e che sono stati ammessi alla protezione temporanea in Stati membri differenti o di cui alcuni componenti non sono ancora sul territorio dell’UE devono beneficiare del ricongiungimento familiare in un unico Stato membro. Oltre alla necessaria attenzione da riservare ai minori non accompagnati, la direttiva segnala un grande passo avanti rispetto alle normative sull’asilo. In pratica chi fugge potrà o presentare domanda per avere lo status oppure gli Stati – e questo accadrà – potranno decidere che il beneficio della protezione temporanea non sia cumulabile con lo status di richiedente asilo. Questo permette allo Stato di alleggerire l’onere sul sistema asilo di competenza non considerando le domande presentate. Questo significa che chi ottiene la protezione deve restare nello Stato assegnatogli, se va in un altro Stato membro si applicano su di lui i criteri del Regolamento Dublino, si è illegali nello Stato in cui ci si è recati e si viene rimandati nel Paese in  cui si è stati inseriti. Non è prevista dalla direttiva una stabilizzazione in UE dei profughi, ma le esperienze passate mostrano come le guerre possano esplodere in pochi i giorni ma poi trascinare mefitici effetti per decenni, quindi anche tutti gli articoli riguardanti il rimpatrio volontario o forzato quando il Paese da cui si è fuggiti non è considerato più a rischio, difficilmente funzionano e vengono espediti. Tra l’altro è giustamente previsto che se minori iniziano in un Paese UE un ciclo scolastico possano portarlo a termine, difficile poi se non impossibile interrompere rapporti di lavoro e di convivenza che spesso si vengono a creare. La direttiva è poi finanziata mediante il Fondo europeo per i rifugiati, se questo è insufficiente perché in un Paese il numero di persone giunte non può essere supportato, il Consiglio deve intervenire raccomandando un ulteriore sostegno allo Stato membro interessato. Il numero dei profughi dall’Ucraina intanto continua ad aumentare in maniera incessante. Secondo Filippo Grandi, Alto Commissario Onu per i Rifugiati il 7 marzo erano già oltre 1,7 milioni, 500 mila in più rispetto alla rilevazione del 4 marzo. C’è già chi la definisce come la più veloce ondata di profughi della storia e per gran parte si tratta di donne e minori, questi ultimi sovente non accompagnati. Almeno un milione sono entrati in Polonia, altri nei paesi confinanti, Ungheria, Moldavia, Romania e Slovacchia. Da lì sono già in molti coloro che stanno cercando di raggiungere altri Paesi UE dove, insieme ai 5 giorni di quarantena obbligatoria e alla profilassi covid (sparita dalle notizie quotidiane), sperano anche di ricongiungersi con parenti e amici già emigrati. L’Italia è il Paese UE con la più grande comunità ucraina, quasi 240 mila persone, quindi non a caso sono 21.095 i cittadini ucraini entrati in Italia, alla sera dell’8 marzo di cui: 10.553 donne, 1.989 uomini e 8.553 minori. Questo nonostante la stessa ministra dell’Interno Lamorgese avesse potuto garantire, al vertice del 4 marzo, posti in accoglienza al massimo per 13 mila persone, una parte nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), altri nel Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI). Peccato che gran parte di questi ultimi sia ancora occupato dai profughi afghani fuggiti dopo l’arrivo dei talebani il 15 agosto scorso, costretti ancora nei centri per la lunghezza delle procedure di protezione e asilo. Per loro infatti la 55/2001 non si è applicata. Altra ingiustizia. Secondo le stime, ad oggi affatto certificabili, in Italia potrebbero giungere 800 mila persone. In gran parte potranno si spera essere sostenute dalla comunità ucraina, per molti si spera di poter ottenere altri posti in accoglienza anche con bandi straordinari, di utilizzare gli hotel covid a meno di recrudescenze e i tanti ostelli della gioventù ancora deserti causa pandemia. Ma difficilmente si potrà coprire il necessario. La scelta miope di distruggere il sistema d’accoglienza che, con tanti limiti, in Italia si andava realizzando fino al 2017, ha portato alla scarsità di posti e di competenze da mettere in campo. Col risultato che si ritorna alla corsa contro il tempo per salvare il salvabile. Il capo dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione, Francesca Ferrandino, ha diramato il 2 marzo ai prefetti una circolare  con indicazioni operative per attuare quanto previsto dopo le decisioni belliche del governo messe in atto col decreto legge 16 del 28 febbraio 2022. Da ultimo un fattore per ora rimosso. Nel 2020, attraverso la legge per l’emersione del lavoro nero, in particolare rivolta a colf e badanti, si annunciava che gran parte degli “irregolari” avrebbero visti risolti i propri problemi. Molte collaboratrici familiari sono ucraine, molte hanno presentato domanda di regolarizzazione, altre non ci sono riuscite. A pochissime è stata data finora risposta. Che fare di coloro che non sono scappati dalla guerra ma non possono tornare nel loro paese? Qualcuno dovrà risolvere anche questo problema.

