LA CELEBRAZIONE DELLA NASCITA DEL PCI

LA CELEBRAZIONE DELLA NASCITA DEL PCI

Gianluigi Pegolo*

Non puro atto testimoniale, né riflesso nostalgico, ma elemento d’ispirazione per la lotta presente.

L’iniziativa promossa dalla federazione di Livorno del nostro partito sulla commemorazione della nascita del Partito Comunista Italiano costituisce un evento importante – non solo per l’importanza dei relatori (in primis i professori Angelo d’Orsi e Paolo Favilli), ma in particolare per l’impostazione assunta. Infatti, essa non si limita alla ricostruzione storica di un avvenimento fondamentale nella storia del nostro Paese, ma cerca di metterne in luce gli elementi di originalità e di attualità.

A tale proposito, infatti, è diventata ormai prassi comune in questa ricorrenza indugiare sulla ricostruzione storica, magari per stigmatizzare la nascita del PCI come scelta irresponsabile di rottura della sinistra, oppure, senza incorrere in queste posizioni revisioniste, celebrare tale avvenimento come puro atto di testimonianza o di ricerca di un’ortodossia perduta.

Ciò che invece rende interessante una riflessione sulla storia del PCI oggi è, in primo luogo, la ricerca di una spiegazione dello straordinario successo che ebbe questo partito. L’essere diventato il più grande partito dell’Occidente non può essere considerato un esito casuale. Certamente le spiegazioni sono molteplici, ma mi pare sia utile sottolineare come a questo esito abbia concorso non solo la tenacia della battaglia antifascista emersa in tutta la sua portata nella lotta partigiana – che ci rimanda a fondamenti di classe molto radicati e a un’idea di partito fortemente militante – ma anche all’innovazione rappresentata dalla svolta di Salerno, nel momento in cui prevalse la necessità di partecipare alla ricostruzione di un assetto democratico costituzionale del Paese.

In questo passaggio vi fu la maturazione di un punto di vista diverso dal passato sul processo rivoluzionario; al modello dell’insurrezione bolscevica si sostituì quello di una conquista graduale del consenso, che non rinunciava, tuttavia, né alla centralità del radicamento sociale – in primis nel proletariato – né alla promozione di un cambiamento sociale e istituzionale, attraverso lotte di massa. In questa evoluzione è evidente il maturare di una riflessione nel gruppo dirigente, il cui contributo principale venne da Gramsci e dalle sue elaborazioni sulla rivoluzione in Occidente; si spiega così il protagonismo sociale e politico del PCI.

Dopo gli anni ‘60, pur restando un protagonista della storia repubblicana del Paese, il PCI vide indebolire il proprio ruolo. Intercettò solo in parte i grandi movimenti della fine degli anni ‘60, si cimentò nel tentativo fallito del compromesso storico e, quando riscoprì con l’ultimo Berlinguer un più deciso profilo alternativo, si trattò di una breve stagione, cui fece seguito una deriva che giunse fino alla svolta occhettiana e alla sua liquidazione. Una fine ingloriosa sulla quale occorre indagare. Fra i tanti elementi che spiegano questo declino l’elemento più rilevante è stata l’incapacità alla fine degli anni ‘60 di comprendere le novità rappresentate dal neo-capitalismo e di saperle reinserire in una visione strategica coerente. Non a caso, alla fine, ciò che prevalse nel gruppo dirigente fu la scorciatoia politicista, motivata dallo scetticismo sulla capacità di produrre una crescita ulteriore del consenso.

L’altro interrogativo che resta aperto è se questa storia gloriosa si sia definitivamente chiusa con la svolta occhettiana o se in essa siano rintracciabili elementi teorici, pratiche o elementi di pensiero politico che possano essere utilizzabili ancora oggi per sostenere l’azione di un partito comunista – o, più in generale, di una sinistra anticapitalista. A me pare, che a differenza di quanti – anche a sinistra – continuano a dichiarare il comunismo una parentesi storica ormai chiusa e la storia del PCI ormai definitivamente derubricata, vi siano elementi fertili in quella storia che possano guidare l’agire politico di oggi.

Tali elementi sono numerosi, e sarebbe complesso in questa sede elencarli, ma essi ruotano intorno ad alcune concettualizzazioni prodotte dal pensiero di Gramsci e in parte attuate con originalità da Togliatti. A titolo di esempio: l’idea di un partito militante e colto, che trova nel mondo del lavoro il suo radicamento essenziale, ma che sa stendere la sua presenza ad altri settori della società; che sa essere promotore di lotte di massa e costruire organizzazione sociale, che conosce l’importanza anche in momenti specifici della mediazione politica.

Tutto ciò alla fine può riassumersi in una visione della lotta politica come lotta di classe, ma con una tensione molto forte all’egemonia. Quando pensiamo al nostro partito, alle difficoltà che incontriamo, dobbiamo riflettere su questa esperienza unica che è stata il PCI. Vi troveremmo – io credo – molti suggerimenti per il rilancio di un partito comunista in grado di proiettarsi verso il terzo millennio.

*Direziona nazionale PRC-S.E.

 


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