Almudena Grandes: comunismo e libertà

Almudena Grandes: comunismo e libertà

“Gli uomini senza idee non sono affatto uomini, gli uomini senza idee sono pupazzi, burattini o peggio, persone immorali, senza dignità, senza cuore”, così scriveva la scrittrice spagnola Almudena Grandes, purtroppo uccisa dal cancro a soli 61 anni. L’autrice di Le età di Lulù apparteneva alla generazione che era cresciuta nella dittatura franchista e che ha superato/rifiutato con grande vitalità e creatività la morale del clericofascismo: “la mia generazione viveva in un paese dove il peccato era peggio del crimine”. Ci lascia libri molto belli e tante testimonianze di impegno. Questa dimensione politica è sottolineata dai messaggi di cordoglio delle nostre compagne e dei nostri compagni del Partito Comunista Spagnolo, di Izquierda Unida e di Unidas Podemos. Nei suoi romanzi e nei suoi articoli ha difeso la memoria antifascista del paese e in particolare il ruolo svolto dai comunisti. Presentando il suo romanzo Ines e l’allegria dichiarò che “i comunisti sono stati gli unici che non hanno smesso di lottare contro la dittatura. E’ vero che hanno fatto anche cose sbagliate, ma almeno le hanno fatte. La democrazia spagnola ha un grande debito di gratitudine verso i resistenti comunisti”.  Vi propongo un articolo dalla sua rubrica sul quotidiano El Pais di pochi mesi fa. Si intitolava Comunismo y libertad. Buona lettura! (Maurizio Acerbo)

C’è stato un tempo, lontano ma non remoto, in cui i termini comunismo e libertà erano sinonimi. È successo in Spagna, un paese che aveva lo stesso nome e occupava lo stesso territorio del paese in cui viviamo ora, ma era ovviamente diverso.

A quel tempo, che vivevano i nonni di noi che siamo più grandi, i bisnonni dei più piccoli, gli spagnoli erano molto poveri. Non solo nelle campagne, ma anche nelle città, la maggioranza della popolazione non sapeva né leggere né scrivere, anche se spesso qualcuno avrebbe insegnato loro a firmare, sigle tremolanti, tracce infantili che conservavano per tutta la vita. Ora è molto facile pensare che fossero persone povere, persone minime, insignificanti creature inermi sopravvissute miracolosamente, e dal punto di vista materiale, è vero. Molte viaggiarono di città in città a mani vuote, il numero di telefono dei parenti annotato su un pezzo di carta, notte e giorno. Secondo il calcolo delle probabilità che usiamo oggi, la cosa più ragionevole sarebbe pensare che quasi tutti sarebbero morte, ma la verità è che non solo sono sopravvissute, ma sono anche riuscite a prosperare. Da insediamenti di baraccopoli o stanze in affitto in edifici che cadevano a pezzi, a forza di lavorare come animali, in condizioni di sfruttamento che nessuno oggi accetterebbe, sono riuscite a trasferirsi in piccoli appartamenti in quartieri brutti, agglomerati di case a buon mercato, senza alberi, senza giardini, senza servizi, un paradiso per chi aveva vissuto all’inferno. Non ce l’avrebbero mai fatta senza l’aiuto di altri disgraziati come loro, improvvisati artefici di reti di solidarietà generosa e costante, che nella maggior parte dei casi, prima o poi, si dichiaravano orgogliosamente comunisti. Così, quella parola che, dai pulpiti e dalle scuole nazionali, dalla stampa del Regime e dalle caserme della Guardia Civil, fu proclamata anatema, la chiave della barbarie, il numero del caos, acquisì nuovi significati.

È paradossale che, dopo più di 40 anni di democrazia, la versione coniata dalla dittatura franchista resti più viva del ricordo dell’unica organizzazione politica che ha combattuto contro il dittatore per 37 anni di fila, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Mi vengono in mente diversi motivi per spiegarlo e nessuno mi piace, ma forse il più decisivo è che quei miserabili spagnoli, a cui mancava tutto, avevano l’illusione per il futuro, la capacità di sognarlo. Non avevano avuto un libro tra le mani in vita loro, ma era molto difficile ingannarli. Erano poveri, e lo sapevano, sapevano che da soli non sarebbero andati da nessuna parte, che dovevano fare affidamento su altri come loro, per poter sostenere chi veniva dopo. Sapevano che gli interessi dei ricchi erano opposti ai loro, che non avrebbero conquistato nulla se non insistevano nel difendere i propri orizzonti e che la loro unica forza era l’unità. Questo, essendo così miserabili, li rendeva potenti allo stesso tempo.
Dov’è andata a finire tutta quell’esperienza, quel modo di intendere la vita genuinamente spagnolo, radicalmente estraneo alla figura di Stalin o di Castro? Non lo so. Neanche a questo vogliono pensare i nipoti, i pronipoti di quelle persone così povere, così ricche allo stesso tempo. Sicuramente sembra loro un brutto, spiacevole passato, si vergognano di raccontare ai loro amici in quali condizioni ha dovuto vivere la loro famiglia non tanti anni fa. Non sono in grado di distinguere la luce che illumina la storia di tanta sofferenza, di ammirare la resistenza erculea di chi è riuscito ad andare avanti contro ogni previsione. Non è colpa loro, è il segno dei tempi, la condizione di chi abita l’epoca che ha sancito un feroce individualismo come arma suprema del capitalismo trionfante.

Prima di finire questo articolo, voglio mandare un abbraccio a Pablo Iglesias. Tra le cose per cui devo ringraziarlo, quella che più mi commuove è che ha osato difendere l’onore dei vecchi comunisti spagnoli dal banco azzurro del Congresso.

È confortante che, di tanto in tanto, qualcuno dica la verità.

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Fonte: blog di Maurizio Acerbo

 



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