Il blocco dei corridoi umanitari, causato da reciproche accuse di russi e ucraini di non garantire la sicurezza dei convogli, ha solo momentaneamente rallentato la fuga ma se soprattutto dovessero cadere Kiev e le altre grandi città, le previsioni dell’Unhcr secondo cui un decimo degli ucraini uscirebbe dal Paese, 4 milioni e mezzo di persone, sarebbero al ribasso. I fondi per il soccorso, il trasporto e l’assistenza derivanti dagli impegni di protezione potrebbero presto non essere sufficienti. Per tale ragione l’Unhcr insieme ad altre organizzazioni internazionali hanno lanciato un appello con cui si chiedono 1,7 mld di dollari in tempi rapidi. Ma oltre le risorse, la situazione dei paesi confinanti l’Ucraina sembra rappresentare una sorta di nemesi storica e politica. Coloro che, a partire dal gruppo Visegrad, si oppongono più di altri a condividere obbligatoriamente e non per etici vincoli di solidarietà, la ripartizione dei profughi di ogni guerra, ora sono in prima fila nel doverne accogliere da un paese solo. La Polonia riesce contemporaneamente a mostrare un volto umano e solidale nelle sue città di confine, dove attrezza posti per rifornirsi a chi arriva dai luoghi di guerra, arrivando ad accogliere ovunque è la stessa il cui governo continua a fermare i circa 3000 afghani, siriani, iracheni, che si sono ammassati alla confine con la Bielorussia. Molti sono stati lasciati morire di freddo, qualcuno ha avuto la fortuna di incontrare gli attivisti delle “lanterne verdi” che, disobbedendo al potere, hanno accolto e riscaldato. Ma si tratta di eccezioni. In Ungheria il paesino di Zahony, a 2 km dal confine ucraino di Chop è il solo valico ferroviario percorribile. C’è un caos indescrivibile dallo scoppio della guerra, tante e tanti sono coloro che cercano di fuggire. Hanno un biglietto di viaggio gratuito e, per coloro che provengono da altri paesi extra UE, le ambasciate provvedono a fare biglietti, anche aerei, per il ritorno a casa. C’è un lavoro enorme delle associazioni ed un tacito silenzio del governo che non ha solo motivi umanitari. Fra coloro che arrivano in Ungheria ci sono circa 150 mila persone, provenienti dai Trans Carpazi, spesso con doppia cittadinanza, ungherese e ucraina, quindi con diritto di voto. Sono per la maggior parte rom che per Orban non rappresentano certo l’ideale magiaro ma fra un mese in Ungheria si vota e conquistarsi, a spese del fondo europeo per i rifugiati, voti insperati, non è certo un regalo che capita tutti i giorni. Il ministro degli esteri, Peter Szijjarto, al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che impedirà il passaggio ai migranti illegali “aggressivi”, ovvero ai non ucraini. Tanto in Polonia che in Ungheria, soprattutto nei primi giorni, coloro che non avevano caratteri somatici tipici dell’Ucraina sono stati respinti alla frontiera. Ora c’è un atteggiamento più discrezionale. In Romania si sta realizzando un immenso hub, tenendo conto che sono oltre 600 i km di frontiera terrestre condivisa con l’Ucraina. Molti fuggono da Odessa, che – mentre scriviamo – si teme di vedere attaccata. Ci si butta anche nel gelido fiume Tisa per raggiungere la cittadina di Sighet e da lì attendere di poter ripartire. Dal 24 febbraio al 6 marzo sono passati di lì 77.600 profughi di cui 55.000 ucraini. Un passaggio ordinato secondo molti. Dopo un momento di rifocillamento si sceglie. Ci sono 5 grandi tende azzurre con le bandiere di Italia, Germania, Romania, Polonia, Repubblica Ceca. Si può scegliere dove provare ad andare. Ma per ognuno che parte ce ne sono molti che arrivano. Secondo il presidente rumeno, Klaus Iohannis, una struttura per chi ancora non è riuscito a partire, almeno 50mila di cui 18mila bambini, sarà presto pronta. I primi 500 mln di aiuti umanitari del fondo UE sono giunti quindi vengono centralizzati per essere poi distribuiti, insieme alle ulteriori donazioni, nelle altre città rumene e in Moldova. La Repubblica Ceca ha dichiarato un mese di stato d’emergenza. «È necessario per poter gestire il flusso in ingresso dei rifugiati e non riguarderà i cittadini cechi». Ha affermato il primo ministro Petr Fiala. Germania e Francia tengono le porte aperte, dal Regno Unito, non più UE, è partita una donazione straordinaria. Il primo ministro Johnson ha dichiarato che ogni sterlina che giungerà da privati verrà raddoppiata da un equivalente proveniente dal bilancio statale. Peccato che ad oggi, 7 marzo, siano giunti in Gran Bretagna non più di una cinquantina di profughi ucraini.

Ma al di là dei dati e delle polemiche, resta un punto su cui è necessario fermarsi. La giustissima direttiva 55/2001 è in procinto di essere abrogata dopo non essere mai stata applicata per gli infiniti esodi in paesi non europei. Dalla Siria, nel marzo 2020 si contavano fossero fuggiti 11 milioni di persone; l’Europa che per alcuni mesi, nel 2015 ha accolto, ha poi demandato alla Turchia di Erdogan il compito di tenersi qualche milione di persone pagando 6 mld di euro in due tranche. Lo stesso si è fatto con la Libia per numeri infinitamente minori, solo l’Italia dal 2017 al 2020 ha erogato 787 mln di euro alla sedicente guardia costiera libica per fermare profughi e gli oltre 80 mila respinti illegalmente in questi anni, neanche hanno avuto il privilegio di poter essere interrogati da autorità europee affinché potessero presentare una domanda di protezione. A rimandarli nei lager libici ci hanno pensato le navi di Tripoli che ricevevano indicazioni per fermare i fuggitivi grazie agli strumenti di controllo di Frontex, agenzia europea per il controllo delle frontiere dal bilancio sempre opaco. Siriani, persone provenienti da conflitti come quelli mai interrotti nel Corno D’Africa, o in paesi dell’Africa Occidentale, non hanno beneficiato che delle elemosine dell’Unhcr e di qualche ingresso in Europa pagato col sangue di coloro che in silenzio hanno perso la vita nel viaggio. Per non parlare del silenzio che avvolge i conflitti dimenticati in Yemen, Congo, Repubblica Centrafricana, Libano…

L’emergenza umanitaria in Ucraina giunge in un momento cruciale. Col New pact on migration and asylum, del 23 settembre 2020 e un quadro di riferimento più proiettato verso i continenti dell’Asia e dell’Africa, si voleva di fatto cancellare anche l’eventualità che la 55/2001 potesse essere riutilizzata. Il combinato disposto di rimpatri per chi non è considerato profugo, detenzione per richiedenti asilo, ripartizione volontaria, accordi bilaterali per impedire di forzare le frontiere, avrebbero risolto alla radice un problema che presto si ripresenterà. Passati infatti i primi mesi di afflato umanitario, anche i profughi ucraini conosceranno, purtroppo, i pregiudizi, le diffidenze, gli sguardi ostili rivolti verso chi malgrado tutto è considerato straniero e bisognoso di sostegno. Non stupirebbe quindi sapere che la Commissione e il Parlamento Europeo cerchino di accelerare il percorso di approvazione del New pact senza modificarne i limiti strutturali. Non fossimo in un contesto diverso, si potrebbe auspicare che la carneficina che sta avvenendo in Ucraina, costringa a rivedere, in maniera programmatica e più realistica quanto accade ai tanti confini instabili del continente. La memoria europea è così scarsa che ha portato autorevoli commentatori a dichiarare, senza essere smentiti, che quanto sta accadendo ha paragoni purtroppo solo durante la seconda guerra mondiale. Come se le carneficine nell’ex Jugoslavia, durate quasi 20 anni, fossero avvenuti in un’altra era o in un altro pianeta. La proposta di settembre 2020 della Commissione, presentata da Ursula Van der Leyen, mantiene l’approccio emergenziale quando invece serve all’intero continente prefigurare un approccio sistemico e una visione organica dei diritti al movimento che quantomeno sposterebbero l’attenzione sui bisogni di chi fugge. Oggi chi viene dall’Ucraina, ha un passaporto, una cittadinanza certa, la pelle bianca, riesce a salvarsi ma chi non rientra in queste caratteristiche?

Questi fatti, che comprendono contemporaneamente cinismo, ipocrisia e iniziative di splendida azione umanitaria, insinuano però un dubbio interiore che ci riguarda tutte/i. L’allargamento ad Est dell’UE, procede in maniera profonda dal crollo del muro. Se per alcuni anni era vista come fonte di problemi, tanti i pregiudizi di cui ancora continua ad essere circondato l’intero mondo slavo, oggi sembra comunque una sorta di agente di riequilibrio rispetto ai movimenti dai Sud del pianeta. Il nazionalismo russo putiniano, sta producendo, in pochi giorni, una catastrofe senza eguali, ma che dire di quelle che in silenzio continuano ad avvenire verso chi non è di pelle bianca, di religione cristiana, non è insomma considerato, almeno in parte europeo? A quello putiniano fa da contraltare un tentativo condiviso di mantenere un Europa, fondata su una presunta purezza e omogeneità etnica tanto artificiosa quanto misera. Non è questo il futuro dell’Europa, non lo è del pianeta intero, ma finché si continueranno a produrre leggi e direttive escludenti, è questo il cammino che si intraprende.

*www.transform italia.it


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